Alla volta del cielo

Post n°48 pubblicato il 30 Dicembre 2015 da fenice1963

 

 

 

 

"Infine, cosa vuoi?"

Un istante solo mi concessi e risposi:

Sempre l'Arcobaleno.

 

 

 

 

Il rosso vivo della passione,

 

 

 

l'arancione caldo del desiderio,

 

 

 

 

il giallo luminoso della gioia,

 

 

 

 

il verde rassicurante della speranza,

 

 

 

l'azzurro intenso della libertà,

 

 

 

l'indaco indefinito della vita,

 

 

 

il viola cupo degli errori umani,

 

 

 

e ... al di là dell'Arcobaleno,

il perdono, l'infinito colore del Cielo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Allora le fate si convinsero.

"Ti chiameremo Angelica e ti daremo i colori che hai chiesto e gli occhi del cuore per vederli. Ma l'infinito colore del cielo, il perdono, dovrai chiederlo a Dio.

 

 

 
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Alla volta del cielo

Post n°47 pubblicato il 29 Dicembre 2015 da fenice1963

 

"Cos'altro vuoi?"

Senza riflettere, senza pensare, senza indugio risposi:

Ancora l'Arcobaleno.

 

 

 

 

Rosso come il sangue che scorre nelle vene,

 

 

 

 

arancione come un aquilone in volo,

 

 

 

 

giallo come il sorriso di chi vuol bene,

 

 

 

 

verde come le speranze che non ti lasciano solo,

 

 

 

 

indaco come certi giorni miei,

 

 

 

 

viola come l'ultimo colore dell'arcobaleno,

 

 

 

dei colori più belli il mio mondo lo dipingerei.

 
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Alla volta del cielo

Post n°46 pubblicato il 13 Dicembre 2015 da fenice1963

 

Arcobaleno

 

 

Quando nacqui, le fate mi circondarono e mi chiesero:

"Cosa vuoi?"

Senza riflettere, senza pensare, senza indugio risposi:

L'Arcobaleno

 

 

Rosso come un cuore innamorato

 

 

Arancione come un tramonto infuocato

 

 

Giallo come la luce di una stella

 

 

Verde come la stagione bella

 

 

Azzurro come l'onda che si infrange

 

 

Indaco come il cielo quando piange

 

 

Viola come un pensiero profondo

 

 

... e tutti i colori che ci sono nel mondo.

 
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Alla volta del cielo

Post n°45 pubblicato il 12 Dicembre 2015 da fenice1963



Un angelo senza ali






Avremmo voluto essere felici.

Ricordo con tenerezza, nostalgia e rimpianto quei progetti nascenti sul nostro futuro insieme. Avevamo scelto il gradino di un portoncino marrone come sosta finale della nostra consueta passeggiata serale e, mano nella mano, occhi negli occhi, ci dichiarammo finalmente il nostro amore.





Anche se l'idea del matrimonio era precoce, ci lanciammo tuttavia alle fantasticherie su di esso. Desideravo una cerimonia non sfarzosa ma intima e il mio vestito da sposa lo immaginavo bianco e splendido come sarebbe stata la nostra vita insieme.





Lui era il mio uomo dei sogni, io la ragazza che aveva a lungo cercato, la sola che lo aveva fatto riflettere seriamente sul matrimonio. Mettere su famiglia era il nostro obiettivo più urgente, quello comune alla stragrante maggioranza delle coppie, ma per noi conservava la caratteristica di unicità.

Il matrimonio era per me fonte di radicali cambiamenti che mi entusiasmavano e allo stesso tempo mi spaventavano. Tant'è vero che gli manifestai questa inquietudine affermando che avrei voluto che tutto rimanesse com'era. Quello che non volevo perdere era la mia perenne allegria, quasi infantile, i sogni che mi frullavano nella testa, la spensieratezza con cui vivevo i miei verdi anni. Le persone sposate mi parevano molto, molto seriose e raramente le vedevo ridere fragorosamente. Il mondo degli adulti era così piatto, monotono, carico di responsabilità. Per questo volevo sposarmi giovanissima, per vivere la meravigliosa avventura in due in un tempo in cui si ha sempre voglia di ridere e la freschezza di idee per poter vivere felicemente un matrimonio.

