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 Geremia: “cent' anni di solitudine” e l’epifania dell’altrodi M. Cristina LucchettaE’ un avaro Geremia e un usuraio a tutto tondo. Laido e repellente. Orripilante. Un uomo di confine, ai margini di se stesso che vive in una casa perennemente in ombra e lenisce i suoi mal di testa con bandane di tela bianche e fette di patate crude.
Un usuraio del sud che si allontana, apparentemente, solo per geografia dai più illustri archetipi letterari e cinematografici. Eppure nella dolente e malinconica caratterizzazione di Sorrentino, Geremia oltrepassa lo stereotipo classico e finisce con l’universalizzare qualcosa di più del semplice avaro, dell’usuraio tout court. Probabilmente è per questo che suscita orrore e tenerezza. Geremia “riccopovero”, depauperato ab inizio per natura e per destino, è il “luogo” di un vuoto e di una assenza: ciò che non si è e non si è mai stati, ciò che non si ha e non si ha mai avuto. E non vi è facile redenzione dalla bruttezza e dal rifiuto. Una possibile ma nichilistica via di uscita è il possesso, l’attaccamento alle cose, al denaro; il potere sull’altro che non ci ama. Così l’avarizia di Geremia è una istanza inconscia di giustizia. “Siamo malati Amanda ma siamo bellissimi”. Repellente e sordidamente bello Geremia, anche quando la mdp è impietosa nel riprendere le sue morbosità che altro non sono che il grido ripetuto del “mai avuto”, la nostalgia di un cuore che ancora desidera. E proprio questo desiderio rimanda ad un “oltre” e a una bellezza che pure esiste finanche nel cuore usurato-usurante di un avaro. E ad un’attesa. E l’altro, Rosalba, irrompe; si manifesta al desiderio camuffato da brama di possesso. Per un attimo Geremia crede e da fiducia, si abbandona ad una accoglienza che sembra perdonare la sua diversità. Perde la sua fortuna ma non dispera. Ricomincia dall’acqua di una fontana. In un attimo e per un attimo ha sconfitto “cent'anni di solitudine”.M Cristina Lucchetta