Creato da nonnobizzarro il 06/10/2006
Diario di Viaggio
 

 

Ti svegli con il mal di testa.

Post n°51 pubblicato il 06 Gennaio 2008 da nonnobizzarro
Foto di nonnobizzarro

Dentro il cranio batte una grancassa alla Chemical Brothers. È quasi mezzogiorno. Fuori nevica.

La sera prima sei stato al Tonic, un locale trendy a Delancey. Trendy, ma così trendy che, infatti, sta per chiudere. Ci hai visto un concerto di musica elettronica. E tu odi la musica elettronica. Sul palco, con una chitarra scordata in mano ed un laptop Apple davanti, ci stava una tipa dark di Roma nord (come fanno ad essere dappertutto?). Non si sfugge mai veramente alla Cassia bis.

Ti alzi dal letto, tua madre non è in casa, barcolli verso il bagno e ti guardi nello specchio: meriti una doccia. Noti sulla mano destra il timbro del locale. Difficile stabilirne la forma ora. Giureresti però che raffigura un castoro. Con i dentoni, la coda e tutto. Improbabile.

Una domanda si alza anche lei sonnolenta nella tua dico-testa: per quale ragione hai pagato 24 dollari per vedere quell’orribile concerto? Non hai una risposta precisa da darti, ma sospetti che abbia a che fare con quella ragazza mora, ventenne, minuta, formosa e talvolta persino sorridente che nelle ultime settimane ha deciso di adottarti. Talvolta le femmine lo fanno. Chissà perché. Ormai ci sei quasi abituato. Sì, devi aver messo a dura prova il tuo buongusto in fatto di note nella speranza un po’ naif di accoppiarti. Non può esserci altra spiegazione.

A questo pensiero un principio d’erezione puramente idraulica si spegne nelle tue mutande. Il fatto è che il sesso in città, se c’è, tu non lo hai mai visto. Non da vicino almeno. E non ti vengano a raccontare balle su Sex and the City, su Shortbus e simili, perché tu, da quando sei a New York, hai visto solo gente molto, molto sola. Non è semplicemente il fatto che in città a tuo avviso si fa poco sesso o, per i più romantici, che in sostanza non ci s’innamora mai. No. la questione è un'altra ed ha a che fare con il fatto che ognuno viene qua con un sogno da realizzare e, si sa. i sogni sono così difficili da condividere. Ognuno ha il suo, fatto su misura. Difficile per esempio che il tuo (che fino a sedici anni è stato quello di diventare il primo giocatore italiano dei New York Mets) vada bene anche per qualche ragazza del Mid West. Molto meglio perciò tenere le cuffiette dell’I Pod ben infilate nelle orecchie e immaginarsi una notte di sesso rovente con quel “saccottino” di Britney Spears, no?

“L’amore vola via dalla finestra con la prima scorreggia” diceva spesso tua nonna Vicky. Parole sante, pensi.

Eppure nessuno ce la fa ad arrendersi veramente. E questo è un po’ ovvio. D’altronde tutti sperano nel loro intimo che le proprie scorregge non puzzino. Ma invece puzzano.

Certo, da quando sei in città hai conosciuto un mucchio di persone. Un po’ per via del fatto che, quando sei emigrante, sei talmente solo che ti apri al prossimo con molta tolleranza (in definitiva ti trovi a frequentare gente che altrimenti non frequenteresti mai). Un po’ per via del fatto che conosciuto un italiano, conosciuti tutti. Non abbiamo inventato la mafia per caso.

Hai conosciuto attori, grafici, sceneggiatori, camerieri, danzatori, insegnati, spacciatori, fumettisti, studenti, cantanti, programmatori, ereditiere, cassiere e commercianti d’arte. Tutta gente divertente, tutta gente simpatica, eppure l’incontro col prossimo ti pare sempre velato da una certa diffidenza di fondo, come se una vocina interiore ti dicesse: “Non ti affezionare, non ti aprire, ti farai male”.

Ma forse esageri per via del brano dei Chemical Bothers che risuona nella tua testa, per via di queste ragazze di vent’anni che ti vogliono adottare, per via dei 24 dollari scomparsi incomprensibilmente dal tuo portafoglio e le cose non stanno affatto come pensi tu. Forse l’amore c’è, anche se magari si trova solo nei locali gay dell’East Village. Magari la gente non è così sola come ti appare, quando torna dal lavoro in metropolitana e sei tu che ti sbagli. Probabilmente l’unica distanza che esiste veramente tra te e il prossimo è quella che separa il capolinea della 242° strada nel Bronx (la fermata più vicina a casa tua) e Downtown. Però è vero che un’ora e passa di viaggio in treno tra tutte le etnie del mondo, in fondo, è prezzo da pagare più che accettabile pur di essere considerato un vicino di casa del tuo sogno confezionato su misura.

