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NEMICIAMICI

Post n°162 pubblicato il 20 Aprile 2009 da JayVincent


Un grande nemico, per avere la dignità di esserlo ed entrare in quella ristretta cerchia di interpreti del male (sportivo) assoluto, deve avere fatto veramente qualcosa di nefando. Un grande amico, per essere tra quelli che prendono gli applausi a scena aperta, deve avere tratteggiato la storia della tua squadra, deve avere fatto qualcosa che travalica dal semplice gesto. Sia esso cestistico o umano.
Massimo Bulleri è un ragazzo che non sarà mai ricordato né come un nemico, né come un amico. Prenderà il singolo applauso di chi ne ha apprezzato l’indiscussa professionalità e lo stile impeccabile, mai fuori dalle righe anche quando il trattamento non è stato dei più gradevoli, né quando lo si è fatto passare come unico responsabile a fronte di fallimenti societari ben più evidenti.
Prenderà i fischi di chi si ferma alla superficie, dove superficie è il mero gesto tecnico, lo srotolare partite all’interno di stagioni – diciamolo con onestà intellettuale – tutt’altro che memorabili.
E penso che questo stare nell’ombra, sospeso sul filo del non essere riuscito a lasciare un segno nè in un senso nè nell'altro, sia anche il paradigma della sua carriera: quella di un ragazzo che troppo ha pagato la santificazione da star italiana, suggellata da premi e riconoscimenti che solo male gli hanno fatto.
Un ragazzo con un carattere difficile da decifrare, troppo schiacciato dal peso delle attese e dalla pressione della piazza, abbandonato da quella stampa e addetti ai lavori che ne hanno decretato la consacrazione in nome di interessi esterni, per poi lasciarlo nella polvere con indifferenza quando lo hanno visto annaspare.
La sua storia a Milano è finita senza ricordi, come se quell’attimo sospeso in seguito al suo arrivo si fosse cristallizzato; e nel mezzo tutto fosse evaporato, come acqua – trasparente e insapore – buttata sul fuoco – che brucia tutto, aspettative e speranze.
Tanto dovevo a Massimo. Il mio in bocca al lupo è sincero e vero, ma privo del trasporto che si concede a un amico.

Milano gioca una partita convincente per alcuni tratti, la maggioranza.
Si perde ancora in qualche balbettio di troppo, nonostante una Treviso disarmante faccia poco o nulla per limitare le spallate biancorosse.
Che Mahmuti avesse in testa un’idea destinata al naufragio lo si potrebbe intuire ancor prima della palla a due, quando spinge in quintetto Bulleri e lascia seduto CJ Wallace.
La partenza biancoverde è sprint, ma bastano un paio di soffi di Hall e Sow per fare crollare il castello di carta.
Bullo è una sciagura, spara a salve e ferma il ritmo con palleggi insistiti da cui non estrae nulla, Neal è anestetizzato e nemmeno l’ingresso in campo di Wood, involuto in maniera preoccupante, scuote le coscienze biancoverdi.
Di fatto, la partita finisce lì e prosegue con l’essere un susseguirsi di situazioni prive di interesse complessivo, ma valutabili a compartimenti stagni, all’interno di un match che non ha più in palio i due punti.
Ciò che più salta all’occhio è la partita energica di Pape Sow, che banchetta di fisico contro l’acerbo Renzi e i troppo leggeri Rancik-Nicevic.
Una risposta di peso, che ci consegna un giocatore in ripresa dopo un lunghissimo appannamento; situazione che, per la verità, si era già presentata a gennaio e che speriamo questa volta abbia un seguito.
Di certo, un suo maggior coinvolgimento offensivo è la chiave per avere una maggiore applicazione difensiva, allontanando quei clamorosi cali di tensione che tendono a spegnerlo senza nemmeno il cicalino di avvertimento.
E poi, Vitali. In assenza di Price, Luca srotola una partita niente male, non priva di quegli errori che purtroppo sono parte integrate del suo basket, ma condita di cose buone, di un controllo del ritmo decisamente più efficiente del solito e impreziosita da un gioco a due con Rocca che vale una sacrosanta standing ovation del palazzo.
Con Hawkins che dà l’idea di poter fare quello che desidera quando lo desidera, rimanendo confinato in una serata di relativa tranquillità, ci sono le prove in chiaroscuro di Katelynas e Thomas.
Minda, dopo prove molto confortanti, si perde in minuti confusionari, imprecisi e meno energici del solito; Jobey paga il progressivo allontanamento dall’agonismo domenicale, troppo diverso dall’impegnarsi in palestra.

In conclusione, dopo tanto rincorrere ci siamo agganciato al treno delle seconde. E il mettere nel mirino il calendario difficile che ci aspetta non deve farci scordare da dove siamo partiti.
Alcuni problemi di questa squadra non potranno essere risolti, perché sono di costituzione.

Ma avevamo una squadra senza un gioco offensivo, mentre ora possiamo andare oltre l’isolamento per il Falco.

Avevamo un 4 che non si scollava dall’arco e ora ha inserito un gioco più sostanzioso, che comprende il mettere la palla a terra.

Avevamo problemi in regia, con un Vitali perso nelle nebbie delle aspettative, e ora il ragazzo ha preso a macinare palloni.

Avevamo una squadra tremebonda e paurosa, incapace di gestire i finali, e ora non abbiamo più bisogno di arrivarci, a quei finali.

Avevamo un gruppo senza gerarchie, con equivoci, e ora ognuno fa il suo sapendo il ruolo che deve interpretare.

Ricordiamocelo. Non diamo per scontato. Non pensiamo che al primo passo falso, che inevitabilmente verrà, sia giusto dare un calcio al secchio del latte.
Tenere a mente da dove si è partiti è il modo migliore di non scordare quanta strada si è fatta.



 
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