Giovane comunque lo ero solo io, perchè lui, Romano, aveva aspettato abbastanza, anzi alla soglia dei trenta aveva cominciato a pensare che quel passo così grosso e importante non lo avrebbe ormai fatto più.

Così, nonostante i miei mi consigliassero di prendere tempo e di finire quantomeno gli studi, io ero fermamente decisa a coronare il nostro sogno d'amore.

Arianna, spero tu non debba pentirtene! mi disse mia madre scuotendo mestamente il capo.

La cerimonia non fu per niente semplice e intima come l'avevamo immaginata, al contrario, fu un matrimonio sensazionale, da favola. Romano indossava persino l'alta uniforme, io uno splendido abito di taffettà, col corpetto interamente di pizzo e uno strascico lunghissimo, realizzato apposta per me. La funzione si svolse nella cattedrale in stile romanico, riccamente addobbata di roselline gialle. Ce n'erano dappertutto perchè la chiesa, essendo grande e sobria, doveva essere piena di fiori per poter risaltare nella sua bellezza.

Un grande tappeto blu attraversava tutta la navata, lunghissima. L'avevo percorsa al braccio di mio padre, senza distogliere gli occhi dalla figura dello sposo fermo all'altare, valorizzata da quell'alta uniforme rossa e nera. Dopo la marcia nuziale, che aveva accompagnato il mio ingresso al braccio di papà, fiero ed emozionato quanto me, quando fummo entrambi ritti davanti all'altare (sul quale oltre alle roselline, facevano bella mostra di sè stupende orchidee), si levarono le stupende note dell'Ave Maria.

La voce tremante e bellissima di Consuelo accrebbe notevolmente la mia emozione. Percepivo tutta la sua emozione e fui felicissima di aver scelto e voluto decisamente lei. Consuelo era la mia migliore amica e una componente della schola cantorum del paese.

L' Ave Maria era generalmente affidata a Brunilde che aveva una voce da soprano, forte, incisiva, acuta. Ciò nonostante io avevo preferito che a cantare quella struggente melodia d'amore fosse la mia amica del cuore.

"Non ti posso assicurare di farcela - mi aveva detto preoccupata - non ho mai cantato l'Ave Maria e farlo per la prima volta, proprio per te ... insomma, temo che potrei interrompermi per l'emozione e rischierei di deluderti, rovinando una cerimonia che ha tutta l'aria di dover essere perfetta."

"Accetto questo rischio!" dissi convinta.

"Guarda che non sono titubante per essere pregata, davvero c'è la possibilità che mi fermi tutto d'un botto e che mi metta a piangere."

"Se dovesse succedere una cosa del genere, sarebbe lo stesso la più bella Ave Maria della mia vita."

"Non dimenticare che è l'unica Ave Maria della tua vita. Sono un membro della schola cantorum e so quanto la sposa ci tenga a questo pezzo, io non vorrei proprio ..."

"Voglio che la mia Ave Maria me la canti tu" la interruppi, poi guardandola profondamente negli occhi:

"Per favore"





Mentre Consuelo mi donava la sua voce amica, io tenevo gli occhi levati verso la Madonna, il cuore in preghiera.






Dopo il rito, egregiamente celebrato da un docente di teologia dommatica alla Università Lateranense di Roma, fummo scortati con una lussuosa mercedes nera fino ad un ristorante altrettanto lussuoso e fastoso nel cuore della città. Poi ci furono le foto ricordo, numerosissime, nel palazzo regale, le riprese con la telecamera, il taglio della superba torta a svariati piani, il brindisi, gli auguri, il cambio d'abito, la stanchezza ... L'ultima ad andarsene fu Consuelo, dopo un abbraccio, caldo e avvolgente quanto era stata la sua voce.

Ci mettemmo subito in viaggio verso quella stupenda località di mare dove Romano aveva prenotato da tempo per la nostra prima notte di nozze. Il Grand Hotel, a picco sul mare, mi sembrò davvero il massimo e dovette comunicarglielo pienamente il mio viso, perchè mi disse soddisfatto:

"Sono contento che la mia sorpresa ti sia piaciuta!"