Dopo la doccia, il timbro a forma di castoro è solo un’ombra vaga e violacea, simile ad un livido, che finirà di sbiadire nei prossimi giorni. Qualcosa di simile è accaduto ai tuoi pensieri.

Guardi fuori della finestra. Ha smesso di nevicare. Allora indossi la maglia della nazionale di calcio irlandese, afferri i tuoi scarpini, il tuo pallone, prendi un Tylenol per abbassare il volume dei fratelli chimici (che nome appropriato) che sono ancora intenti a suonare nella tua testolina ed esci di casa.

È bello sapere che tra appena un’ora e rotti di viaggio in metropolitana sarai al campo di calcio sintetico gratuito che sta sotto a Williamsburg Bridge e che almeno lì, se non tra le fila dei New York Mets, tra immigrati arrivati da tutto il mondo, c’è sempre posto per un falloso e lagnoso difensore italiano.

 
 
 

Sei seduto su un divanetto blu.

Post n°50 pubblicato il 05 Gennaio 2008 da nonnobizzarro
Foto di nonnobizzarro

Sorseggi cautamente un caffè bollente di Starbucks, ma forse sarebbe più corretto dire un Hot Macciado Latte Grande. La sala d’attesa è piena di gente che va avanti e dietro senza un reale motivo. Rileggi rapidamente i tuoi appunti. Ti sembrano inconcludenti e poco significativi. Fai un respiro profondo e prendi un bel sorso di caffè. Ti bruci. Però non ci fai nemmeno caso perché stai fottutamente morendo di paura.

Alla tua destra una ragazza di appena vent’anni, molto bionda con gli occhi azzurri, i capelli ricci e una ventina di chili di troppo, addenta voracemente un bagel al formaggio spalmabile. Lei, a differenza di te, non sembra affatto nervosa. Alla tua sinistra, invece, c’è un ragazzo magro, serio e indocinese che accorda il suo violino con apprensione. Da come tratta il suo strumento si capisce che il suo presente e il suo futuro sono tutti in quella custodia imbottita e, al momento, vuota.

Sulla parete davanti a te un grosso orologio di IKEA indica le nove meno un quarto: sei arrivato in tempo, nonostante tutto.

Nonostante il treno che parte da Yonkers alle sette e quarantanove carico di colletti bianchi. Nonostante lo slalom tra pendolari a Grand Central Station. Nonostante il tragitto sulla Linea 6 fino a Union Square, pressato tra artistoidi con i capelli colorati e impiegati con la faccia grigia. Nonostante la camminata lungo Broadway fino a Washington Square, nella neve, con lo sguardo rigorosamente rivolto a terra per non restare ammaliato dalle vetrine dei negozi di scarpe da Skater. Nonostante tutto questo sei arrivato in orario. Tragitto completo in 55 minuti netti. Compresa la fermata da Starbucks, naturalmente. Non male. Sotto la media nazionale, in effetti.

Insomma stai sul divanetto blu, in silenzio, in perfetto orario, con i tuoi appunti in mano, aspettando che la lancetta dei minuti raggiunga quella delle ore e stai fottutamente morendo di paura. Perché?

Perché insegnare fa paura. Ecco perché. Perché è persino più difficile di imparare, se è possibile. Anche quando insegni qualcosa che conosci da sempre, qualcosa che ti è sempre venuto facile, come, per esempio, parlare una certa lingua. Anche in quel caso, infatti, insegnare fa paura.

Perché non sempre è facile sapere cosa bisogna dire a quella ragazza magra del terzo banco che giorno dopo giorno dimagrisce sempre di più e non sai se arriverà alla fine del tuo corso; a quella ragazza bionda che è sempre molto preparata, ma non viene mai a lezione perché il suo ragazzo ha tentato il suicidio con delle pasticche; a quel ragazzo iraniano la cui mamma sta morendo di cancro ai polmoni e che negli ultimi tempi per la verità ti pare un po’ distratto; a quel tipo belloccio in sandali e capelli alla Beatles in fondo alla classe che invece di fare i test ti scrive delle poesie esistenzialiste, molto divertenti, a cui ti tocca di mettere C- anche se vorresti averlo come migliore amico; a quella ragazza bionda e obesa che è venuta dal profondo New Jersey per laurearsi in clarinetto classico e che vive col suo ragazzo tossico; a quella ragazza figlia di un boss della malavita italo-maericana di Bensonhurst (lo sai perché leggi i giornali) alla quale guardi sempre le gambe e che speri non ti faccia uccidere per questo; a quella ragazza tondarella e sorridente che viene dalla Florida e che cerca spesso di sedurti durante l’orario di ricevimento raccontandoti gli aneddoti erotici di sua madre, ex ballerina di strip tease.

