CLUB DEL GAMBALETTO

KENIA


Il viaggio di andata, corredato dall’emozione della partenza, è praticamente volato. Arriviamo a Malpensa, dopo aver caricato la macchina stile viaggio di una famiglia di emigranti, facciamo il check-in e riusciamo ad imbarcarci, senza prima però aver svaligiato il duty free.Si parte, l’aereo zebrato (come le cravatte degli stewart) viaggiava alla velocità di un piccione, ma come dice il proverbio... chi va piano.. va lontano e noi dopo 8 ore e mezza di viaggio alle 6 di mattina ore locali (2 in più che in Italia) siamo arrivati all’aeroporto di Mombasa: 1500 gradi all’ombra (ovviamente, arrivando da Milano dove la temperatura massima raggiunta era di 4 gradi, il nostro abbigliamento non era propriamente adatto al clima del luogo). Riusciti a passare tutti i controlli, le tasse per entrare nel paese, la lentezza proverbiale degli africani “pole-pole (piano piano) fratello, siamo in Africa!”.. usciamo dall’aeroporto ad aspettare la macchina che sarebbe dovuta venire a prenderci... sarebbe... oddio alla fine è venuta a prenderci... con un’ora e mezzo di ritardo! (altra cosa tipica dei locali è che non sono mai in orario.. per loro il tempo è un optional).Da Mombasa ci spostiamo a Watamu a due ore di macchina di distanza. La durata del tragitto, due ore appunto, non è determinata dal chilometraggio ma dalle buche della strada... per riuscire ad arrivare integri (noi e la macchina) a destinazione, abbiamo fatto uno slalom tra le varie buche (veri e propri crateri, stile pioggia di meteoriti) dell’asfalto, cercando (ma questo era di secondaria importanza) di evitare anche le macchine che venivano in senso contrario.. (e io che mi preoccupavo del viaggio in aereo!)Arriviamo a destinazione, un vero e proprio paradiso! La nostra casa in riva al mare, all’interno di un complesso alberghiero, era davvero fantastica... posiamo le valigie, costume, pareo e mare!Pregustando già il relax di una giornata fatta di spole lettino-mare-doccia non avevamo fatto i conti con una delle peculiarità del Kenya.. ovvero il “fenomeno beach-boys”. I beach boys sono dei ragazzi che girano per le spiagge in cerca di clienti, turisti appena arrivati, per proporre loro i vari safari, giri, escursioni. Questi ragazzi (dai 15 ai 40 anni) avvicinano gli ignari nuovi arrivi, distinguibili dal pallore invernale, che si apprestano a fare il bagno (perché mentre sei sul lettino loro non si avvicinano, le guardie del villaggio non glielo permettono) e li intortano con una parlantina degna di un piazzista italiano (o tedesco a seconda dell’occasione), con mille domande di ogni genere (dalla squadra di calcio preferita, al tempo, alla vita in generale..) per poi, una volta presa confidenza, arrivare alla contrattazione vera e propria.. la cosa all’inizio era quasi divertente (anche perché non ti lasciavano mai.. il turista faceva il bagno e loro erano lì... all’inizio tutti insieme, poi, dopo una selezione fatta dal cliente stesso che magari chiacchierava più con uno che con gli altri, a poco a poco si dileguavano in cerca di altri clienti e alla fine ne rimaneva uno solo che era il beach boy designato per quel turista... da lì in poi sarebbe stato la sua ombra) dopo due settimane di “jambo! Tutto bene? Fatto safari??” non ne potevo più.. avevo voglia di un sano menefreghismo generale delle persone intorno a me, così da poter fare il bagno in santa pace senza per forza dover rispondere educatamente a tutte le domande che mi rivolgevano!Noi avevamo trovato due beach boys.. Gatto e Roberto (sono fantastici perché hanno tutti nomi italiani.. il responsabile dell’agenzia del luogo che si occupava di escursioni e safari si chiamava Tony Manero!) che ci hanno accompagnato per tutta la vacanza... (a Roberto, che aveva il mio stesso numero di piede ho regalato le mie Nike silver dicendogli che con quelle scarpe sarebbe stato il più figo del villaggio e che avrebbe cuccato un sacco e per l’anno prossimo lo volevo vedere con una fidanzata! Lui rideva “akunamatata! Anno prossimo io con moglie!”... ) Non so se l’anno prossimo Roberto avrà una moglie, anche perché da loro vige ancora l’usanza della dote. L’uomo che chiede in moglie deve portare la dote al futuro suocero... circa 15000 scellini (180 euro) che la moglie avrebbe dovuto restituire nel caso se ne fosse andata. Per la tribu dei Masai invece la pratica era diversa.. loro possono avere anche tre mogli, la prima scelta dalla famiglia, la seconda scelta dal migliore amico, la terza dal Masai stesso... il tutto però se in possesso di almeno 30 vacche e se il Masai aveva ucciso un leone nella savana. In questo caso poteva sposarsi, così assicurava protezione e cibo per la famigliola. La moglie dal canto suo doveva: costruire la casa – fatta di sterco di mucca... azz – accudire i figli e la famiglia, pensare a coltivare i campi, condividere il marito con le altre mogli...