Creato da ania_goledzinowska il 10/01/2011

CON OCCHI DI BAMBINA

Ania Goledzinowska

 

 

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2° CAPITOLO CON OCCHI DI BAMBINA - IL CASTELLO INCANTATO

Post n°47 pubblicato il 12 Maggio 2011 da ania_goledzinowska
Foto di ania_goledzinowska

 BUONA LETTURA....

ps.PER CHI NON AVEVA LETTO IL 1° QUI:

IL PRIMO CAPITOLO DEL MIO LIBRO "UN CLIENTE SPECIALE"

 http://blog.libero.it/occhidibambina/10048334.html

2° CAPITOLO - "IL CASTELLO INCANTATO"

sono nata in Polonia, a Varsavia. il paese di copernico, di chopin, e di wislawa szymborska, una poetessa che ho sempre amato, premio nobel per la letteratura. il paese di karol wojtyla, uno dei papi più amati della storia. ma sono venuta al mondo in un momento in cui il mio paese conosceva un periodo assai difficile. eravamo ancora la Re- pubblica popolare polacca, uno stato satellite dell’Unione sovietica. la vita, sotto il comunismo, era dura.

nacqui in un ospedale enorme, che a guardarlo da fuori sembrava una caserma.

Tutto era grigio e freddo in quel quartiere: bielany.

Trascorsi i primi anni in casa di mia nonna Janina, la mia nonna materna, che fin dal primo giorno mi amò come una figlia. era lei che, quando veniva la sera, mi rimboccava amorevolmente le coperte e, accarezzandomi i capelli, mi sussurrava dolcemente la buonanotte. erano le sue mani che mi preparavano la cena, che lavavano i miei abiti, ed era lei che mi guidava alla scoperta della vita, giorno dopo giorno.

Vivevamo in uno di quei palazzoni che sembravano caserme, o fabbriche, e che piacevano tanto agli architetti del regime comunista. enormi scatole di cemento, tutte uguali l’una all’altra, come in un angosciante gioco di spec- chi. senza balconi o terrazze. solo finestre. File di finestre quadrate e, dietro ogni finestra, piccoli appartamenti tutti uguali, abitati da persone tutte uguali.

Varsavia era stata letteralmente cancellata dai terribili bombardamenti della seconda guerra mondiale. e alla sua imponente bellezza d’un tempo s’erano sostituiti questi quartieri monotoni e squallidi.

se penso a quel periodo uno dei primi ricordi che mi vengono in mente è kajtek, il mio primo compagno di giochi: un barboncino. Pure lui era grigio... aveva un bel pelo riccioluto, e ho una vaga memoria di me che ci andavo a cavalcioni. chissà che fine ha fatto quel cagnolino che aveva tanta pazienza con me?

in seguito andammo a stare nel quartiere di zoliborz, in via suzina, in un appartamento al piano terra. entran- do, subito sulla sinistra, c’era un cucinotto con i mobili dai colori scuri, e al di là di una tendina gialla c’era l’im- mancabile finestra quadrata, che dava direttamente sul marciapiede.

di fronte alla cucina c’era una camera da letto. io dor- mivo là, in uno di quei letti ribaltabili, che al mattino li chiudi e diventano un armadio. c’erano anche un tavolo e un baule, dove tenevo i giocattoli. Un piccolo disimpegno portava al soggiorno-camera da letto, dove dormivano i miei genitori, e al bagno.

avevo quattro anni, e quando un giorno mi dissero che dovevo andare a stare per un po’ dai miei zii, in campa- gna, feci i salti di gioia. lì mi divertivo come una matta. giocavo, correvo, e anzi fu lì che cominciai a fantasticare di abitare in un castello incantato... la campagna mi dava alla testa. a Varsavia vivevo fronte strada, in un quartiere dove sembrava che ci fosse nebbia anche quando c’era il sole. e invece in campagna... tutto quello spazio, il pro- fumo dei fiori e dell’erba, il mormorio delle foglie degli alberi quando soffiava il vento, o quello dei ruscelli, mi mandavano in estasi. Mi sentivo padrona del mondo, e sognavo che tutti mi volessero bene. i miei giochi avevano un tema ricorrente: c’era una volta, nel castello dei giorni felici, una piccola principessa dai capelli d’oro...