No. Sapere cosa dire loro non è affatto facile. Anche perché raramente ti viene in mente la risposta giusta, quando ti viene fatta una domanda giusta. Quando qualcuno dei tuoi studenti, cioè, semplicemente guardandoti, ti chiede cose tipo: “Come devo fare a sopportare la morte di mia madre?” o “Come faccio a trovare la voglia di vivere?” o “Come faccio a fare sesso in maniera soddisfacente?” o “Come faccio a scrivere il grande romanzo americano?”

Se avessi le risposte a queste domande probabilmente vivresti in un monastero sul Tibet, oppure avresti un talk show tutto tuo su Fox, oppure fonderesti una religione. Ma non le hai.

E allora arriva la paura. La colite. Il senso infinito di inadeguatezza. Chi è quello sotto interrogazione, adesso, eh? E come quando avevi tredici anni, speri che la campanella ti tolga d’impaccio. Che quell’asettico tintinnio ti porti via immediatamente in un altro posto, più familiare, come le magiche scarpette rosse di Elizabeth Taylor ne Il Mago di Oz.

Via. Scomparire. Senza che nessuno ti metta più un voto. Pensavi di aver chiuso con la scuola? Ti sbagliavi, perché il punto (vorresti dirlo al buon Eduardo) non sono gli esami, ma i voti che arrivano sempre da chissà dove, chissà come, da chissà chi.

Tua zia, prima di morire, ti diceva sempre che non ci si guadagna nulla ad essere giudici severi di se stessi. Ci pensano già gli altri a stroncarci, a bocciarci, a romperci l'anima. Salvato dalla campanella? No, non in questa vita. Non sono cattolico.

E allora è molto più facile rispondere che il sostantivo “problema” è un eccezione. Che non esiste “la problema”, ma il problema. Perché? Perché sì. Punto e basta.

L’unica cosa certa, pensi, mentre stai lì seduto sul divano blu della sala d’aspetto e la lancetta dei minuti sta per accoppiarsi con quella delle ore, è che hai fatto carriera davvero rapidamente. Da coffee boy in un ristorante italiano gestito da georgiani, a professore di Italiano alla New York University nel giro di appena due mesi. Un gran bel risultato. Gli Stati Uniti sono la terra delle opportunità. The land of the free the home of the brave dice l’ultimo verso dell’inno americano: la terra dei liberi, la casa dei coraggiosi.

Già, sarà anche così come dice la canzone, ma chissà perché tu praticamente te la fai addosso, quando senti la campanella annunciare l’inizio delle lezioni e vedi tutti i ragazzi attorno a te alzarsi per andare in classe a sentire cosa hai da dire tu.

 
 
 

Sfrecci deciso sulla FDR.

Post n°49 pubblicato il 29 Dicembre 2007 da nonnobizzarro
Foto di nonnobizzarro

A ben 45 miglia orarie. Alla tua destra Manhattan in tutta la sua magniloquente bellezza. Alla tua sinistra Brooklyn in tutta la sua… la sua… la sua. Sono le sette di sera. Sei in perfetto orario, ma hai fretta lo stesso. Hai un appuntamento con una ragazza. Una donna. Bellissima. Intelligente. Come se questo non bastasse è anche il tuo capo. Insomma sei nervoso. Parecchio nervoso.

È buio e piove. I taxi ti schizzano accanto come calabroni incazzati. Cerchi di scorgere tra le tante, la tua uscita. Non ci vedi bene. Hai gli occhiali sporchi di unto. Forse il pollo che hai mangiato a pranzo, forse il sudore freddo che ti scende dalla fronte. Ad ogni modo… Vedi i numeri delle strade decrescere come un lento conto alla rovescia sui cartelli stradali: 239, 168, 115, 96, 68… Ti guardi nello specchietto retrovisore. Ti trovi bello, ma non abbastanza bello. Cioè, forse lei non ti troverà bello. Forse hai sbagliato giacca. Volevi avere un’aria affidabile, da uomo, e allora hai indossato la tua giacca da colloquio. Quella a costine di velluto da intellettuale di sinistra. Cazzo, hai decisamente sbagliato giacca. 42.

