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Un blog creato da nottelunas il 12/09/2006

amareilcinema

Parole di cinema scritte ( e trascritte ) di notte e tant'altro per chi ha cuore e occhi per vedere.Per chi ama il cinema.Per chi ha ancora un sogno

 
 

Chi cammina si intorbida,

l'acqua corrente non vede le stelle,

chi cammina dimentica,

e chi si ferma sogna.

             F. Garcia Lorca

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AREA PERSONALE

 


Il sogno

Se il sonno fosse (c'è chi dice) una
tregua, un puro riposo della mente,
perché, se ti si desta bruscamente,
senti che t'han rubato una fortuna?
Perché è triste levarsi presto? L'ora
ci deruba d'un dono inconcepibile,
intimo al punto da esser traducibile
solo in sopore, che la veglia dora
di sogni, forse pallidi riflessi
interrotti dei tesori dell'ombra,
d'un mondo intemporale, senza nome,
che il giorno deforma nei suoi specchi.
Chi sarai questa notte nell'oscuro
sonno, dall'altra parte del tuo muro?


JORGE LUIS BORGES


 

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AMORE DOPO AMORE

Tempo verrà
in cui, con esultanza,

saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell'altro,

e dirà: Siedi qui, Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io:
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d'amore,

le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti: E' festa: la tua vita è in tavola.


Di  Derek Walcott                                                                                                                          Citato nel Film "La Febbre"

 

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Film (Cartone) stupendo... l'ho visto 3 volte... e non...
Inviato da: lina.s69
il 03/04/2010 alle 18:39
 
Domani lo guarderò sicuramente...^__^ Buonanotte,...
Inviato da: martha76.mt
il 06/01/2010 alle 02:11
 
Devo vederlo presto.
Inviato da: fotoraccontare
il 28/11/2009 alle 17:00
 
Occorrerebbe registrare i dialoghi.... potrebbero...
Inviato da: nottelunas
il 30/10/2009 alle 08:48
 
Hai ragione! E' una perla, una bellissima...
Inviato da: nottelunas
il 30/10/2009 alle 08:45
 
 

 

Perso e ritrovato! IL RICCIO

Post n°141 pubblicato il 11 Maggio 2011 da nottelunas

 

"Il RICCIO"

di Mona Achade (Francia, 2009)

 

Recensione di Rossella Valdrè

 "Risposi che le persone colte non leggono libri,
vivono con essi" 
(M.Khan)

Winnicott diceva che, per certe persone, "...e' fondamentale nascondersi, ma e' terribile non essere scoperti".

Sembra proprio il cuore della vicenda di Renée, la portinaia protagonista de Il riccio, piccolo film francese dell'esordiente Mona Achade. L'autrice del romanzo da cui il film e' tratto, Muriel Barbery, pare si sia irritata perche' il film non resta fedele al libro: per fortuna, a mio parere. Questo e' uno di quei rari casi in cui un film ispirato ad un romanzo e' migliore del romanzo stesso (o comunque, e' un'altra cosa): piu' intenso, piu' vero, piu' dolente, piu' essenziale. Tolta la patina dell'eleganza, quello che resta e' il riccio, il nascondimento.

Occupiamoci pertanto solo del film.

Siamo a Parigi, nell'elegante palazzo dove risiedono cinque ricche famiglie dell'alta borghesia; all'ingresso, il piccolo appartamento di Renée, la storica portinaia, brutta e grassoccia, dai modi ispidi come un riccio, che fa il suo lavoro in modo diligente, lo sguardo cupo, vedova da tanti anni del marito portinaio, sola. A tutti occorre rivolgersi a lei, e' comunque una figura essenziale nella vita del piccolo esigente palazzo. Nessuno, in fondo, la conosce davvero. Nessuno la vede. Tutti la incrociano distrattamente, le rivolgono richieste, ma senza vederla, senza ascoltarla.

Si interessa a lei, inaspettatamente, un nuovo inquilino, il triste e raffinato giapponese Ozu. Anche lui molto ricco, ma sobrio; anche lui vedovo e solo. Il signor Ozu e' curioso, intelligente, e si accorge da un dettaglio che la portinaia Renée coltiva un giardino segreto dentro di se': e' una donna colta. Renée si lascia scappare (e non casualmente, proprio con lui) il famoso incipit di Anna Karenina "tutte le famiglie felici si somigliano...", aprendo cosi' a Ozu, uomo colto a sua volta, uno spiraglio per farsi conoscere, per farsi intravvedere. Insieme a Paloma, infelice e intelligentissima dodicenne che vive in un altro appartamente dello stabile, si viene cosi' a comporre il triangolo essenziale dei personaggi che abitano il nostro elegante microcosmo.

Tre solitudini, tre destini, tre menti raffinate e alla ricerca di un senso dell'esistere si incrociano, si toccano, la loro vita ne cambiera' per sempre. 

 

Paloma, a cui e' affidato l'io narrante della storia, da brava pre-adolescente inquieta e' impegnata a tempo pieno a cercare di differenziarsi dai genitori, cosa non facile visto che ha un padre ministro della Repubblica e una madre eternamente nevrotica ed eternamente in analisi; decide allora di 'programmare' di suicidarsi entro il prossimo compleanno. Nei giorni che intercorrono, entro cui si snoda il racconto del film, riprendera' con una cinepresa i personaggi intorno a lei, il suo piccolo ma ricco mondo animato dai familiari e dagli altri abitanti del palazzo, seguendoli voyeristicamente con occhio ironico e disincantato, con quella saccenteria innocente ed insieme pedante tipica di alcuni adolescenti intelligenti.

Abbiamo subito l'intuizione che il suo progetto mortifero non sia poi tanto serio, che poggi su una fascinazione della morte di marca, appunto, adolescenziale, colorata da un ben deciso tratto isterico; e tuttavia, l'impatto con la morte (improvvisa, non certo 'programmata') non e' esente dal film. Solo, non sara' la piccola Paloma a morire...... 

La vita sfugge al nostro controllo. Puo' accadere l'inaspettato (l'incontro tra Paloma e Ozu, tra Ozu e Renée), mentre l'apparente urgenza dei progetti puo' decadere all'improvviso, non piu' necessaria (l'intendimento suicida di Paloma). C'e' sempre una possibilita' di crescita.

Paloma la coglie nel segreto di Renée: capisce che lei non e' una portinaia come tutte le altre, non e' una persona qualunque, intravvede nel piccolo appartamento una porta chiusa.

Deliziosa metafora di una sorta di spazio privato del se' (e di area traumatica, ricordiamo il romanzo "La porta" di Magda Szabo', dove e' la porta a celare il segreto della vecchia Emerenc) la porta chiusa contiene libri, moltissimi libri stipati uno sull'altro. Solo alla fine, Renée la 'dimentichera'' aperta...

Lo spazio segreto della goffa portinaia, il suo se' privato e custodito negli anni come un tesoro segreto, e' la conoscenza, quello straordinario universo transizionale che e' la cultura. E' in questo delicato spazio transizionale, appunto, che avviene la possibile trasformazione dei tre personaggi, il loro peculiare incontro. Paloma ha un'occasione di crescita, quella che non trovava in famiglia, Ozu e Renée godono alcuni attimi di una splendida affinita' elettiva, che sembra ripagarli di tanta solitudine, anche se non durera' a lungo...  Il finale sembra tragico, ma in fondo non lo e': dal momento in cui viene finalmente vista e ascoltata, la vicenda umana di Renée si puo' concludere, con la stessa modalita' della sua eroina Anna Karenina. Investita. Travolta.