Quei giorni trascorsero sereni. io mi divertivo a cercare di acchiappare le rane dello stagno, ascoltavo il canto degli uccellini come un concerto suonato per me, e quando ero stanca mi sdraiavo sull’erba a guardare le bizzarre forme che le nuvole disegnavano nel cielo.

i miei genitori non erano con me, ma non faceva nulla perché io, come ogni figlio unico, mi sentivo padrona incontrastata del loro cuore e dunque, dal punto di vista di un bambino, di tutto il mondo.

il mio era un sogno senza fine. il sogno che tutto il mondo mi fosse amico, che fosse bello e sicuro come il regno fantastico in cui mi ero rifugiata. sentivo di andare incontro a un futuro pieno di promesse e d’amore.

la vacanza finì, e quando tornai a casa trovai una sorpresa che mi lasciò di stucco: oggi so che quella è una delle sorprese più belle che si possano ricevere nella vita, ma lì per lì non è che mi fece tanto piacere... nella mia camera c’era un altro lettino, e dentro il lettino c’era una strana bambola con i capelli neri, che si muoveva da sola, strillava, e puzzava di latte e di cacca: era nata natalka, la mia sorellina. la piccola principessa dai capelli d’oro, da quel giorno, non sarebbe più stata la padrona incontrastata del cuore dei suoi genitori...

non avevo la minima idea di come quella cosa si tro- vasse lì, né da dove fosse spuntata o cose del genere. non immaginavo cosa volesse dire essere incinta, né ho alcun ricordo di mia madre col pancione. non mi ero accorta di nulla, ma ormai aveva poca importanza.

Fino al giorno prima ero stata la principessa dei prati, ora invece dovevo dividere la mia cameretta, già piccola anche solo per me, con un’altra creatura.

Tutto avrei dovuto dividere con lei: anche l’amore dei miei genitori.

Passarono un paio d’anni. non mi ero ancora abituata alla presenza di una sorellina, e a dire il vero non ero molto contenta che lei esistesse, ma un giorno, rientrata da una passeggiata insieme al mio papà, quando non trovammo più né lei né mia madre, io rimasi terrorizzata. a terra c’erano tracce di sangue.

diventai pallida, bianca come un lenzuolo appena la- vato, e cominciai a piangere per la disperazione. ero con- vinta che non le avrei più riviste. solo in quel momento mi resi conto che a volte trattiamo con sufficienza proprio le persone che ci stanno più a cuore, come se l’amore che proviamo per loro fosse un esplosivo così pericoloso e difficile da maneggiare che preferiamo chiuderlo a chiave dove nessuno lo può più trovare, noi stessi compresi.

mia madre aveva deciso di cambiare le tende, ed era salita su una scala di ferro. natalka s’era arrampicata dietro di lei, ed erano cadute entrambe. avrebbe potuto andar molto peggio, invece mamma si era solo spaccata un ginocchio, e mia sorella se l’era cavata con un taglio a una mano. le avevano portate in ospedale. a natalka fu necessario mettere dei punti di sutura. Fu da quel giorno che cominciai a preoccuparmi per lei. mi sentivo come se fosse colpa mia quello che era successo.

del resto natalka era un diavoletto, un autentico pe- ricolo ambulante! bastava lasciarla sola un attimo e lei combinava un disastro. aveva un vero e proprio talento per mettersi in situazioni rischiose. Per esempio era una specie di aspirapolvere: tutto quello che le capitava a portata di mano, l’attimo dopo finiva nella sua bocca. mangiava qualsiasi cosa!

Una volta si infilò in bocca una carota intera. natural- mente mentre cercava di ingoiarla le si incastrò in gola. Ti- rarla fuori era impossibile. stava per soffocare. Rantolava.

Era diventata cianotica. arrivò in ospedale in fin di vita. al pronto soccorso, visto che non riuscivano a estrarre la carota, gliela spinsero giù... Finalmente natalka riuscì a deglutirla, riprese a respirare normalmente e, pian piano, con gli occhioni ancora sgranati per il terrore che aveva provato, riassunse un colorito normale. si era salvata per un pelo: e per fortuna la carota fece normalmente il suo lungo viaggio verso il mare...

anche se ora sapevo quanto le volevo bene, la nascita di natalka aveva comunque cambiato la mia vita. ero diventata una bambina solitaria, e intanto nelle mura del mio castello cominciavano ad aprirsi le prime crepe. sì, c’era una volta una principessa, in quel castello... e c’era una mamma.

Una mamma che invece delle carezze dava schiaffi e botte per farmi capire che non dovevo mettermi in testa certe cose, che non ero una principessa, e non ero nem- meno una bambina qualunque. i lividi rimanevano per giorni sulla mia pelle, come tatuaggi. era una mamma che invece di chiamarmi per nome, o “tesoro mio”, o con un altro dei nomi che le mamme danno ai loro figlioletti, urlava, m’insultava, e a volte bestemmiava addirittura. e questo, magari, soltanto per avvisarmi che la merenda era pronta.

man mano che crescevo, cominciavo a rendermi conto che forse la nascita di natalka non mi aveva rubato gran- ché. Perché avevo una mamma un po’ così, e perché anche il mio papà era un po’... speciale.