42? Porca puttana la tua uscita! Metti la freccia e dai una rapida sterzata. La macchina vira improvvisamente e, senza che tu faccia in tempo a dare di contro sterzo, sale sullo spartitraffico che divide la tua corsia da quella accanto. Oh porca puttana non l’avevi visto! Rimetti l’auto in carreggiata. Un tassista alle tue spalle ti suona inviperito con il clacson. Ma tu non fai una piega e gli sorridi, quando ti sorpassa. Sei troppo contento di essere ancora vivo.

Ti accorgi che ti tremano le gambe. Ma forse ti tremavano anche prima. Diffcile stabilirlo ora. Decidi di fare un respiro profondo. Perché non le dovresti piacere? Voglio dire sei bello, sei intelligente… ok non sei Schumacher al volante, però hai le tue carte da giocare. Per esempio sai a memoria tutte le statische del baseball dal 1987 ad oggi. Fai un respiro profondo. Non basta. Ne fai un altro. Ti calmi.

Prendi l’indirizzo dalla tasca della tua giacca a costine. 225 East, tra la terza e la quarta strada. Ok. Esci alla 23°. Passi davanti al Bellevieu hospital, dove qualche giorno prima ti hanno tolto un dente del giudizio. Nel buco vuoto rimasto nelle tue gengive dopo l’estrazione s’infila sempre del cibo. Controlli con la lingua. Ti accorgi solo in quel momento di avere ancora la bocca piena di Listerine antisettico liquido. Ne avevi preso un sorso per scongiurare ogni rischio possibile di alito pesante. Oddio. Sei un disastro… Apri il finestrino e lo sputi lungo la prima Avenue. Ti sorprendi di come lo schizzo abbia sporcato solo la manica della tua giacca visto che hai sputato controvento. Comunque…

Arrivi davanti al suo ufficio. Parcheggi in doppia fila. Cerchi di sistemarti in posa plastica, di avere un atteggiamento casual e non quello di uno che ha appena rischiato un incidente mortale sulla FDR.

Poi ti viene un dubbio. Uno scrupolo. Una voce sottile nella tua testa che ti dice qualcosa che suona come “Coglione” ma che potrebbe anche essere “Zabaione” o “Bel maglione”. Scendi dalla Cugar. L’auto sembra a posto. Niente graffi. Niente olio che cola. Tutto a posto. Poi ti chini per controllare le ruote e… Oddio… Oddio mio… Oddio. Vorresti morire.

Hai bucato. Hai fottutamente bucato. Hai bucato alla grande. Hai bucato il pneumatico Michelin della tua cazzo di Cugar Rossa. Ti rialzi e la vedi uscire dal palazzo sorridente.

Ti viene incontro bellissima.

“Ciao!” Ti dice sorridendo.

“Ho piuttosto bucato.” Rispondi tu.

 “Stai scherzando, vero?” Ti dice sorridendo.

“No.” Rispondi tu.

“E adesso?” Fa lei smettendo di sorridere.

“E adesso la cambio!” Fai tu fingendo un selfcontrol che non hai mai avuto in vita tua.

Apri il portabagagli. Scansi le lattine vuote di Dottor Pepper, la bibita di cui tua madre va ghiotta e che avresti dovuto portare allo schiaccia lattine per ricavarne degli spiccioli e che “il tuo appuntamento” non avrebbe mai dovuto vedere secondo i tuoi piani, ed estrai la ruota di scorta ed il cric.

Senza guardarla negli occhi lo sistemi sotto alla macchina e cominci a girare la manovella. Fai una fatica immane, ma fingi che la palestra fatta negli ultimi mesi sia più che sufficiente. Il fatto è che è la prima volta che cambi una gomma e sei sicuro che si vede. La tua ex diceva sempre che gli uomini servono solo a prendere le cose in alto e a cambiare le gomme. Ti accorgi di averla delusa ancora una volta quando noti che, mano a mano che tiri su l’auto, il cric comincia a piegarsi su se stesso.

Decidi di fermarti e pensare e nel frattempo svitare la ruota. Ecco sì… svitare la ruota. Ci riesci piuttosto rapidamente e guadagni così punti fiducia. La togli, la fai reggere a lei e poi torni al cric per dare qualche altro colpo d’assestamento.

