Spigoli

Sei seduto su un divanetto blu.


Sorseggi cautamente un caffè bollente di Starbucks, ma forse sarebbe più corretto dire un Hot Macciado Latte Grande. La sala d’attesa è piena di gente che va avanti e dietro senza un reale motivo. Rileggi rapidamente i tuoi appunti. Ti sembrano inconcludenti e poco significativi. Fai un respiro profondo e prendi un bel sorso di caffè. Ti bruci. Però non ci fai nemmeno caso perché stai fottutamente morendo di paura.Alla tua destra una ragazza di appena vent’anni, molto bionda con gli occhi azzurri, i capelli ricci e una ventina di chili di troppo, addenta voracemente un bagel al formaggio spalmabile. Lei, a differenza di te, non sembra affatto nervosa. Alla tua sinistra, invece, c’è un ragazzo magro, serio e indocinese che accorda il suo violino con apprensione. Da come tratta il suo strumento si capisce che il suo presente e il suo futuro sono tutti in quella custodia imbottita e, al momento, vuota. Sulla parete davanti a te un grosso orologio di IKEA indica le nove meno un quarto: sei arrivato in tempo, nonostante tutto. Nonostante il treno che parte da Yonkers alle sette e quarantanove carico di colletti bianchi. Nonostante lo slalom tra pendolari a Grand Central Station. Nonostante il tragitto sulla Linea 6 fino a Union Square, pressato tra artistoidi con i capelli colorati e impiegati con la faccia grigia. Nonostante la camminata lungo Broadway fino a Washington Square, nella neve, con lo sguardo rigorosamente rivolto a terra per non restare ammaliato dalle vetrine dei negozi di scarpe da Skater. Nonostante tutto questo sei arrivato in orario. Tragitto completo in 55 minuti netti. Compresa la fermata da Starbucks, naturalmente. Non male. Sotto la media nazionale, in effetti.Insomma stai sul divanetto blu, in silenzio, in perfetto orario, con i tuoi appunti in mano, aspettando che la lancetta dei minuti raggiunga quella delle ore e stai fottutamente morendo di paura. Perché?Perché insegnare fa paura. Ecco perché. Perché è persino più difficile di imparare, se è possibile. Anche quando insegni qualcosa che conosci da sempre, qualcosa che ti è sempre venuto facile, come, per esempio, parlare una certa lingua. Anche in quel caso, infatti, insegnare fa paura. Perché non sempre è facile sapere cosa bisogna dire a quella ragazza magra del terzo banco che giorno dopo giorno dimagrisce sempre di più e non sai se arriverà alla fine del tuo corso; a quella ragazza bionda che è sempre molto preparata, ma non viene mai a lezione perché il suo ragazzo ha tentato il suicidio con delle pasticche; a quel ragazzo iraniano la cui mamma sta morendo di cancro ai polmoni e che negli ultimi tempi per la verità ti pare un po’ distratto; a quel tipo belloccio in sandali e capelli alla Beatles in fondo alla classe che invece di fare i test ti scrive delle poesie esistenzialiste, molto divertenti, a cui ti tocca di mettere C- anche se vorresti averlo come migliore amico; a quella ragazza bionda e obesa che è venuta dal profondo New Jersey per laurearsi in clarinetto classico e che vive col suo ragazzo tossico; a quella ragazza figlia di un boss della malavita italo-maericana di Bensonhurst (lo sai perché leggi i giornali) alla quale guardi sempre le gambe e che speri non ti faccia uccidere per questo; a quella ragazza tondarella e sorridente che viene dalla Florida e che cerca spesso di sedurti durante l’orario di ricevimento raccontandoti gli aneddoti erotici di sua madre, ex ballerina di strip tease.No. Sapere cosa dire loro non è affatto facile. Anche perché raramente ti viene in mente la risposta giusta, quando ti viene fatta una domanda giusta. Quando qualcuno dei tuoi studenti, cioè, semplicemente guardandoti, ti chiede cose tipo: “Come devo fare a sopportare la morte di mia madre?” o “Come faccio a trovare la voglia di vivere?” o “Come faccio a fare sesso in maniera soddisfacente?” o “Come faccio a scrivere il grande romanzo americano?”Se avessi le risposte a queste domande probabilmente vivresti in un monastero sul Tibet, oppure avresti un talk show tutto tuo su Fox, oppure fonderesti una religione. Ma non le hai.E allora arriva la paura. La colite. Il senso infinito di inadeguatezza. Chi è quello sotto interrogazione, adesso, eh? E come quando avevi tredici anni, speri che la campanella ti tolga d’impaccio. Che quell’asettico tintinnio ti porti via immediatamente in un altro posto, più familiare, come le magiche scarpette rosse di Elizabeth Taylor ne Il Mago di Oz. Via. Scomparire. Senza che nessuno ti metta più un voto. Pensavi di aver chiuso con la scuola? Ti sbagliavi, perché il punto (vorresti dirlo al buon Eduardo) non sono gli esami, ma i voti che arrivano sempre da chissà dove, chissà come, da chissà chi. Tua zia, prima di morire, ti diceva sempre che non ci si guadagna nulla ad essere giudici severi di se stessi. Ci pensano già gli altri a stroncarci, a bocciarci, a romperci l'anima. Salvato dalla campanella? No, non in questa vita. Non sono cattolico.E allora è molto più facile rispondere che il sostantivo “problema” è un eccezione. Che non esiste “la problema”, ma il problema. Perché? Perché sì. Punto e basta.L’unica cosa certa, pensi, mentre stai lì seduto sul divano blu della sala d’aspetto e la lancetta dei minuti sta per accoppiarsi con quella delle ore, è che hai fatto carriera davvero rapidamente. Da coffee boy in un ristorante italiano gestito da georgiani, a professore di Italiano alla New York University nel giro di appena due mesi. Un gran bel risultato. Gli Stati Uniti sono la terra delle opportunità. The land of the free the home of the brave dice l’ultimo verso dell’inno americano: la terra dei liberi, la casa dei coraggiosi. Già, sarà anche così come dice la canzone, ma chissà perché tu praticamente te la fai addosso, quando senti la campanella annunciare l’inizio delle lezioni e vedi tutti i ragazzi attorno a te alzarsi per andare in classe a sentire cosa hai da dire tu.