C'e' una frase che ricorre, e' Paloma a ripeterla alla portinaia. Tu hai trovato il miglior nascondiglio. Che pronfonda necessita', per un'adolescente si sa, ma per tutti noi, possedere un nascondiglio. Dal quale poi essere ripescati, come scrive Winnicott, certo, nel quale essere talvolta sorpresi, ma che bisogno antico, profondo, quello di avere un angolo socchiuso allo sguardo esterno, riparato. In questa epoca di tutto fuori, tutto mostrato, sembra vigere l'imperativo opposto, tutti vogliono spasmodicamente parlare o far parlare di se'; l'esigenza di una porta chiusa dentro di noi, viene vista con sospetto. Persino i silenzi del paziente, talvolta, le sue chiusure, rischiamo di non tollerarli a sufficienza, di prenderli come attacchi alla nostra pretesa vicinanza, rischiamo di dimenticare quale linfa vitale possa costituire per il soggetto umano, la presenza di uno spazio segreto dentro di se', sostanzialmente inviolabile, essenzialmente privato. Il film, in questo senso, appare elegantemente ottocentesco, come i romanzi dell'amato Tolstoj: il piccolo intenso mondo del palazzo parigino tesse vicende, affetti, emozioni trattate con un pudore ed un garbo lontano dai toni della contemporaneita', sempre cosi' urlata, cosi' mostrata. L'amore nascente tra Ozu e Renée, profondissimo, non e' fatto che di sguardi e intuizioni. Timido, celato, attonito quasi.

 Scrive Masud Khan che "..una persona puo' nascondere se stessa dietro ai sintomi, ma puo' anche assentarsi in un segreto. In tal caso il segreto costituisce uno spazio potenziale in cui l'assenza prende la forma di una sorta di animazione sospesa. Come la rendenza antisociale in Winnicott, cosi' il segreto implica la speranza che un giorno si possa venirne fuori, che qualcuno ci trovera' e ci parlera', e cosi' potremo tornare a essere persone intere, che vivono insieme agli altri" (1990, I Se' nascosti) corsivi miei. Talvolta, prosegue sempre l'Autore, questi segreti, nati nel bambino come tentativo di crearsi uno spazio potenziale, sfiorano la reticenza, e l'analista e' tentato di interpretarli come resistenze, rischiando cosi' di violare uno spazio che forse sfugge al nostro accesso, ma vitale per la persona.

Dunque, l'evocazione alla psicoanalisi, nel film, non e' certo quella stereotipata e caricaturale della madre di Paloma, nevrotica "in analisi da dieci anni secchi", ma essa sta nel richiamo all'importanza dell'ascolto (Ozu e' il primo, con Paloma, ad ascoltare veramente Renée dopo tanti anni), dello spazio segreto da preservare e insieme da dischiudere, della delicatezza della crescita sempre in bilico tra vita e morte, del vedere l'altro, finalmente, al di la' della maschera del quotidiano e dei ruoli sociali.

Il sociale resta sullo sfondo, ma non e' assente. Renée non ha potuto studiare perche' era povera, al contrario Paloma e' schiacciata, come la sorella, dall'eccesso di opportunita' (per cui prende Renée a modello e da grande vorra' "fare la portinaia"). Le due figure sono l'una l'alter ego dell'altra: al proprio destino povero, Renée ha contrapposto la stanza chiusa della conoscenza, spazio privato che deve difendere anche perche' non venga squalificato, mentre ad un futuro che si preannuncia temibilmente prevedibile, infelice e nevrotico (la nevrosi qui appare come ottocentesca malattia della borghesia), Paloma contrappone una sperimentazione ed una curiosita' solitaria che la portano ad esplorare creativamente il mondo. Rispetto alla desolata solitudine di Renée a cui nessuno si interessa, Paloma soffre invece le attenzioni di genitori che non sanno come carpirne le confidenze, di una madre che si lamenta del fatto che "con lei non parla", barricata in cameretta come tute le ragazzine. L'una desidera inconsciamente essere scoperta, l'altra lotta per conquistarrsi, anche lei, un nascondiglio.

A legare l'una all'altra e' la gentile e pensosa presenza del signor Ozu; attraverso lui e Renée, una sorta di genitori dell'anima, si snoda questa delicata e riuscita evoluzione.

Mi viene in mente una favola britannica per bambini, "Raspberry Juice" (succo di lampone), dove si gioca, letteralmente, con il nascondersi e lo svelarsi (closure and disclosure), nell'eterna matafora del nascondino (hide and seek). Una coppia di animaletti, una giraffa e un leone, si mettono in viaggio per scoprire l'identita' di un animale misterioso, che non si affaccia mai dalla sua casa. Un animale che si nasconde. Le provano tutte per farlo uscire, lo chiamano con diversi nomignoli nascosti, a loro volta, dietro ai cespugli (ridicolo nascondimento, per una giraffa e un leone) ma niente da fare: l'animaletto scomapre appena sembra dar cenni di se'. Solo quando rinunciano, aspettano, smettono di controllare, l'animaletto rivela la sua essenza: e' un coniglietto, Raspberry Juice.

Occorreva rispettare, e saper aspettare

  su  pol.it

 

 
 
 

Another year

Post n°139 pubblicato il 11 Maggio 2011 da nottelunas
 

"Gli incidenti dell'amore
sono più dei suoi successi"
(Emily Dickinson)

"ANOTHER YEAR" di Mike Leigh

2010, Gran Bretagna

di Rossella Valdrè

Le stagioni si succedono lente ma inesorabili, dolci ed amare, nel microcosmo londinese che ruota attorno alla casa e alla vita di Tom e Gerry, affiatatissima coppia di coniugi non più giovani, psicologa di un consultorio lei, geologo lui.
Il figlio Joe, la fidanzata di lui, l'amico Ken in una visita sporadica, la collega Mary, assidua frequentatrice della casa, infine il fratello di Tom, Ronny.....una ristretta girandola di personaggi perfettamente ed intensamente caratterizzati, entrano ed escono dalla casa di Tom e Gerry, dalle loro menti e dalle loro giornate, componendo un puzzle che si snoda lungo lo scorrere di un anno - another year - intessuto unicamente di parole, semplici gesti quotidiani, emozioni.

Il regista Mike Leigh, originale protagonista, da sempre, del filone del realismo inglese inaugurato da Ken Loach, ci regala la sua opera più matura, profonda, intensa, stupendamente semplice e complessa, recitata così magistralmente da non sembrare recitata, ma semplicemente vissuta. Un film da non perdere. Di impianto teatrale, interamente scandito entro la sequenza temporale delle quattro stagioni e concentrato all'interno della scena spaziale della casa dei coniugi, con pochissimi esterni, film di parola, pressochè privo d'azione, Another year fa tornare alla mente echi di un certo Bergman (Scene da un matrimonio), o di un certo Allen (Interiors); ma soltanto echi, vaghe assonanze. Leigh, infatti, insieme al corpo vivente degli attori, riesce a fare della narrazione una sintesi originale e personalissima, dove non manca mai il dialogo vivace della commedia intessuto all'amarezza della storia, la fissità dell'immagine calata però nel dinamismo interno dei personaggi, lo sfondo sociale di un mondo anglosassone pesantemente colpito dalla crisi, che è tuttavia solo accennato, lasciando sempre il primo piano alla parola. Film di parola, abbiamo detto. Tuttavia, uno di quei rari film dove il parlato non scivola nella parola vuota, nel vezzo intellettualistico, nella seduzione dei monologhi; la parola, vera protagonista del film, è qui incarnazione del sentimento, degli affetti, tentativo incessante di comunicare all'altro l'emozione da cui si è oppressi, il bisogno da cui si è abitati.
Un film parlato dagli affetti, potremmo dire.