La meravigliosa creatura ti scruta perplessa. Senti il suo sguardo infuocato colpirti alle spalle: “Come va? Ci riesci?” Ti chiede con voce conciliante e materna… Oddio materna!

Tu, tremante, rispondi: “Certo.” Mamma, ti verrebbe da aggiungere.

E proprio in quel momento l’auto scivola in avanti spezzando il cric e facendo sbattere il freno a disco sull’asfalto nero e umido, scheggiandolo. Il freno a mano, pensi, non hai tirato il cazzo di freno a mano.

“Ops...” lei dice.

“Adesso bestemmio!” Pensi tu.

Invece dici: “Tutto a posto, non è niente. Ma il cric è rotto, mi sa.”

“Vado a chiedere al portiere se ne ha uno.”

“Buona idea…” Dici.

Quando la vedi andare via, per un attimo ti senti sollevato. Piove, hai bucato, hai rotto il cric, ma almeno ora non hai più il suo sguardo compassionevole sulle spalle. Rimpiangi il tuo motorino. Rimpiangi la tua BMX. Rimpiangi anche i tuoi pattini regolabili. Sopratutto rimpiangi la tua spiccata eterosessualità. Certo potresti prendere un taxi e scomparire, lasciare l’auto lì, lasciare il lavoro, lasciare lo stato…

Ma non lo fai.

Perché lei torna sorridente con un cric professionale in mano. Come fa a essere così perfetta?

“Vuoi una mano?”

Scuoti la testa. Ce la devi fare da solo. Non vuoi l’aiuto di nessuno. Non vuoi fare la fine di Dorando Pietri alle olimpiadi del 1908.

In pochi minuti sei pronto a cambiare la gomma. Una timida speranza di non aver buttato la serata nelle acqua del fiume Hudson ti sorge spontanea.

Afferri la ruota di scorta e solo a quel punto ti accorgi che è sgonfia. Pensavi non potesse andare peggio? Ti sbagliavi.

Lei comincia a ridere. Tu non sai dove guardare. Sei pallido. Senti una fitta al braccio sinistro. Infarto? Dannata ipocondria. Tu stai quasi per darti per vinto quando lei, con grazia e delicatezza, alza un braccio e ferma un taxi.

“Chiudi la macchina e prendi la gomma!” Ti fa con fare sicuro.

A te non resta che eseguire e non dire nulla. Più nulla.

Salite sul cab. Il tassista nero, tale Marcus Washington, capisce al volo la situazione (un tipo brillante) e dice: “Vi porto da un gommista amico mio.” Il taxi parte. Sono le dieci di sera.

Lei ti è seduta accanto. La guardi con la coda dell’occhio. È così bella. Come diavolo fa? Tu invece sei sporco di grasso di auto e stai abbracciando una ruota di scorta, sgonfia per giunta. Sei consapevole di non essere al tuo top. Sei consapevole di non esserci nemmeno vicino. Il taxi si ferma. Paghi Marcus: 12 dollari. 

Scendete e vi ritrovate davanti ad una piccola autofficina del West Side. Il gommista è un tipo ispanico sulla quarantina. Per soli 15 dollari (tariffa notturna) ti gonfia volentieri la gomma. Per l’autostima ti chiederebbe molto di più. Lei non entra. Rimane fuori. Ne sei felice. Stonerebbe in quel posto.

Con la gomma ben gonfia prendete un altro taxi che per altri 12 dollari vi lascia davanti al garage del suo ufficio dove tu hai parcheggiato l’auto per non tenerla in mezzo alla strada.

Paghi anche il gentilissimo parcheggiatore pakistano. Un’ora di parcheggio: 18 dollari. È pur sempre Manhattan, signori.

Cambi la gomma rapidamente. Ormai sei pratico. Quasi un meccanico del team Ferrari. poi restituisci il cric al portiere dello stabile. Accendi la macchina ed esci dal garage. Fuori ti aspetta lei. La fai salire. Sei abbastanza cavaliere da scendere ed aprirle la porta. Poi, finalmente, quando siete in auto insieme, parli. Non hai proferito verbo nelle ultime due ore.

“Ti porto a casa.” È mezzanotte inoltrata. Domani dovete lavorare.

Lei fa cenno di sì con la testa.

Arrivi ad Harlem in pochi minuti e senza ulteriori incidenti. Durante il viaggio riesci a dire solo: “Mi dispiace.” Ma lo dici almeno un paio di volte, così, tanto per riempire i silenzi.