Una volta, per il mio compleanno, lui mi portò della cioccolata. Provò anche a essere affettuoso, ad abbracciar- mi. sembrava tranquillo quel giorno, però il suo alito era strano, aveva un odore sgradevole. non potevo capirlo, ma lui aveva nelle vene più alcol che sangue. sì, sembrava tranquillo, però... però era meglio correre a nascondersi sotto il tavolo! Eppure, prima di questa presa di coscienza – prima che il castello incantato crollasse per sempre, seppellendo sotto le sue macerie tutti i miei sogni di bambina – c’era stato un tempo in cui mi ero davvero sentita felice. in cui avevo assaporato la felicità vera, quella che sta nelle piccole cose di tutti i giorni. le cose che danno a una bambina la consapevolezza di essere amata e di essere al sicuro. cose banali, in apparenza, ma molto importanti. come quando al mattino senti che tua madre si alza a preparare il tè per tuo padre che sta per andare al lavoro. e nel dormiveglia li ascolti parlare a bassa voce, per non svegliarti. ah, quelle voci basse, tranquille, quella riga di luce che filtrava dalle finestre, l’odore della notte che ancora aleggiava nell’aria della mia cameretta mentre io mi rannicchiavo al calduccio sotto le coperte... sì, quella era la felicità. lei gli versava il tè nella sua tazza preferita. sembrano particolari sen- za grande importanza, invece sono questi i ricordi che conservo gelosamente nella stanza più segreta della mia memoria. chissà dov’è ora quella tazza... Forse esiste ancora, da qualche parte in casa di mia madre, oppure è diventata un oggetto di modernariato sui banchi di un mercato delle pulci, o magari fa da vaso da fiori per un mazzolino di viole e margherite dedicato da una mano gentile a una madonnina.

mia madre e mio padre non erano tanto giovani quando si conobbero. Papà era già stato sposato, e incontrò mia madre al lavoro. erano entrambi operai. lei si chiama iva, ed era una donna bella, con dei lunghissimi capelli biondi e gli occhi cerulei. lui si chiamava zbigniew ed era invece un tipo moro, con la carnagione olivastra, i capelli neri e gli occhi color nocciola.

Quando conobbe mia madre, mio padre aveva già un figlio. dai racconti che ho ascoltato in famiglia so che tutti lo consideravano un brav’uomo, però so anche che tutti avevano sconsigliato a mia madre di mettersi insieme a lui.

Aveva un gran problema il mio papà: gli piaceva molto bere qualche bicchierino... ma mia madre era un tipo testardo (e io ho preso proprio da lei), aveva l’anima della crocerossina, era una che voleva salvare il mondo! e quan- do si metteva una cosa in testa, non mollava finché non arrivava fino in fondo.

e lo sposò.

Quando io sono nata, lei aveva ventotto anni. eravamo una famiglia semplice, una delle innumerevoli famiglie semplici della Polonia di allora... dopo la scuola i miei genitori, non avendo mezzi per l’università, erano andati a lavorare. avevano fatto una vita molto dura. non c’era posto per i sogni. È difficile capire, oggi, quanto fosse dura la vita nel mio paese in quei tempi. Però c’era una grande umiltà, una grande solidarietà. c’era una nazione intera da ricostruire. bisognava aiutarsi a vicenda. e lottare, lottare per dare un futuro migliore ai propri figli.

mia madre, che è nata all’inizio degli anni ’50, mi rac- contava che quando lei era bambina a Varsavia c’era ancora il coprifuoco e, se mettevi il naso fuori di casa nell’ora sbagliata, rischiavi che ti sparassero addosso.

l’occupazione comunista aveva fermato il tempo. il dopoguerra in Polonia è durato decenni. stretto tra la germania nazista e l’imperialismo russo, il popolo polacco ha pagato uno dei più alti tributi di sangue allo scempio della guerra e delle dittature nel novecento. i tedeschi avevano conquistato il mio paese in pochi giorni. la migliore gioventù polacca era morta andando alla carica, a cavallo, contro i panzer, mentre gli stukas bombardavano senza misericordia le città. mia nonna era stata deportata dai tedeschi e, come molti superstiti di quegli orrori, non ne parlava mai. solo una volta, chissà perché, mi raccontò qualcosa. con i suoi stessi occhi aveva visto uccidere neo- nati, afferrati per i piedi dagli aguzzini e scaraventati con la testa contro un muro. era stata costretta a denudarsi, ed

era stata ispezionata nelle sue parti più intime: li trattavano peggio degli animali.