E' la famiglia, la coppia, il tema dominante. La scena si apre sul volto sofferente di una paziente al consultorio, afflitta da un matrimonio "che non potrà mai cambiare", e si chiude sempre su un volto, quello di Mary (magnifica Lesley Manville), che progressivamente smette di ascoltare i rumori del mondo...Totale assoggettamento alla rinuncia, all'inizio; forse il barlume di speranza di una possibile amicizia con Ronny, alla fine. La casa di Tom e Gerry, come detto, è il luogo fisico e simbolico intorno a cui non solo ruotano i personaggi e le stagioni della vita, ma pare una specie di calamita che, con la sua solidità affettiva, attira le anime derelitte e sole, gli amici meno fortunati, quelli che hanno subito abbandoni, fatto errori, quelli che hanno inciampato e non si sono più ripresi. Mary prima fra tutti (forse il personaggio centrale), segretaria di mezza età al consultorio, separata, disperatamente in cerca di amore tanto da arrivare quasi a corteggiare Joe, figlio trentenne di Tom e Gerry, ma nel contempo anche ossessionata dal tentativo di autonomizzarsi, tentativo che ha come sbocco l'infelice acquisto di una piccola auto, che Mary, però, non sa condurre. E poi Ken, sfatto dal cibo e dall'alcool, prossimo ad un pensionamento che lo terrorizza, solo, tutti gli amici che stanno morendo; e infine Ronny, fratello sfortunato e meno 'buono' di Tom, che entra nella scena in inverno, portando il freddo lutto della moglie, lasciando intuire un pesante passato di conflitti che il figlio, col suo perenne odio, testimonia...

Famiglie unite, calorose, persino a tratti stucchevolmente simbiotiche, come quella che fa da perno centrale alla piece (tanto l'impianto è teatrale, che vien da chiamarla così), e famiglie unite dall'odio e dal rancore, come è il caso di Ronny, o andate in disfacimento come quelle di Ken e Mary, così, senza una chiara ragione, matrimoni troppo affrettati, scelte troppo inconsapevoli. E su tutto, il tempo che passa.

L'altro tema di fondo, le stagioni della vita. Solo il cinema inglese riesce, in questi tempi, a sottrarre gli attori alla tirannia della giovinezza e della bellezza a tutti i costi; volti rugosi, corpi ingrassati e imbruttiti dall'età e dalla fatica, logorati dagli eventi del vivere, dal bere, dalla solitudine. Persone reali, che invecchiano, soffrono, sperano, cercano, si ammalano, muoiono.

Torniamo alla coppia-perno, la coppia Tom e Gerry. Per un regista profondo come Leigh, non può essere casuale la sin eccessiva stigmatizzazione tra bene e male, tra coppia felice e infelice, tra coppia e single: sembra che tutto il bene stia nella coppia, nell'essere-due, quasi simbiotici, e tutto il male e la sofferenza stiano nell'esser soli, reietti. Ad una più attenta visione, non è unicamente così. Il microcosmo simbiotico di Tom e Gerry è sì accogliente, ma non tollera la debolezza di Mary nel corteggiare, pateticamente, il giovane Joe: "è la nostra famiglia", le dirà Gerry dopo averla respinta per diversi mesi. O con noi o contro di noi, o dentro o fuori, è la legge della famiglia simbiotica, retta da codici invalicabili, inviolabili. E' la coppia che si nutre, come spesso accade, di compiaciuta auto-narrazione di sè, pronta ad accudire il debole, ma relativamente indifferente al dolore a all'invidia suscitata dall'esposizione di tanto bene, di tanta vita felice (la splendida sequenza finale). Che posto resta alla sofferenza inquieta, fragile, di Mary? Chi potrà mai accoglierla davvero?
"Il confine tra la coppia e il gruppo è sempre una zona di guerra. - scrive Otto Kernberg (Relazioni d'amore,1995). E prosegue: "Il gruppo ha bisogno della coppia per sopravvivere, per rassicurarsi che il trionfo edipico è possibile, se si sfugge via dalla folla anonima. Il gruppo invidia il successo della coppia e ne è offeso, perchè in contrasto con la solitudine dell'individuo nella folla anonima. La coppia, dal canto suo, ha bisogno del gruppo per scaricare l'aggressività sull'ambiente". (corsivo mio)

Coppia, gruppo, individuo. La complessità della vita, il suo progressivo decadere. Le tematiche umane di sempre sono qui recuperate e illuminate da uno sguardo attento, ricco di pietas, mai banale, affidato unicamente alla parola e all'emozione.
C'è speranza? Il tempo scorre stolido, inesorabile ed indifferente, o sono possibili nuove aperture? Come detto sopra, interessante l'entrata in scena di Ronny, sul finire dell'anno. Se si trattasse di un sogno, segnalerei al mio paziente l'ingresso di questo nuovo personaggio nella scena interna del sognatore: Ronny rappresenta un'altra soggettività, è diverso da tutti gli altri. Il corpo magro, la sobrietà dei modi, i silenzi, la mancanza di eccessi (unico a non bere, a non ridere, a non parlare di sè), introduce forse una diversa esperienza del dolore, un diverso ascolto, una possibile alternativa alla felicità a tutti i costi.

"Sono capace di passare a guado il dolore -
Stagni interi di dolore -
Ci sono abituata -
Ma se appena la gioia mi spinge e mi sfiora
Le gambe non reggono -
E barcollo - ubriaca...."
(E. Dickinson)

 

 
 
 

Habemus papam di Nanni Moretti

Post n°138 pubblicato il 11 Maggio 2011 da nottelunas
 

 

Habemus papam  di Nanni Moretti

 

Nanni Moretti e la psichiatria

di Alberto Sibilla

 

L'ultimo film di Nanni Moretti può prestarsi a molte letture. La trama è focalizzata sul rapporto tra potere e responsabilità e il finale è una accettazione e per certi versi un elogio della fragilità e dei limiti dell'individuo. Il racconto è coerente e si collega al soggetto del Caimano; anche in quel film il protagonista, Silvio Orlando, non riusciva a dare un significato ai cambiamenti nella sua vita privata provocati dalle “novità” culturali nel campo della famiglia, del lavoro e della politica. In Habemus Papam sono accentuate le incertezze del protagonista che nel finale trova la forza per il rifiuto. La rinuncia del potere viene attuata in un'istituzione, la chiesa, descritta come la più radicata e stabile o forse che tende a dare di sé, mediaticamente, una immagine monolitica. Questa descrizione, sostenuta da una folla plaudente e dall'interesse delle televisioni contrasta con numerosi precedenti storici e non parlo solo di quelli Danteschi. Non sono passati molti anni dai dubbi laceranti che hanno accompagnato il pontificato di Paolo VI e della morte di Papa Luciani, schiacciato dal mandato pontificio. Il potere religioso saldo e senza dubbi sembra una costruzione e una rappresentazione mediatica e la crisi del papa neoeletto rende i fedeli sconcertati e lascia ammutoliti i giornalisti che vogliono risposte immediate e non riescono a dare un senso a un avvenimento inaspettato. Assistendo alla beatificazione di Wojtyla è lecito chiedersi cosa sia diventata la chiesa televisiva; la rappresentazione mediatica ottiene grandi ascolti, ma dubito che spinga alla fede, ma trascina a un rapporto superficiale con la trascendenza. Fuori dal Vaticano le cose non vanno meglio e il neo eletto Melville vaga spaesato per Roma. Incontra casualmente una compagnia che prepara un testo di Cechov, “il gabbiano”, la rappresentazione dell'irraggiungibilità dei desideri e dell'impossibilità a dare un valore alla vita. Non a caso Melville lo conosce a memoria. La recita sulla fragilità e sulla infelicità sembra dare pace al neo papa. La narrazione è terapeutica, come ben sappiamo.