Quando sei sotto al suo palazzo che dà direttamente su Central Park, fermi l’auto, ma non la spegni per paura che possa non riaccendersi (a questo punto temi di tutto)

Un silenzio rumorosissimo si infila tra di voi.

Poi lei ti guarda negli occhi e sorridendo ti dice: “È stato di gran lunga il primo appuntamento più originale che mi sia mai capitato.”

Tu vorresti seppellirti.

Poi però lei si avvicina e ti bacia. Sulla bocca.

Tu diventi rosso come il rosso. Lei se ne accorge, abbassa lo sguardo, scende dall’auto ed entra in casa. Non prima, però, di averti sorriso per l'ennesima volta.

Tu te ne resti lì nella tua Cugar Rossa, sporco di grasso, sudato, con le gambe tremanti e le mani spaccate dal cric e però ti senti felice. Stupidamente felice.

Poi pensi a quella vecchia battuta che hai letto non sai più dove e cominci a ridere da solo, come un perfetto imbecille: “Quando una donna si è decisa a dartela è inamovibile!”

 
 
 

Nello stereo suona Making Plans for Nigel.

Post n°48 pubblicato il 29 Dicembre 2007 da nonnobizzarro
Foto di nonnobizzarro

La versione bossa nova dei Nuovelle Vague. La voce sottile della cantante ondeggia come gli ammortizzatori scarichi della tua Mercury, la marimba in sottofondo va al ritmo dei tiranti di acciaio che scorrono nel finestrino e che ti tengono sospeso sull’acqua. Sei sul Manhattan bridge.

Il sole brucia sull’acqua del fiume e i fumi delle fabbriche si confondono con le nuvole. Un vento impietoso spira dal mare e, infatti, fuori dalla tua auto sportiva fa freddo. E tuttavia dentro l’abitacolo tutto è calmo, perfetto, di una calma sudamericana. Complice la manopola del riscaldamento che hai girato violentemente in senso orario. Non pensi a nulla, segui la strada. Tutto sembra semplice. Non ci sono scelte. Solo Flatbush Avenue che ti attende.

Svolti a destra su Atlantic Avenue e mentre negli occhi ti scorrono i Co-Op di mattoni rossi di Bed-Stuy, quelli in cui Spike Lee ha ambientato Fa la cosa giusta. Ti sorprendi di non vedere gente di colore per i marciapiedi, forse il quartiere è stato ripulito dalla cura Giuliani. Che forza questi repubblicani. Tolleranza zero. O forse, più probabilmente, gli abitanti del quartiere sono tutti chiusi in casa per via del freddo che fa.

Svolti a sinistra. Washington Avenue. Ai lati della strada, altre casette in mattoni rossi. Un tempo si potevano comprare a pochi dollari. Alcune venivano vendute per appena un dollaro. Bastava prometter al comune di farsi carico della ristrutturazione. Tuo zio Eddie ne aveva acquistate alcune negli anni settanta, ma poi le ha date via per saldare un debito contratto con la malavita organizzata (ma questa è un'altra storia).

Oggi quelle stesse case che un tempo lo stato di new York ti tirava appresso, vengono comprate da grandi società immobiliari, sventrate, trasformate in loft prestigiosi per artisti bianchi, possibilmente ebrei, e rivendute a milioni di dollari. Riqualificazione la chiamano.

Quando finalmente arrivi a Downing Street ti accorgi di star sorridendo. Non sai perché.

Fai manovra. Parcheggi. Scendi dall’auto. Ti allacci la giacca a vento. T’infili i guanti. Metti il tuo adorato cappello di pelo e finalmente alzi lo sguardo. Eccola: Broken Angel.

Fantastica. Pensi che ha avuto senso arrivare fino a lì anche se durante il tragitto il tuo cervello è stato invaso (come al solito) da George W. Bush, da suo padre e dall’incomprensibile politica estera dei “neocon” repubblicani.

Broken Angel non è un locale alla moda, non è un bar destrorso e non è un teatro alternativo. È un fabbricato. Un’abitazione. Una casa. Dentro ci vivono due vecchietti di nome Arthur e Cinthia. Arthur e Cinthia sono marito e moglie e vivono lì da un bel po’ di tempo. Dagli anni settanta per la precisione. E, infatti, Arthur e Cinthia sono due residui di Woodstock, due fricchettoni fuori tempo massimo, due outsider, due mezzi matti, due sfasati. E quella che hai davanti è la loro casa. Se la sono costruita con le loro mani, usando solo materiale di riciclo: vetri di bottiglie, piastrelle rotte, legno raccolto in discarica.