Io speravo che a lui piacesse la mia lunga e leggera camicia da notte, scelta con cura messi addietro. L'avevo fatta scivolare lungo il mio corpo giovane e nudo e quella seta preziosa fu come una pelle sulla pelle, tanto mi ci sentivo bene. Quella fu la notte dell'abbandono, dei desideri che si incarnano, del distacco da tutto quello che era stato prima di incontrare lui.





Anche se avevamo progettato di aspettare almeno un paio di anni, quando mi accorsi di essere incinta ne fui immediatamente felicissima.





Il nostro viaggio di nozze fu abbastanza lungo e avevamo attraversato, oltre che il resto dell'Italia da Roma in su, tutta la costa meridionale della Francia e buona parte della Spagna settentrionale. Avevamo visto numerosissime città, anche se non ci eravamo mai fermati per due giorni nello stesso posto. Romano aveva una frenesia addosso di voler vedere tutto e vederlo in fretta. Quella volta a Madrid gli chiesi di fermarci un po' di più perchè avrei voluto visitare la città ma non ci fu verso di trattenerlo là. Guidava ore e ore, ininterrottamente, dicendosi soddisfatto per non aver aderito mai a nessuno di quei viaggi organizzati e pianificati dalle agenzie.

"E' bello andarsene in giro senza meta" diceva, ma dal modo come si spostava da un posto all'altro, sembrava invece che una meta ce l'avesse sempre. Comunque vedemmo, anche se superficialmente, molti posti, divertendoci e trascorrendo le nostre serate nei ristoranti degli alberghi dove pernottavamo. Qualche volta, buona parte della notte la passavamo in qualche locale o anche in giro per le strade della città che più ci affascinava.

Quindi mi sentivo già pronta per affrontare quel nuovo evento, la venuta di qualcuno tra noi. caricandoci di responsabilità, ma unendoci in modo più profondo.

Quando comunicammo il mio stato ai suoi genitori, questi furono felicissimi, soprattutto suo padre. Sarebbe stato il loro primo nipotino e da quel giorno in poi il pensiero di lui dominava tutte le nostre giornate. Cominciammo a pensare subito al nome, proponendone ciascuno di noi tantissimi. Eravamo convinti che si trattasse di una bambina e ci concentrammo quindi solo su nomi femminili. Comprammo il suo primo giocattolo in uno di quei grandi magazzini del centro. Si trattava di un morbido pupazzo con il viso lentigginoso, il cappello e il vestito di velluto blu. Dandogli la corda muoveva la testa al ritmo di una dolce melodia. L'avrebbe rilassata e fatta addormentare. Poi fu la volta dei primi indumenti: una canottiera verde acqua, un pagliaccetto sgargiante, un'infinità di calzini di cotone. Sarebbe nata a maggio, come una rosellina che sboccia. Fu quest'idea a suggerirci il nome Rosa.

Ero all'undicesima settimana di gestazione e già sentivo la presenza di quell'esserino che si stava formando dentro di me. Mi sembrava come se la mia vita fosse finalizzata a quell'evento, come se fossi nata per dare a mia volta la vita. Me ne stavo con le mani perennemente in grembo, carezzando quel sogno che si stava incarnando nella mia carne.

Facevo regolarmente le analisi e i controlli di routine, attenta a non strapazzarmi e osservando scrupolosamente la dieta che il ginecologo mi aveva prescritto. Anche quel pomeriggio gli avevo portato il risultato del test immunologico e mi aspettavo che tutto procedesse normalmente. Invece il medico vedendolo si accigliò improvvisamente e, dopo avermelo riconsegnato, mi chiese di sedermi.

"Qualcosa non va?" chiesi allarmata.

"Nell'ultimo test i valori erano gli stessi della volta precedente, anche se sarebbero dovuti aumentare. Ora però sono addirittura diminuiti. C'è effettivamente qualcosa che non va" disse serio.

"Cosa ... cosa può essere?" chiesi.

Ero alla mia prima gravidanza, non avevo idea di cosa fosse l'HCG, ecco perchè, anche avendo visto il risultato del test, non mi ero accorta di nulla.

"Non lo so - disse - le richiedo subito un'ecografia pelvica di controllo per diminuzione B-HCG"

"La faccia al più presto" si raccomandò, prima di offrirmi la mano per salutarmi, sulla porta.

"D'accordo, dottore" dissi mestamente e lasciai lo studio.