Ma lasciamo un'analisi globale del film ai critici. Su un sito di psichiatria è corretto parlare di argomenti di nostra competenza. La psichiatria entra come coprotagonista nella storia ed è lecito chiedersi quali reazioni suscita lo psichiatra di Moretti e in particolare che immagine fornisce il film degli strumenti terapeutici. Il bravo Michel Piccoli nei panni del papa neoeletto manifesta un attacco di panico, accompagnato da sintomi di tipo depressivo. L'attore rappresenta con molta finezza il suo spaesamento, il suo disagio e le conseguenze invalidanti dell'angoscia. Come un faro della scienza entra in Vaticano lo psichiatra Moretti, il più bravo, e offre della nostra specialità una rappresentazione che definire caricaturale è riduttivo. Mi sono sentito profondamente a disagio chiedendomi se questa immagine è solo funzionale alla storia o indica una critica più profonda. Moretti è una persona colta, che ha un notevole ascendente culturale ed è informato sulle scienze della mente. Tornando alla storia, entrato in conclave lo psichiatra inizia il dialogo con il povero Melville, con una arroganza e supponenza tale che spingerebbe qualsiasi paziente a scappare a gambe levate. Con una versione caricaturale della psicoanalisi fa capire che non può svolgere bene il suo lavoro perché non è possibile affrontare problemi sessuali o chiedere com'era il rapporto di Melville con la mamma. Non approfondisce il significato dell'elezione al seggio pontificio. Viene fornita un'immagine della psicoterapia tutta condizionata dal “tunc et alibi”, da un passato “rimosso”, molto suggestivo sotto un profilo letterario, ma che lascia uno spazio illimitato alle fantasie del terapeuta. In poche scene Moretti assesta un colpo alla psicoanalisi freudiana “classica” o almeno come viene rappresentata nei media, tutta sesso e complesso edipico. Lo stesso atteggiamento di supponenza è assunto in maniera “materna” dalla seconda psicoterapeuta, Margherita Buy che mette alla base della crisi di Melville “il deficit di accudimento”. Con questa notazione ironica vengono liquidati psicoanalisti come Bowlby, Stern, Lichtemberg, Fonangy (per citare solo i più noti) che hanno cercato di costruire una teoria dall'osservazione del bambino e del rapporto madre e neonato. Naturalmente il povero cardinale continua a vagare per Roma. Come ho detto la narrazione è terapeutica, ma deve partire dalla sofferenza e dall'ascolto dell'altro, non dal sovrapporre nostre teorie a quanto ci viene mostrato. L'incontro terapeutico avviene al di fuori di un rapporto professionale con un'assonanza tra la sofferenza del cardinale e un'analoga angoscia di un attore impegnato ne “il gabbiano” di Cechov. L'attore è in crisi, ma questo non è un impedimento, anzi è il fondamento di una comunicazione che tranquillizza Melville che nella compagnia teatrale sembra acquisire una maggior serenità.

Stern il caposcuola del “deficit di accudimento” ha teorizzato in recenti lavori i WFM (weird fucking moment, strano fottuto momento) momenti imprevedibili e bizzarri, carichi di disagio o tensione da parte di paziente e terapeuta, che costituiscono dei punti di svolta per la terapia. È un'opinione in contrasto con la psicoterapia intesa come scienza dell'interpretazione e quindi una critica allo psichiatra Moretti tutto teso a spiegare la crisi del Papa con eventi remoti, infantili, possibilmente edipici. In una relazione terapeutica devono innescarsi momenti di forte tensione emotiva, spesso in maniera anche casuale tra due persone che si sintonizzano profondamente. Questo accade per Melville con un non tecnico, complice Cechov, mentre il nostro “più bravo” psichiatra per dimostrare la sua abilità, organizza un progetto riabilitativo basato su partite di pallavolo, per i cardinali senza una guida e spaesati nel conclave. Chi ha lavorato in psichiatria ha ben presente le squadre di pallavolo o di calcio (o di altri sport ...) che ottengono lo stesso risultato del torneo Vaticano, rendendo più attivi i pazienti e creando un legame leggero e allegro e fuori dai ruoli con gli operatori. Anche il saccente psichiatra si lascia coinvolgere dal gioco e diventa meno antipatico. Forse non è un Freudiano ortodosso, ma è anche appassionato di Winnicott e della funzione terapeutica del gioco. Il torneo però termina e i cardinali si recano alla ricerca del papa e con un esame di realtà invasivo lo riportano al suo ruolo. Il recupero di Melville tronca brutalmente la rappresentazione teatrale. Il film termina con Melville che esprime la sua incapacità ad assumere la funzione del Papa e con un'espressione di difficile interpretazione si chiude in un profondo silenzio. In conclusione come si presenta la psichiatria? La mia prima reazione è stata d'irritazione perché quella di Moretti sembra una visione eccessivamente tagliente della cura per la sofferenza psichica, con un eccessivo peso dato alla psicoanalisi come intervento primario. Anche la psicoanalisi non ne esce bene ed è trattata con un eccesso d'ironia. L'intervento terapeutico, il contatto con la sofferenza del papa avviene con un attore un po' suonato e in particolare con il testo di Cechov che mostra l'impossibilità di risolvere il disagio individuale e l'assenza di soluzioni. Di fronte al fallimento della psichiatria e in particolare di fronte alla Buy che insisteva sul difetto di accudimento mi sono sentito sconsolato. Ma poi ho pensato e riflettuto a lungo (in questo aiuta una formazione psicoanalitica ...). Questo è un film sul potere e sulla responsabilità e sui limiti e sulla fragilità. Forse dobbiamo imparare dal film (e da Stern...) evitando teorie forti ed esplicative e ascoltando il paziente nel qui e ora, cercando una sintonizzazione senza troppi pregiudizi. L'ironia di Moretti non è sulla psichiatria, ma su un'immagine “forte” della nostra professione. Anche noi dobbiamo rinunciare al potere, che spesso è illusorio. Concludo con una domanda. Possiamo considerare Melville un ammalato che ha bisogno di una cura? La psicologia evoluzionistica considera il panico un meccanismo radicatosi nel corso dell'evoluzione, che tutela l'individuo di fronte ai pericoli del mondo e quindi è una risposta adattativa rispetto a un ambiente che è percepito come ostile. Il corpo attraverso l'ansia ci invita a tornare nelle nostre sicurezze. Come dice la canzone, tutto cambia e quindi è naturale che il cambiamento venga percepito come pericoloso e perturbante. Forse nel conclave si è creato un conflitto tra le scelte dello Spirito (Santo) e le debolezze della mente incarnata. Melville nella sua rinuncia si è avvicinato al Cristo e al suo corpo martoriato. Non mi sembra che questa scelta abbia a che fare con la malattia.

 

 

 



Cosiì la traduzione di Todo Cambia:

TUTTO CAMBIA

Cambia ciò che è superficiale
e anche ciò che è profondo
cambia il modo di pensare
cambia tutto in questo mondo.

Cambia il clima con gli anni
cambia il pastore il suo pascolo
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.