Hai letto della loro storia sul Village Voice, il settimanale gratuito e gay friendly della città, e hai pensato di farci un pezzo sopra, da vendere magari a Repubblica o, in alternativa, da regalare al Manifesto. Per questo sei arrivato fino a lì.

Prendi il coraggio a due mani. Anzi una. Bussi. Niente. Bussi di nuovo. Ancora Niente. Forse non c’è nessuno. Forse ti hanno scambiato per uno del comune. Hai letto che qualche tempo fa in quella casa è scoppiato un incendio. Una cosa piccola. I pompieri hanno impiegato dieci minuti a spegnerlo. Ma da quel momento ai due coniugi freak è stato intimato lo sfratto. La casa non è a norma. Neanche lontanamente da quel che vedi. Di buono c’è che un’immobiliare ha fatto un’offerta. Una buona offerta. Vorrebbero comprare il terreno per costruirci un altro loft, ma Arthur e Cintia non ne vogliono saperne di vendere. Artur ci ha messo 25 anni a costruire quella casa. Tu istintivamente stai dalla loro parte, ovvio. Pace e amore. Siempre. Bussi ancora, ma senza risultato. Ok, viaggio a vuoto. Forse non del tutto però.

Guardi bene la casa. Ci giri attorno. È strana, inquietante. Prendi la macchinetta e scatti qualche foto.

Un tipo magro e con accento italo americano che lavora al vicino deposito dell’esercito della salvezza, ti vede, ti studia, mentre fai il tuo inutile reportage su quell’accozzaglia di mattoni e vetri rotti. È così attratto da te che smette di fare quello che sta facendo, vale a dire caricare casse di vestiti usati su un grosso camion rosso e bianco e ti viene incontro.

C’è poca luce. Il sole sta tramontando e allora rimetti la macchinetta in borsa. Qualche foto decente però sei riuscita a farla.

L’uomo magro si avvicina e con un sorriso ironico, chiede: “Si può sapere che ci trovate di bello voi intellettuali in quel coso là?”

Tu, spiazzato cerchi dentro di te una risposta intelligente, ma siccome non la trovi dici quello che pensi: “Non lo so… è strana no? Cioè interessante.”

Lui ti guarda e scrollando le spalle, commenta: “Sarà… Ma a me sembra solo un mucchio di mattoni messi a caso… ma che ne capisco io… non ho mica studiato arte alla Columbia!” Ride. Anche tu ridi, però per qualche ragione ti senti borghese e, di conseguenza, anche un po’ in colpa.

Saluti il tipo e risali sulla tua Mercury. Nello stereo i Nouvelle Vague questa volta reinterpretano In A Forest dei Cure. Ti avvii di nuovo verso il Manhattan Bridge. Stesso tragitto, direzione opposta.

Ormai è notte e, anche se ti vergogni ad ammetterlo, sei sollevato di lasciarti Bed-Stuy alle spalle.

 
 
 

Cammini a passi regolari

Post n°47 pubblicato il 28 Dicembre 2007 da nonnobizzarro
Foto di nonnobizzarro

calpestando le assi perfettamente levigate del ponte.  Alle tue spalle il sole  che sbatte gelidosugli spigoli dei grattacieli di Manhattan. Davanti a te si estende Brooklyn: morbida e misteriosa come un brownie. Alla tua destra, in lontananza, sulla Liberty Island, scorgi la sagoma di quell’enorme donnone di bronzo. Alla tua sinistra gli altri ponti: Manhattan Bridge, Williamsburg Bridge… A guardarli fai fatica ad immaginare un tempo in cui non c’erano. Eppure…

Nel 1983 veniva inaugurato il più grande, imponente e lungo ponte al mondo. Il Brooklyn Bridge, naturalmente. Prima del 24 Maggio di quell’anno per arrivare su Long Island serviva una barca, una canoa, oppure un discreto allenamento nello stile libero. Ma adesso anche uno come te, mediamente fuori forma, sprovvisto di patente nautica e, soprattutto, non imparentato con divinità vendicative, può camminare sulle acque.

Per questo ti piacciono i ponti. Li trovi molto civili. Disponibili. Tesi al confronto. Persino democratici. A New York ci sono un mucchio di ponti. Forse è per questo che la città non elegge un presidente repubblicano dal 1924, quando venne eletto Calvin Coolidge.  