Feci l'ecografia quel pomeriggio stesso. Avevo aspettato il mio turno nella saletta d'attesa con un'apprensione che pensavo non riuscire più a controllare, quando il medico finalmente mi disse di entrare. Mi distesi sul lettino e subito i miei occhi andarono al monitor. Tra poco avrei visto la mia bambina o quello che di lei già c'era. Ma non c'era assolutamente nulla.

"La camera gestazionale è vuota" disse infatti il dottor Brescia, facendo scorrere sul mio ventre il suo strumento. Poi disse:

"Proviamo con la sonda". Ma del bambino non c'era traccia.

"Niente. Non c'è!" disse e si accinse a ripulirmi.

Non c'è! Mi ero ammutolita, si era ammutolito il mio cuore, mi sembrava che il mondo intero fosse muto di fronte a questa realtà. Non c'è! Qualcuno che non ero io lo ripeteva dentro di me ed io mi sentivo infinitamente vuota.

"Si tratta di un ovulo cieco" spiegò il medico da dietro la scrivania, dove si era accomodato per scrivere il risultato dell'esame.

Utero antiversoflesso, regolare per morfologia e profili, aumentato in maniera alquanto inferiore a quella prevista per l'epoca d'amenorrea, nel cui corpo si reperta una camera gestazionale dismorfica, ampia, priva di embrione, con pareti lievemente irregolari, come per blighted ovum.

Mise il foglietto dattiloscritto in una cartella insieme con l'ecografia e me la porse. Non la voglio gridavo dentro di me, mentre tendevo la mano per ritirarla.

"La camera gestazionale era pronta, l'ovulo è stato fecondato ma l'embrione non si è formato, per questo si chiama ovulo cieco o ovulo bianco. E' un caso abbastanza comune" spiegò. 

"Quale può essere la causa?" chiese finalmente Romano, che se ne era stato in silenzio attonito fino a quel momento.

"Non ce n'è una in particolare. Sono fenomeni, ripeto, abbastanza comuni":

"Scherzi della natura?" chiese ancora.

"Sì, possiamo dire così" gli fu confermato.

"Cosa dobbiamo fare adesso?"

"La signora deve essere ricoverata in Ospedale e sottoporsi a un raschiamento. L'aborto è interno, non c'è stata emorragia ma bisogna ripulirla. E' necessario che si sottoponga a questo intervento che non è complicato. Le faranno un'anestesia e si procederà al raschiamento. Nel giro di qualche giorno tornerà a casa."

Partimmo subito per l'Ospedale più vicino, in tarda serata lo raggiungemmo e fui ricoverata. Mi visitarono quella sera stessa e l'indomani mi avrebbero fatto quel tipo di intervento di cui mi aveva parlato il dottor Brescia. La notte che trascorsi in quell'Ospedale fu davvero buia.

Veramente, avevo salutato mio marito mostrandomi serena, assicurandogli che mi sentivo bene e che no ... non era la fine del mondo. Adesso sapevo di poter concepire (credo che la paura della sterilità affiori in qualche modo in tutte le donne, anche senza un reale motivo), la prossima volta si sarebbe formato anche l'embrione. Sì, la prossima volta sarebbe andato tutto normalmente. Non so per quale strano motivo, anche se ero convinta di quello che avevo detto, a un certo punto cominciai a piangere.





Sarà stato perchè accanto al mio letto c'era una giovane mamma in procinto di partorire, perchè in fondo avevo sepolto tutto il mio dolore, perchè credevo di avere la vita dentro e invece mi ero scoperta improvvisamente vuota. Sarà stato per tutto quello che quella vita significava per la mia vita.

Cominciai a piangere al telefono con mia madre e piansi anche dopo aver riattaccato sulle parole di conforto di lei. Piansi per tutta la notte. neppure potevo piangere un bambino perduto, perchè quel bambino non c'era, non si era mai formato. Allora, cos'è che piansi? Non l'ho mai saputo. Non sono mai riuscita a capire cosa mi avesse addolorato così tanto.

Quando tornai a casa mi sentivo bene e al medico curante, che mi voleva prescrivere un lungo periodo di convalescenza, dissi che volevo tornare subito al lavoro.

"Non sottovaluti le conseguenze di un aborto" mi disse, insistendo per darmi almeno venti giorni di riposo.