Cambia il più prezioso brillante
di mano in mano il suo splendore,
cambia nido l'uccellino
cambia il sentimento degli amanti.

cambia direzione il viandante
sebbene questo lo danneggi
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.

Cambia, tutto cambia
Cambia, tutto cambia
Cambia, tutto cambia
Cambia, tutto cambia.

Cambia il sole nella sua corsa
quando la notte persiste,
cambia la pianta e si veste
di verde in primavera.

Cambia il manto della fiera
cambiano i capelli dell'anziano
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.

Ma non cambia il mio amore
per quanto lontano mi trovi,
né il ricordo né il dolore
della mia terra e della mia gente.

E ciò che è cambiato ieri
di nuovo cambierà domani
così come cambio io
in questa terra lontana.

Cambia, tutto cambia...

 

 I processi e le cose

di Giuseppe Riefolo

 

Habemus Papam  di Nanni Moretti, 2011

“E’ per il vento...! ‘sto maledetto vento
caldo che fa diventare matta la gente!”
(Almodovar, 2006)

1. Sparigliare...

Sin dalle prime scene mi si è imposta una mia immagine, lontana. L’immagine era portata dal cardinale che si arrabbiava con l’altro cardinale mentre giocavano a scopone: “non sai sparigliare... bisogna saper sparigliare!” Io ricordavo una scena del funerale di Vojtyla: il vento che si infila, inatteso, fra le fila ordinate dei cardinali e ne scompiglia la presenza. Dalla TV, quel giorno, vedevo cardinali che cercavano di difendere una serietà inevitabile, ma li scoprivi bambini che si difendevano goffamente da un disturbatore inatteso e impertinente. Ricordo il vangelo, aperto sulla bara, le pagine sbattute dal vento in una cornice che imponeva restassero immobili. Durante il film quell’immagine è tornata e ora i cardinali facevano quel gioco che ci chiedono tanto i figli quando sono molto piccoli: il gioco a rimanere seri e in silenzio, guardandosi in faccia e perde chi ride prima.

Ho pensato che le storie del film sono due, nettamente separate e che si incrociano solo alla fine: quella di Melville e quella del Conclave dove ciascuno ribalta e scambia con l’altro le posizioni: chi deve star dentro va fuori e chi è fuori andrà nel Conclave dove nessuno può entrare. Io, ovviamente, ho visto un mio film: non la storia di un uomo potente che conosce finalmente la propria fragilità, ma qualcosa che viene prima: la festa eccitante dei processi che si riattivano laddove tutto è bloccato. Prima della fuga di Melville, viene la vita del Conclave sparigliata da un vento inatteso ed urgente. E’ una sensazione che ho avuto chiara il giorno dopo mentre Daria mi parla di un sogno. “una mia vecchia amica che vive lontano mi parla delle “produzioni cinesi”. Io le dico che quei prodotti non sono di buona qualità, ma lei mi presenta una mappa che piano piano si anima e diventa un cartone animato”. Associa che c’è una crisi nella sua azienda e, nell’ultima riunione, un collega si propone di organizzare un blog per pubblicizzarla. Lei ha stima di questo collega, ma quando ha visto il blog ne ha avuto una delusione: una cosa statica... avrebbe voluto fosse più viva!. Ha pensato ad un episodio di tempo fa quando, grazie all’amica del sogno, riuscì ad incontrare proprio il capo della sua azienda. Accadeva molti anni fa e lei era giovane e bella. Dopo alcuni giorni ricevette un invito a cena dal capo dell’azienda presso un famoso albergo. Lei ebbe molti dubbi sull’invito e sul perché lui la invitasse... ne era confusa, ma quando andò all’appuntamento scoprì che era uno scherzo dell’amica che si prendeva gioco di lei. Commenta che allora poteva permettersi di essere confusa perché era giovane ed era bella ed aveva tanti progetti che poi non si sarebbero realizzati... Le suggerisco che forse il sogno tocca qualcosa di vero che sta finalmente accadendo: ieri in seduta abbiamo commentato che forse lei si chiedeva perché io le proponessi di mia iniziativa una seduta di recupero che è quella di oggi: giustamente si chiede per quale motivo il mondo dovrebbe interessarsi a lei!. Ieri, poi, le avevo confessato di aver sentito che lei mi stringeva la mano con maggiore forza del solito e poi mi aveva parlato del figlio adolescente che la cerca e l’abbraccia forte volendo sentire il suo corpo mettendola in imbarazzo... Mentre le dicevo questo pensavo al film e alla mappa del sogno che poi si anima e diventa un cartone animato portando con sé turbamenti vivi che cercano sintonie prima che risposte. Daria parlava di qualcosa che non si era mai potuto realizzare e il mio invito “insolito” e la sua intensa stretta di mano ci introducevano finalmente nella stanza chiusa, mai conosciuta prima, dove nascono i sogni e dove si decide il tuo destino: “Fa che non sia io... ti prego Signore: non io!” Per uno psicoanalista sarebbe facile vederci la “scena primaria” e tutto il conflitto edipico connesso, ma sarebbe uno psicoanalista come la Margherita Buy, ovvero che può aggressivamente risolvere e bloccare tutto con semplici formulette: “deficit di accudimento!” Forse questa è la psicoanalisi che piace alla gente, ma gli analisti sanno che la psicoanalisi è all’esatto opposto, nei processi di continua trasformazione per i quali le formulette definitorie ne sono solo la sospensione.

...le cose del Conclave.

Il film ti porta in un luogo in cui non è ammesso il pensiero e noi, attraverso i pazienti e anche attraverso la nostra vita, conosciamo la grave sofferenza di sperimentare la condizione in cui non sei autorizzato a pensare e persino a immaginare. Questo lo annuncia il noioso cronista televisivo e la sua dichiarazione ha una sonorità irreale e meccanica: “la fumata nera è molto lunga perché i cardinali devono bruciare non solo le schede ma anche tutti i loro appunti perché nulla deve trapelare all’esterno”. Il film a questo punto parte e ha il senso di un sogno a cui è permesso di rompere il blocco del Conclave perché hai il diritto di sentire che lì dentro si parla di te. Dietro la porta ci sono cardinali bambini o qualcuno che ti inganna. Fuori c’è la risonanza del Gabbiano di Cecov e tante persone che cantano: Cambia, todo cambia, la tua canzone.