ma i russi non furono da meno. a katyn, il 10 aprile del 1940, furono trucidati dagli uomini di stalin ventimila polacchi.

anche quando io stessa ero bambina, negli anni ottan- ta, ricordo che c’erano tanti russi in giro per le strade di Varsavia. nei mercati, per esempio, la maggior parte delle bancarelle era gestita da russi. ero cresciuta nell’odio verso i tedeschi e verso i russi, anche se ovviamente non potevo capire realmente perché dovessi odiarli.

Poi le cose cominciarono a cambiare.

Quando si verificano grandi trasformazioni sociali, come quelle che avvennero un quarto di secolo fa in Polonia, dove un intero popolo era impegnato nella lotta, non tutti riesco- no a rimanere al passo con i tempi. il paese cresce, migliora, ma tanta gente resta indietro lo stesso. Forse al principio i miei si amavano davvero. non lo so. ma la loro vita si complicava sempre di più. e una vita troppo complicata diventa incompatibile con l’amore. Forse si erano amati, e io voglio crederlo con tutte le mie forze, ma è sempre difficile essere obiettivi quando si desidera troppo qualcosa, perché si rischia di confondere memoria e fantasia...

il problema più grande in quel periodo, per la mia famiglia e per tanta altra gente, era il denaro. Ricordo un negozio tutto colorato, di una catena straniera che si chiamava “baltona”. lì si poteva comprare solo in dollari, perché lo zloty non lo accettavano. era un negozio per quelli che avevano soldi, ed era in negozi come quello che c’erano le bambole belle – le Barbie – la Pepsi e la coca- cola, e un mare di altre cose...

noi non avevamo i dollari, e mia madre mi diceva che in quel negozio potevamo entrare, potevamo guardare, ma... non potevamo chiederle niente, perché non ce lo poteva comprare.

Si può immaginare un supplizio più grande per una bimba?

lì, nei negozi colorati della baltona, si andava a sognare; ma a comprare si andava in quelli in bianco e nero: quelli della Varsavia comunista, quelli mezzi vuoti, dove non si comprava con i soldi, ma con un blocchetto che ti dava lo stato e dove ti mettevano dei timbri.

Potevi comprare, in un mese, due chili di salsiccia, due di farina... e così via. Però dovevi essere fortunato perché la roba era poca, e quando arrivava dovevi stare in coda dalle tre di notte. oggi la gente lo fa per prendere il posto a un concerto di una star del rock.

adesso i ragazzini collezionano le figurine dei calciatori, noi collezionavamo lattine. lattine di birra, di Fanta... con i miei amici frugavamo nella spazzatura delle case dove stavano i ricchi, alla ricerca di lattine vuote comprate nei negozi di baltona. e poi ce le scambiavamo, se uno aveva dei doppioni... in effetti, a pensarci bene, un castello io ce l’avevo: quello formato dalle lattine vuote che avevo accumulato una sull’altra, sopra il mio letto-armadio...

insomma, così scorrevano le giornate della mia prima infanzia. ma c’è la piccola ruota della vita, e c’è la Grande Ruota. c’è la vita quotidiana della gente, e c’è la storia. a volte, assai di rado, esse girano in sincronia. eravamo ancora una famiglia qualunque, unita, quando comincia- rono ad accadere cose insolite intorno a noi. accadevano, ma io non potevo coglierne il significato straordinario.

Quelle strade che si riempivano di gente, di una folla palpitante. le bandiere che battevano al vento, e tutti che gridavano insieme parole semplici, ma che faceva- no vibrare l’aria come le canne di un immenso organo. Quando loro passavano, le strade non erano più grigie. i palazzoni con le finestre quadrate non sembravano più fabbriche o caserme. io non capivo, non potevo capire,

ma sentivo che qualcosa di grande stava accadendo. an- che se ero troppo piccola per comprendere fino in fondo, ero partecipe di quell’emozione che ti portava via come una corrente irresistibile. e con orgoglio mi sentivo parte di quell’eccitazione generale che ti contagiava come una malattia meravigliosa.

eravamo a passeggio quel giorno. avvertivamo nell’aria qualcosa, come l’eco di un frastuono lontano. continuam- mo a camminare e quella specie di rombo che sembrava farti vibrare il terreno sotto i piedi si faceva sempre più intenso. altra gente, dalle strade vicine, accorreva. Tutti cercavano il centro di gravità di quella forza pulsante. Finché, a un tratto, incrociammo il corteo.

