L'Olimpia di Jay

CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA


 Non per cattiveria, non per imperizia. Nemmeno per suicidio.Semplicemente, per le leggi del marketing che imperano egovernano il mondo in cui consacriamo le nostre passioni, commettendo l’erroredi crederle valori.Purtroppo ognuna di queste passioni è appesa a un filo, cheviene tirato a piacimento dal mercato, dal denaro, dai patti multinazionali,dall’interesse di un piccolo o grande gruppo.Che ha come unico valore quello dell’investimento e delritorno d’immagine. Nel 2001 Sergio Tacchini è il presidente dell’Olimpia Milano. Accanto a lui opera, plenipotenziato, Tony Cappellari, un pezzo distoria biancorossa, firma in calce dei trionfi di Gand e Losanna, stravincentenei confini nazionali.Io sono un creativo emergente, la mia agenzia annovera Clienti di crescente importanza, tra i quali il Gruppo Tacchini.Firmiamo la campagna stampa del gruppo, ci affideranno anche il budget per la campagna Eyewear; insomma, quello con l’Azienda del Cavalier Tacchini è un sodalizio fruttifero.Al punto che, una mattina d’estate, ci viene comunicato chel’Agenzia ha acquisito un nuovo Cliente: la Pallacanestro Olimpia Milano.Come un riflesso condizionato, le facce al tavolo si voltanoa guardarmi.La notizia non era nell’aria, ci penso e ci ripenso: io mi occuperò della comunicazione pubblicitaria dell’Olimpia? Da noncredere.Quanto può essere assolutamente fantastico per un pubblicitario avere tra le mani il frutto della sua passione?Oggi, un po’ di anni e parecchia esperienza dopo, mi guarderei bene dall’esserne entusiasta.Mi farei in quattro per non essere uno dei creativi alavorare sul Cliente. Entrare nell’Olimpia, mentalmente e fisicamente, è stata unadelle più forti delusioni della mia carriera, seppur ancora relativamentebreve e poco più che decennale.Guardare dal vivo cosa c’è dietro la carta patinata, dietrole notizie sui giornali e oltre la fittizia superficialità, può essere unesercizio sfiancante.A una delle prime riunioni – tutte le riunioni si tenevanonella Sala dei Trofei di via Caltanissetta – ci venne chiesto di studiare unanuova immagine coordinata.Svecchiare i simboli, dare una sferzata di novità. Come se,purtroppo, il passato deve essere sinonimo di polveroso amarcord.Primo dubbio: che fare di Fiero? Resta o se ne va?È stato solo grazie all’abile lavoro del bravissimo artdirector Fabio Azzoni che Fiero passò la notte: presentammo un restyling, un passaggio nel tempo, che era poi la versione di Fiero utilizzata fino a oggi.Solo il tempo di sospirare per il pericolo scampato, chearriva il secondo problema.È Cappellari a sollevarlo. Bisogna levare il nome Olimpiadalla ragione sociale.E mutarlo in Pallacanestro Milano 1936.Tony, gli dissi. Non possiamo dare l’idea che la nuovaSocietà rappresenti un altro mondo. Perché questa smania di tagliare i ponticon un passato che passato non è?Mai, mai nella vita avrei potuto aspettarmi di sentirmirispondere: perché Olimpia è un nome che non conosce nessuno. Un conto è Virtus, che a Bologna è un’istituzione, ma a Milano nessuno fa l’equazione tra il basket e l’Olimpia.Non voglio commentare oltre, né giudicare persone per le quali nutro comunque un rispetto personale; per fortuna salvammo anche Olimpia,questo conta.Da lì, fu una deriva triste legata alla gestione, alleriunioni, alle indiscrezioni, alle cose viste con i miei occhi che nontrovarono e non possono trovare spazio sui giornali.Tacchini mollò, regalò la società facendo apparire ungesto eroico quello che in realtà ebbe scenari ben diversi, sui quali nonintendo soffermarmi. Stare nella stanza dei bottoni, o nell’anticamera di questa,mi procurò diverse antipatie all’interno della Società stessa, ma soprattuttomolte amarezze personali.Purtroppo, nel tempo, cambiano le proprietà, cambiano i modi dipresentare e presentarsi.Cambiano l’approccio e le relazioni, ma la grande e unicaverità è che nel nome di Fiero, nel nome dell’Olimpia, ci siamo solo noi.Che non saremo mai quelli che pigiano i bottoni.E che eleggiamo a mito piccolezze che per altri sono solo riempitivi che tolgono spazio.