Registi e pazienti hanno il diritto di pensare che la cosa importante sia riuscire a sapere finalmente quello che accade nel Conclave, ovvero quello che soprattutto i primi analisti chiamavano “rimosso” e a cui, in verità attribuivano particolare importanza. Da tempo, invece gli analisti danno sempre meno importanza al rimosso, ma al blocco dei processi di trasformazione della mente. Quindi, piano piano, emerge che la cosa importante è che si riattivi un processo bloccato alle porte del Conclave, perché l’importanza dell’analisi è il vento che entra dove non dovrebbe a sparigliare un ordine che non ammette l’immaginazione e il gioco: “La ricostruzione della scena infantile o della Storia, non sono il fulcro del mio interesse. (...) Centrale è la concettualizzazione rispetto ai tre luoghi possibili di patologia: carenza dell’apparato per generare immagini, carenza dell’apparato per contenerle e gestirle ed eccesso di stimoli...” (Ferro, 2006, 403). E’ successo con Riccardo che ora sta finendo l’analisi ed io e lui pensiamo sia stata una esperienza intensa, per entrambi. Tempo fa, all’inizio dell’analisi, per mesi è stato in piena crisi ed io ero disperato perché sentivo che ogni mio tentativo di aiutarlo con interpretazioni risultava assolutamente inutile. Devo aver sentito con lui la condizione di quelli che sono fuori dal Conclave ad attendere, impotenti, una fumata bianca che tardava a venire. Lui mi rassicurava: “non ho bisogno di farmaci, dottore! Alla fine vengo quattro volte a settimana qui e ce ne possiamo occupare tranquillamente io e lei!”. Non c’erano sogni in quei mesi e non c’era neanche sonno perché a qualunque ora lui rincorreva gli oggetti che nel delirio e nelle allucinazioni lo tenevano vivo. Finché un sogno ci permise non tanto di sapere che cosa e il perché di quello che stava accadendo (era fin troppo ovvio ed evidente...), ma di entrare nel Conclave, perché lì era il luogo dove si aveva diritto ad esserci, perché lì riprende un processo sospeso: “ho sognato di essere in un ascensore che andava molto in alto ed ero solo. Quando si apre la porta non c’è l’uscita, ma il muro. Mi sento perso, ma per fortuna mi accorgo che l’uscita è alle mie spalle”. Alle tue spalle c’è un altro che ti restituisce il senso di qualcosa di vivo che si muove dove tutto era bloccato. Allora attraversi la porta e in quel luogo trovi la vergogna e l’imbarazzo per quello che vedi, finché non senti che con quello che c’è nel Conclave puoi giocare e allora i cardinali attaccati dal vento forte, cominciano a sorridere imbarazzati mentre si tengono i paramenti che svolazzano e le berrette che possono volar via. Fuori dal Conclave non ci sono le cose perse di cui hai bisogno e che recuperi nel delirio, ma oggetti che si sintonizzano col tuo bisogno perché rimanga vivo e insaturo. Per questo troverai la ragazzina che ti presterà il cellulare perché tu possa ricontattare il Conclave e nel teatro: “si sente bene? Vuole un po’ d’acqua?”

2. Cercare sintonie...

Perché si dovrebbe entrare nel Conclave? Ovvio: perché la mente ne ha diritto, ma non si tratta di conoscerne i segreti, ma di contattare una zona dove si sparigliano le certezze date. All’esterno scommettono sui segreti: “Lei cardinale Gregori era dato 3 a 1 dai bookmakers!” ; “ed io? Qual’era la mia quotazione?”: “ma lo vuole capire che lei non era neanche classificato?”. Forse non è un caso che il film decida di non seguire i segreti del Conclave, ma l’inatteso e l’unheimlich (Freud, 1919), portato dal vento che spariglia i paramenti. L’incontro con l’analista Buy, ovviamente non può essere di alcun aiuto per Melville perché lui non sta cercando di conoscere la natura del suo trauma infantile (la sorella? il teatro?: a volerli trovare i traumi sono infiniti e tutti plausibili...), ma è scappato dal Conclave per lasciare finalmente un luogo dove non puoi partecipare alla tua vita e non puoi sentire le emozioni degli altri (un analista inglese, ha chiamato questo processo “oggettivazione”, diverso e più violento dell’identificazione proiettiva...). Il film intuisce che i processi di cura si compiono per sintonie e le sintonie, quando l’analisi funziona, si trovano nella stanza di analisi quando questa è permeabile a fenomeni vitali (ma la stanza di analisi non e giusto diventi mai il mondo esterno...): nella metropolitana ascolti quelli che stanno perdendo una storia d’amore e ti si guarda con sospetto quando stai finalmente provando ad alta voce il discorso che da tempo (molto prima del Conclave e che il Conclave semplicemente ha reso urgente...) vuoi dire al mondo. Finalmente il Conclave si trasforma in un teatro dove altri recitano qualcosa che tu conosci da tanto tempo e che finalmente puoi recitare a voce alta: non è il trauma abreagito, ma una “disposizione potenziale” (Damasio, 1994; 1999) che ha trovato luogo e personaggi dove poter essere finalmente realizzata. Mi hanno molto toccato le note di “Todo Cambia” che a quel punto, a partire proprio dalla stanza che Melville avrebbe dovuto occupare, pervade ogni luogo, sia dentro che fuori il Conclave e fa muovere i corpi al suo ritmo. E’ un bel momento, commovente, del film: Todo Cambia diventa “la musica di ciò che accade” (Heaney, 1979) ed è una musica inattesa a te stesso e al Conclave dove ora i cardinali danzano e giocano e la musica ora lega il dentro e il fuori. E’ bello che Melville venga rintracciato dalla propria musica prima che dal portavoce vaticano il quale, nonostante il gran dispiegamento di risorse e le contorte soluzioni diplomatiche, dovrà ammettere il proprio fallimento. Melville però ha diritto di ritornare al Conclave, perché la sua non era una fuga, ma un particolare percorso perché il Conclave diventasse anche il teatro di Cecov. Il film intuisce che, a differenza dell’analista Buy, gli analisti devono andare ad incontrare il paziente laddove il paziente si sente vivo (non era già successo ne La stanza del figlio?) e tutti verranno da te in modo solenne non per scovarti mentre fuggi per riportarti indietro, ma per applaudirti riconoscendoti vivo mentre occupi il tuo teatro che per te significa che puoi incidere nella vita degli altri i quali hanno rinunciato al luogo del Conclave per venire da te. I percorsi dell’analisi sono, alla fine, percorsi convergenti: fuori dal Conclave e verso il teatro, dove il pubblico vede la tua passione viva e non la fumata bianca che tutti, passivamente, attendevano con ansia.

...e le tue voci.

Nel Conclave viene invitato un altro psicoanalista: “abbiamo chiamato lei, dott. Brezzi, perché è il più bravo!”. Non credo si tratti di uno psicoanalista, ma della voce di Melville, che infinite volte ha accettato le regole del Conclave, ma che ora ha un nuovo suono: “era indubbio che la signora L. parlava, con genuina vitalità nella sua voce...” (Ogden 2007, 131). E’ speculare al balbettare muto di Melville: Brezzi è una voce che si impone e che viveva solo fuori dal Conclave e non avrebbe mai dovuto essere ammessa al Conclave. Il nuovo suono della voce di Melville ora non deve subire i toni, ma può sintonizzarsi con la fragilità del luogo e diventa la voce dei cardinali che possono presentarsi ansiosi o insonni, bisognosi di ansiolitici ed è Brezzi che ne spiega l’uso e dialoga con loro: “spesso penso che l’esito di un’analisi possa essere valutato in rapporto al livello raggiunto dall’analizzando (e dall’analista) nell’intrattenere (...) conversazioni più ricche, più interessanti e più vivaci con se stesso...” (Ogden 2001, 13). La nuova voce di Melville, una volta entrata (per svista, sicuramente, ma non c’è altra via che il lapsus in questi casi: “qualcuno ha avuto l’accortezza di verificare che il professore sia un credente?”) da un lato introduce gioco ed inatteso entusiasmo nella rigida organizzazione del Conclave, mentre dall’altro lato viene essa stessa modificata dalla nuova situazione: “questo è l’elenco dei pazienti da avvisare... non ho mai saltato una seduta con i miei pazienti... dica che sono ammalato... quanto durerà - secondo lei - la mia malattia?” Mentre l’analista Buy continuerà la propria professione e la propria vita nonostante l’incontro con Melville, Brezzi sarà profondamente trasformato dall’esperienza dell’incontro con Melville che conoscerà nella sua essenza, nonostante la distanza, anzi, l’assenza: “Peccato: era un caso così interessante, ma io oramai conosco chi è, e quindi non posso occuparmene!”. E’ importante che, quando Melville ritorna al Conclave, Brezzi scompaia nettamente dalla scena: Brezzi è la nuova voce di Melville e, giustamente, non ha senso che stia lì quando Melville ritorna, soprattutto perché ora Melville possiede e parla la sua nuova voce: “non so se sono capace dell’incarico per cui sono stato scelto... non posso accettare!”