Ad ogni modo, fai qualche passo avanti. Hai superato da un po’ la metà del ponte. Sei proprio sopra all’East River, che poi tecnicamente non è un fiume, ma quel pezzo di oceano che separa le due isole tra loro.

Un enorme palazzo begie con finiture verdi sulla tua sinistra ti ostruisce la visuale oscurando il resto della città. Sul tetto dell’edificio campeggia la scritta rossa: The Watchtower, la torre di guardia. Quello è il quartier generale dei testimoni di Geova. Lì pubblicano la loro rivista. Da lì tengono d’occhio i destini del mondo, nell’attesa per ora vana, dell’Armageddon che non è solo un brutto film come pensano alcuni, ma anche la fine del mondo come pensano altri.

Armageddon è una delle prime parole che ricordi. Tua zia Christine era una testimone di Geova (forse lo è ancora). Quando eri piccolo ti portava spesso da gente strana a leggere la bibbia in case di legno sperdute nei boschi del New Jersey. Ti ricordi che una volta durante una di queste sedute ti ha chiesto se conoscevi Geova. Tu hai risposto che non lo conoscevi. Non personalmente, almeno. Lei ti ha guardato come fossi satana e ti ha cacciato di casa. Tu non te la sei presa e ti sei messo a giocare al dottore nel bosco, con le figlie biondissime del padrone di casa. Tu pensavi che Geova fosse un nome di persona. Ti sbagliavi. Ma non di moltissimo.

Sulla facciata del palazzo c’è una scritta ammonitrice. Leggi: “God watches you!” Dio ti guarda. Ci pensi su e ti accorgi che sei felice di aver indossato la giacca buona. Sei pulito, quasi elegante. Dovesse arrivare ora la fine del mondo almeno ti troverebbe benvestito.

Già, la fine del mondo… Doveva venire nell’anno mille. Niente. Nel duemila. Niente. Qualcuno si era preparato per gli anni cinquanta-sessanta. Comprensibile: la crisi missilistica di Cuba, la guerra fredda, la bomba H.

L’anno scorso durante dei lavori di ristrutturazione nei pilastri del ponte di Brooklyn è stato rinvenuto un piccolo rifugio antiatomico. Qualcuno con molta voglia di sopravvivere ad una guerra termonucleare globale lo aveva fatto costruire nell'eventualità di conflitto con l'Unione Sovietica. Ci stavano ancora dentro le scorte alimentari dell’epoca: scatolame, fagioli, latte in polvere e naturalmente Coca Cola. Always Coca Cola.

Con questi pensieri escatologici arrivi a Brooklyn. Ti guardi attorno. È bello. Le macchine filano sotto di te. Ci sono poche nuvole. Il vento da nord pulisce tutto. Giureresti che persino la foschia dello smog che ristagna eternamente sopra la metropoli si sia finalmente tolta di torno. Il sole sta tramontando e sembra sorgere da dentro un grattacielo di Manhatan. Wow. Che cartolina perfetta. Cerchi la tua macchinetta fotografica nello zaino: guanti, preservativi, penna e quaderno…

Qualcuno grida: “Togliti di mezzo coglione!”

Alzi lo sguardo. Un ciclista indiavolato che attraversa il ponte in direzione contraria alla tua, ti sta venendo addosso. Con un salto ti togli di mezzo. Appena in tempo. Lasci cadere a terra il tuo quaderno. La tua penna invece passa attraverso le assi di legno e cade giù. Non la vedi impattare con l’acqua del fiume. Troppo lontano.

Il ciclista senza voltarsi indietro continua a pedalare, ma alza in aria la mano destra e il relativo dito medio in segno di disistima nei tuoi confronti.

Una tipa nera, soprappeso, con i capelli ricci e troppo rossetto ti guarda divertita: “Giovanotto è meglio che cammini su questo lato del ponte se vuoi restare vivo!”

Ti accorgi in quel momento di essere sulla corsia riservata alle biciclette. Ti togli di mezzo e fai un respiro profondo. Quel ciclista sanguinario avrebbe potuto farti secco! Sarebbe stata la fine. “Oh beh, poco male”, pensi guardando la facciata del palazzo begie e verde, la torre di guardia, “si è sempre in tempo per la fine del mondo.”

 
 
 

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Garden State

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You are not a stranger here

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Call it sleep

 

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Straight Time

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Ballad of a teenage queen

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So long it's been good to know you

 

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M. Scorsese 1974

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