sfilava impetuoso come un immenso fiume. da ogni parte arrivavano persone, e il fiume si ingrossava a vista d’occhio, facendosi sempre più grande e impetuoso. Papà cominciò a battere le mani e mi guardò, incitandomi a fare lo stesso. aveva gli occhi umidi di lacrime. non l’avevo mai visto così felice in tutta la mia vita.

anche mia madre cominciò a battere le mani. lei e papà si scambiarono in silenzio un’occhiata d’intesa, si parlarono con quegli occhi che erano diventati lucidi. erano così felici che sembravano tornati bambini anche loro.

il corteo scorreva davanti a noi, e allora ci unimmo ai manifestanti e ci mettemmo a gridare insieme a tutti gli altri. anche io gridai, con quanto fiato avevo in gola. avevo sette, otto anni. e gridai quella parola magica, quella pa- rola che colorava i palazzoni, che diradava la nebbia, che apriva a tutti le porte dei negozi baltona. non conoscevo la storia che c’era dietro quel grido. Una storia cominciata nei cantieri navali di danzica, quasi dieci anni prima. Una storia di lotta, di volontà, di eroismo e di coraggio. ma soprattutto di voglia di libertà.

camminavo mano nella mano con i miei genitori, in quel tripudio di bandiere e di striscioni, e mi sembrava

che tutto il mondo stesse scandendo con noi quella parola magica: SO-LI-DAR-NOSC!

era la grande Ruota, e anche io quel giorno la stavo aiutando a girare. era la storia, quella che stava passando sotto i miei occhi. Solidarnosc, cioè solidarietà. ed era pro- prio ciò che io speravo si avverasse anche nella mia famiglia.

desideravo con tutta me stessa che i miei genitori si amas- sero, e l’ho creduto anche quando tutto sembrava perduto. ho lottato per difendere quel sogno. ho lottato con tutte le mie forze. anche se avevo capito che ormai era soltanto un sogno. anche se ero soltanto una piccola principessa bionda, che aspettava il mattino per correre a giocare...

del resto era proprio questo che lech walesa, l’uomo che aveva fondato il movimento di solidarnosc, ci aveva insegnato: non bisogna mai tradire i propri sogni, ma bisogna lottare fino in fondo. e bisogna lottare uniti. lui era un uomo molto semplice, non sapeva neanche parlare il polacco in maniera molto corretta, però aveva saputo trascinare un intero popolo fino a essere acclamato presi- dente. era un operaio, un uomo qualunque, ma era anche la prova vivente che tutti possiamo realizzare i nostri sogni, per quanto essi siano ambiziosi. Quando c’è l’entusiasmo, quando siamo spinti da una grande forza interiore come quella che può scaturire dalla fede, o dalla determinazione a perseguire un grande ideale, non ci sono limiti a ciò che può accadere.

Forse fu per questo, perché ero già stata inconsapevol- mente contagiata dall’immenso entusiasmo che sentivo intorno a me, che cominciai a pormi obiettivi che anda- vano al di là di quelli che una bambina di sette o otto anni avrebbe dovuto porsi. sì, volevo essere io a proteggere la mia famiglia, anche se ero soltanto una bambina.

invece stava cominciando una lunga, gelida notte. Quella notte che inizia con l’ombra furtiva di un padre che va via, e abbandona la propria casa.

A volte facevamo il trenino tutti insieme e cantavamo la canzone preferita di mio padre. suonando le pentole con i cucchiai. mi sembra quasi di risentire le nostre voci, e le risate... le parole facevano più o meno così: “I rym cym cym, i tra la la, idziemy przez zycie w podskokach, i rym cym cym, i hopsasa, w podskokach to zyje sie raz!”.

ma un giorno, all’improvviso, lui se ne andò. non ri- cordo esattamente come accadde. Rammento solo che sempre più spesso lo trovavo addormentato sul divano, oppure lo sentivo tornare a casa ubriaco. eppure lui e mamma non litigavano per questo, come succede di solito. al contrario, si consumavano di silenzio. Quando lui non c’era, mia madre diceva che era dalla nonna e che sarebbe tornato presto. alla fine mi convinsi che il fatto che mio padre spesso non ci fosse era una cosa buona: se era via, era solo per dare una mano alla nonna. non mi facevo tante domande. mi mancava, certo. ma non mi rendevo conto di ciò che stava realmente accadendo.

CONTINUA SOTTO.....

 

 
 
 
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