“E ciò che è cambiato ieri
di nuovo cambierà domani”
(Julio Numhauser, Todo Cambia,)

http://www.pol-it.org/ital/habemuspapam.htm

 

 
 
 

"SORELLE MAI" di Marco Bellocchio

 

"SORELLE MAI" di Marco Bellocchio

(Italia, 2011)

Working Through... di Rossella Valdrè

" La realtà non si forma che nella memoria..."
(Du coté de chez Swann, M. Proust)

Molto difficile scrivere qualcosa su questo film. Tentazione affascinante, allo stesso tempo, quella di entrare in questo laboratorio aperto, in questo interessantissimo work in progress che Marco Bellocchio ha costruito per la sua ultima, intensa e poeticissima opera.

Bobbio, provincia di Piacenza. Casa natale del regista, dove visse fino alla giovane età e già teatro dell'ormai primo film-cult, I pugni in tasca (di cui appaiono qua e là fugaci immagini), e tuttora casa delle vacanze estive dellla famiglia. Questo il set, il luogo in cui la scena si dipana attraverso sei episodi, sei tranches de vie in cui i vari personaggi si incontrano, si separano, fanno le loro scelte, nella calura immobile delle estati di provincia. Ma perchè parlo di working throught, o potremmo dire anche con una dizione meno psicoanalitica, work in progress?

Perchè il film è frutto di un lavoro collettivo, di un laboratorio svoltosi nel tempo, dal 1999 al 2008, con gli allievi della scuola "Fare cinema" che il regista tiene a Bobbio, sede appunto della casa di famiglia e pertanto divenuto oggi luogo della memoria, della sua personale recherche, di un'originale rivisitazione che qui non si accontenta del semplice ricordare o ri-narrare i fatti, quanto piuttosto li mescola all'inventato, alla fantasia, a quella soggettiva e privatissima elaborazione che rende ogni memoria, ogni esistenza unica, speciale.

 

Insieme agli allievi del corso di cinema e a pochi attori professionisti, a recitare sono gli stessi membri della famiglia di Bellocchio, i personaggi reali della sua biografia: il figlio Piergiorgio, la figlia minore Elena, il fratello nella piccola parte del preside, e soprattutto le due anziane sorelle, Letizia e Maria Luisa, a cui si deve il titolo, con cognome inventato, di Sorelle Mai. E tuttavia, nonostante queste personalissime presenze, il film sfugge ogni pericolo di semplice autobiografismo, non cede alla tentazione narcisistica del parlare-di-sè nè al documentarismo vero e proprio, e neppure è un'opera di pura fantasia poichè, come ne I pugni in tasca, il luogo, le persone, gli affetti, taluni accadimenti fanno parte della storia reale del regista.

Persone o personaggi, dunque? Realtà o finzione? Passato o presente?

Ricordare, ripetere, rielaborare. Sorelle Mai è un film aperto, un dispositivo insaturo che, come qualcuno ha scritto, richiede la complicità dello spettatore, la sua disponibilità a lasciarsi andare contribuendo con la propria immaginazione a riempire i buchi della storia, i non detti, i pensieri non pensati o non ancora avvenuti, senza preoccuparsi troppo di dare un senso, una linearità ad una vicenda che è sì vicenda storica, ma soprattutto interiore, una recherche riattualizzata dove i giochi possono essere ancora aperti, dinamici, in movimento. Working through.

Frequentatore intimo, seppur con un suo percorso personale, della psicoanalisi, l'Autore si muove tra realtà e sogno, tra rimembranza (i flash de I pugni in tasca) e qui-ed-ora con molta maestria, direi con naturalezza; così che perde d'importanza, se riusciamo a lasciarci andare a questo gioco, cosa è reale e cosa no, cosa è avvenuto e cosa no, se abbiamo di fronte un personaggio, d'invenzione, o una persona.

 Estati che si susseguono nel corso di alcuni anni, abbiamo detto. A scandire il passare del tempo, le figure ai poli opposti delle età della vita: la piccola Elena, che da bimba paffutella diventa pre-adolescente e si fa portavoce di chi pone le domande, di chi interroga la realtà; e all'altro polo le due inseparabili Sorelle Mai, anziane e mai maritate perchè "a volte si nasce nella famiglia sbagliata", chuse nel mondo protetto della loro propietà e dei loro riti (la tavola, il solitario), del tutto silenziosa e forse un pò autistica una, che così affida all'altra il rapporto col mondo. Tra questi due poli che abitano la casa di Bobbio, tornano nelle estati i due figli, entrambi desiderosi di diventare attori, ma abitati da diverse inquietudini: lui più irrisolto e tormentato, lei più capace di scelte autonome, sempre meditate e sofferte. Amico fedele e consigliere sempre a fianco delle zie, il fidato ragioniere Gianni, che nella sua dolce solitudine vive a fianco delle sorelle e della nipotina come figura quasi irrinunciabile nella grande casa; non c'è decisione importante, non c'è scena che comporti uno snodo emotivo che non lo veda presente. Apparentemente a latere, è tuttavia a questa malinconica e affettuosa figuria di "ospite" che il regista affida il finale inatteso, bellissimo: un suicidio che definerei poetico, in un impianto scenico vagamente felliniano.....Ed ancora la breve apparizione di personaggi estemporanei, come le insegnanti nello scrutinio di fine scuola, tutti portatori di una loro singolarità, soggettività non banale e nel contempo non troppo definita....

Sul contenuto della storia, piuttosto esile e irrilevante in sè, non abbiamo molto da aggiungere. Solo il senso della morte sembra percorrere tutto il film, fino alla sua rappresentazione finale, attraverso il parlare ripetuto e quasi ossessivo delle Sorelle: la cappella mortuaria che tanto le preoccupa, il racconto dei bambini bocciati suicidi, i fatti sanguinari di cronaca... Ma è una morte parlata che non sembra avere alcun senso del tragico, del drammatico; è anzi un pò ironica, qualcosa che deve arrivare e che richiede una dimora (la cappella), o anche frutto improvviso di una libera scelta (il suicidio), di un'ulteriore libertà del soggetto e dei suoi mascheramenti (il frac).

 

Laboratorio che potrebbe ancora evolvere, modificarsi. Nulla è dato per sempre. Il mosaico della vita rivede, riposiziona, ricolloca, come se attraverso differenti après-coup il regista rimettesse mano, con lo spettatore, alla propria storia, la rimaneggiasse continuamente. L'oggi non è allora, e tuttavia oggi è anche l'allora, ma dove possiamo sempre inserire un cambiamento, un coup de téatre...

"Il campo - scrive Antonino Ferro (1999) - coincide con la narrazione che ne viene fatta, che è già superata nel momento stesso in cui viene portata a compimento, perchè nuovi personaggi e forze emotive sono continuamente 'in cerca di autore'...." (corsivo mio). Sottolinenando, come è noto, l'importanza dell'insaturità che deve mantenere l'intepretazione psicoanalitica perchè il campo condiviso tra analista e paziente non risulti troppo ingorgato da ciò che l'analista rischia di mettervi dentro, Ferro, sulla scia di Bion e con molti altri AA, suggerisce una chiave molto vicina all'anima di questo film. Insaturo, unfinished, eppure a suo modo compatto, coeso.