Invece io sapevo che stavo bene, avevo anzi bisogno di riprendere subito la mia vita di sempre. Certo, mi sentivo un po' depressa, ma tra non molto avremmo concepito un altro bambino e io sarei rifiorita. Ci avevano detto, infatti, che sei mesi dal raschiamento erano sufficienti per poter pensare ad un'altra gravidanza. Appena dimessa dall'Ospedale quei sei mesi mi sembravano eccessivi, non avrei voluto aspettare tanto prima di sentirmi di nuovo meravigliosamente incinta. Poi, passato il tempo prescritto, cominciai a sentirmi inquieta e a rimandare per un motivo o un altro la decisione di concepire un bambino.

Quasi sicuramente quello che è successo rimarrà un caso isolato, ma se dovesse ripetersi allora dovrete fare delle ricerche sulla vostra compatibilità genetica ci aveva detto uno dei medici, prima di dimettermi.

Non so perchè queste parole mi tornarono improvvisamente in mente, spiegando solo ora il motivo di quel malessere così profondo. Quella che noi avremmo chiamato Rosa e immaginavamo diventare una bambina bellissima, con lunghi capelli castani e occhi nocciola, non era in realtà mai esistita. L'avevo sempre chiamata angelo mio in quei tre mesi in cui l'avevo creduta dentro di me.

Doveva essere il frutto dell'amore che io e Romano provavamo l'uno nei confronti dell'altra, ma quell'amore non aveva preso carne. Avevo paura a concepire un altro bambino perchè poteva essere l'espressione di un altro nulla. Quell'amore che avevo creduto di sentire fin nel profondo del cuore, forse era destinato a rimanere appunto nel fondo, perchè non aveva ali, come il mio angelo.

Quando tornai dal dottor Brescia per la prima ecografia, avevo il cuore in gola. Diversamente da quella volta, ebbi cura di non guardare subito il monitor. Avevo paura, sì, di non vederci niente. Poi, molto lentamente mi voltai. Sentii il cuore battermi forte, poi arrestarsi improvvisamente, infine riprendere il suo ritmo, quando con un sorriso il dottore mi mostrò un altro cuore. Era un minuscolo puntino su uno schermo nero, ma il battito era già percepibile.





Ed ha le ali esplosi in una risatina interiore.

"Queste sono le braccine" indicò il medico, sempre sorridendo.

Per me sono ali confermai dentro di me.

Furono quelle a darmi il coraggio di andare avanti, di pensare che forse avremmo ancora potuto essere felici, imparando a curare questo nostro amore, a dargli aria per respirare, a farlo uscire finalmente dalla gabbia del nostro cuore, a lasciarlo andare oltre i confini del nostro corpo, a rincorrerlo solo con gli occhi come con un aquilone leggero o con un uccello in volo verso la libertà ...

Il nostro angelo con le ali era un maschietto e la sua nascita ci ha reso immensamente felici. Poi abbiamo concepito anche la nostra bambina, ma non ho più voluto chiamarla Rosa, perchè per me Rosa anche se non c'era, è comunque una  parte di noi che appartiene a un altro tempo. L'abbiamo chiamata Mara, perchè anagrammando il suo nome, possiamo sempre ricordarci di amar.

E' l'amore che abbiamo imparato a darci, senza stringerci troppo, ma creando finalmente la distanza per potergli permettere di volare.




 

 
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Angelo e demone

Post n°44 pubblicato il 09 Marzo 2014 da fenice1963

 

 

Angelo e demone

 

 

 

demone e angelo

 

 

insomma... una demoniangelo!!!

 

 

 

 

Fa di una donna un angelo la luce che si sprigiona da lei ad ogni battito di ciglia, ad ogni sorriso, ad ogni sguardo, ad ogni passo...

 

 

Una luce interiore che per brillare di più ha bisogno dell'oscurità

 

 

 

 

 

angelodemone

 

donna

 

 

 

 

Fa della donna un demone l'ombra che  l'accompagna ogni volta che è costretta a chinare il capo e non vorrebbe... 

 

 

... perchè coverà nel suo cuore il desiderio di rivalsa

 

 

 

Fa della donna un demone il fuoco della sua passione

 

 

 

 

Ogni donna, anche quella candida come la neve ha in sè il fuoco che le è necessario per rinascere... come fenice.

 

 

 
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