Ma come potremmo evocare l'insaturità, al di fuori della seduta psicoanalitica? Mi sorgono due immagini, le due Pietà di Michelangelo, la Vaticana e la Rondanini: sono entrambe sublimi, ma l'una possiede una bellezza finita, completa, alla quale il nostro sguardo non può aggiungere più nulla, mentre l'altra, lavorata per nove lunghi anni fino alla morte dell'artista, ci consente di immaginare, sognare, partecipare, come se sui tratti mancanti potessimo anche noi contruibuire con la nostra creatività. L'insaturo, pur apprentemente meno perfetto e talora sconcertante, ci offre l'opportunità di partecipare alla costruzione del campo, soggetti attivi o, per dirla con le parole del critico, ci richiede complicità.

Sempre Ferro (ib, p 9), citando gli studi narratologici di Umberto Eco, ricorda come le interpretazioni possibili, seppure all'interno di un'ampio ventaglio, non sono tuttavia infinite: esiste pur sempre l'intenzione del testo.

Il testo, vale a dire, ha qualcosa da dirci, possiede una sua spinta interna che nelle pur mille congetture possibili, urge per essere letto, possiede davvero una sua intenzione. L'intenzione di questo film, di questo testo scritto nel tempo (nel tempo storico e nel tempo interno) a me è parsa quella di giocare winnicottianamente con la memoria e con la realtà, di fornire così un canovaccio simile al sogno, che segua regole 'altre', di una realtà 'altra', per darci la benefica illusione di maneggiare lo scorrere del tempo, e rappresentarci la morte come un'uscita di scena teatrale, personale, la cui messa in scena ciascuno, alla fine, può esser libero di inventare da sè.

http://www.pol-it.org/ital/sorellemai.htm

 
 
 

 

HEREAFTER : un GIOIELLO (incompreso) di Andrea Scanzi

Post n°136 pubblicato il 11 Maggio 2011 da nottelunas
 

L'ultimo film di Clint Eastwood ha diviso. Per alcuni un capolavoro, per altri una delusione. Io dico che è un gran bel film.

Clint è Dio. Ed essendo Dio, può parlare di aldilà. Lo conosce.
Chiaramente sto scherzando. Ma fino a un certo punto, perché Dio potrebbe anche esserlo (se no non vedo chi, cit).


Il grande critico Paolo Mereghetti, prendendo in giro gli americani che (ovviamente) non hanno capito Hereafter, aveva esordito così a dicembre: “Sono pazzi questi americani! Pazzi per non aver apprezzato la serena saggezza e la delicatezza con cui racconta la storia di tre vite destinate a intrecciarsi. (..) Non sono qualità molto americane e sicuramente non vanno molto di moda, ma sono gli elementi distintivi di un cinema di cui personalmente sento sempre più il bisogno: che rispetta lo spettatore, che ama i propri personaggi, che non ha paura di confrontarsi con strade ardue e sa dire qualche cosa del mondo che ci circonda".
Nel suo metro di valutazione, Mereghetti ha dato al film 4 stelle su 4. Il massimo. Io gliene darei 3, ma cambia poco. Parafrasandolo, scrivo anch'io: "Sono pazzi questi italiani" (senza punto esclamativo).
Sì, perché Hereafter ha diviso. Come pochi altri film di Clint. Per alcuni un capolavoro, per altri una delusione totale. Ha ricevuto critiche ottuse, violente, volgari (basta fare un giro in rete). E nessuno di questi critici si è accorto di come il regista li avesse presi in giro proprio nel film, lasciando che la protagonista scrivesse un libro sull'aldilà (Hereafter) lamentando la chiusura mentale dei benpensanti su un tema così spinoso. Quasi che, di certe cose, non si dovesse parlare. Men che meno se si è stati l'Ispettore Callaghan (nota dell'autore: ho scritto queste frasi prima di leggere il pietoso strale di Piergiorgio Odifreddi oggi su Repubblica, uno dei momenti più bassi nella storia della para-saggistica italiana, NdA).
Sembra quasi che, di questo ultimo Eastwood, non sia piaciuta la decisione di uscire dal campo dell'epica per tornare su quello sentimentale. Quello de I ponti di Madison County, quello di Changeling. Osando per giunta affrontare, in questo caso, un tema metafisico e soprannaturale. Con occhi, meravigliosi occhi, da laico disincantato e problematico.
Hereafter è il classico film che tra 20 o 30 anni verrà ritenuto universalmente un capolavoro. Come è accaduto a tante pellicole di François Truffaut, al tempo ritenute minori e oggi trasmesse con devozione nei Cineforum d'essai.
Non è un capolavoro come Gran Torino, ma nessun film sarà mai come Gran Torino. I testamenti si scrivono una volta sola e anche Fellini non ha fatto solo 8 e 1/2.
Hereafter appartiene comunque al migliore Eastwood. E' di gran lunga superiore a Space Cowboys, Debito di sangue e, tra gli ultimi, allo stesso Invictus (bello e con grandi momenti di cinema, ma didascalico).
Tre storie, apparentemente scollegate, che alla fine si riuniscono a Londra. Schema narrativo alla Crash (di Paul Haggis, non a caso). Una giornalista sfugge allo tsunami e "vede" l'aldilà. Un bambino perde il fratello. E un sensitivo suo malgrado vive il suo dono come una maledizione.
Pezzi di un puzzle che poteva risultare banale, retorico, improbabile. E da più parti ho letto queste critiche. Ne prendo atto, ma ho avvertito esattamente il contrario. Un Eastwood meravigliosamente minimale, asciutto, essenziale. Senza fronzoli, orpelli, sbavature. Una maestria solenne - sì: solenne - nel raccontare senza ostentare. Nel dire senza mai ripetere. Nel porre domande senza imporre risposte. Un cinema saggio e classico, dichiaratamente dickensiano, che - pur nella sua sostanziale anomalia all'interno del percorso eastwoodiano - riprende alcuni temi cari al regista: la riflessione sulla religione, sulla morte, sull'incidenza del destino.                                               

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci sono, in ogni inquadratura di Clint, un candore e un'urgenza che non hanno eguali. E' tutto, sempre, così meravigliosamente preciso e delicato. Anche quando affronta il dramma più annichilente o quando occupa i primi minuti con effetti speciali per lui inusuali.
Ho anche letto che, secondo non pochi spettatori, le interpretazioni degli attori sono da ritenersi deludenti. Mah. Al limite il fratello del sensitivo, Jay Mohr, o l'amante della protagonista, Thierry Neuvic. Per il resto, Matt Damon non era mai stato così bravo (forse anzi è la prima volta che va veramente oltre il faccione da bambolotto impegnato). E Cécile De France è una delle donne più angeliche e divine che si siano mai viste ultimamente al cinema. La sua bellezza è, semplicemente, devastante.
Chi ama Eastwood, ha pianto senza ritegno vedendolo sotto la pioggia nella vana speranza che Meryl Streep scendesse da quel furgoncino. Non nascondo di aver fatto lo stesso, alla fine, nella sequenza tra Matt Damon e il bambino. E se questo cinema è retorico, o segno di un regista senza più idee, allora datemi ogni giorno questa retorica e queste non-idee.

Andrea Scanzi, La Stampa  19 gennaio 2011

 

 
 
 
 
 
 
 

Non dire che hai abbandonato il sogno.

Non c'è altro per noi a cui aggrapparci, se non questo.

Non dire che hai abbandonato il sogno.

Non c'è per noi altra strada se non questa.

 Asakusa Kid, Takeshi Kitano

 

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