dono queste parole ad una amica........
TRADOTTI DAL SILENZIO # 1 – Joë BOUSQUET
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Il brano che segue è tratto da Joë Bousquet (1897 – 1950), Tradotto dal silenzio (Traduit du silence, 1941), traduzione e postfazione a cura di Adriano Marchetti, I ed. italiana, “Biblioteca In forma di parole”, Genova, Marietti, 1987.
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Parole per l’assente
Sono anni che aspetto una donna e che non so nulla di lei. Forse è
venuta a trovarmi nel sonno e forse non avrò mai la certezza di essere
stato guardato da lei tanto da vicino.
Forse è troppo malvagia per essere amata,
forse troppo bella per essere vista. Se non ho ancora rinunciato alla
speranza di conoscerla, è perché da tempo sono accaduti in me dei fatti
singolari che soltanto la sua esistenza può spiegare: ogni pensiero che
procede da me, per esempio, è fatto di ombra e se muta in parole è
perché in quest’ombra c’è un volto in cui leggerlo con le labbra.
Certamente questa indicazione è molto vaga e non basta a confermare il
mio dire. Ma il seguito delle mie confidenze sarà più edificante e più
d’una si riconoscerà nel fantasma interiore che invano supplicavo di
strapparsi la sua veste di tenebre. Certamente sarà troppo tardi,
almeno per me. Se non altro la chiarezza che avrei messo nel mio
scritto avrà il posto di un’incertezza che non ho più la forza di
sopportare.
Non dirò nulla della mia vita. Colei che amerò mi troverà sempre in lei
stessa e non crederà alla mia esistenza se non a forza di provare
indifferenza verso gli oggetti che mi circondano, a cui saprà che io
stesso non ho accordato alcuno sguardo. Estraneo com’ero al mondo e
certo che non vi fosse nulla in esso per appagarmi, abitavo la mia
fame. Simile all’inerte massa di un vascello inabissato di fronte
all’agitazione dei flutti, ero così poco mescolato alla vita dei miei
simili. Per la verità non ero nulla di me. E, qualunque idea mi
venisse, avevo per riconoscerla mia un vuoto così immenso da
attraversare che mi ripiegavo in un’angoscia sconfortante, sempre
pronto a piangere. Mi comprenda chi può; ero così profondamente
inabissato nel mio indefinibile sentimento che l’espressione più
sincera del dolore suonava falsa nella mia voce e pareva procurarmi una
nuova specie di sconforto. La parola solitudine, per esempio, non mi
rischiarava che la solitudine degli altri; e quando l’usavo pensando a
me, era per sentire meglio intorno al mio cuore le tenebre indicibili
in cui la sua nitidezza mi faceva sentire sprofondato. Piangere? Avrei
pianto se le lacrime stesse non avessero avuto l’apparenza di mentire a
un dolore infinito. Il mio essere era su di me. Il corpo mi pesava,
greve come il cuore di cui si dice che è troppo gonfio quando l’eccesso
del dispiacere sembra indurre chi soffre a fuggirlo.
…
Passante, fermati. Nel fondo dei tuoi silenzi di donna c’è un raggio
nato per rischiararti queste parole di cui la più leggera coprirebbe
mille notti con la sua ombra. Una mano di ferro, quando avevo solo
vent’anni, mi ha dilaniato, non era nulla. Ho creduto di essere morto e
questa illusione mi ha sempre separato dal cuore. Il cuore non ha mai
saputo nulla di ciò che mi era accaduto, né che ero sepolto vivo e una
metà di me stesso era la tomba dell’altra metà.
Ecco il miracolo. Amica mia, ero intatto, terribilmente intatto.
Identico a me stesso in pensiero; terribilmente forte in questa
convinzione, poiché essa poteva sopportare tutto il peso del mondo
reale senza smentirsi. Tutto ciò che respirava, tutto ciò che amava,
tendeva a schiacciarmi sotto il peso del mio corpo congelato, inutile.
Ma il pensiero fu più grande di tutto quanto mi condannava all’oblio.
Non c’era nulla che mi si opponesse e di cui il mio cuore non fosse
l’origine. E’ molto strano: così facile a tal punto che non si sa come
dirlo: l’uomo è in se stesso più grande e più forte di tutto ciò che è.
E’ la grandezza, il divenire e la morte delle verità e delle cose, di
cui è anche la sorgente.
(op. cit., pag. 54-55)
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Le liriche che seguono sono tratte da La conoscenza della sera (La
Connaissance du Soir, 1947) e si danno nella bellissima traduzione di
Annamaria Laserra, in Poesia Due, Milano, Guanda, 1981.
La conoscenza della sera Passare Infanzia passata nello spazio
Come un volo inseguito fino a sera
Chiamo piano la tua ombra
Per paura di vederti Sorella a lutto dalla veste chiara
La tua fuga è l’uccello blu dei giorni
Che con il suo canto rischiara
I gesti sognati dall’amore Una fanciulla per il tuo incanto
Con il corpo abbozzato nei cieli
Fece sciogliere le città in pianto
Illuminate nei suoi occhi E avesti il coraggio di rendere
Il mio dubbio più vivo di me
Passarosa dalle ali di cenere
Che mi aprivi il tuo cuore nel vento Il largo Non è il suo nome a esaltarlo
Ma che piano sia mormorato
Nelle voci che non conosce
Il segreto di un cuore incrinato Quando ogni lamento gli svela
Di che cosa abbia pianto la pena
L’uomo sente il suo cuore chiamarlo
Nelle voci che l’hanno ignorato Così vedono tutte le stelle
Avverarsi la notte delle vette
Ventilando nella notte con le ali
La voce di qualcuno che verrà Lui il suo male è la stessa pietà
Ciò che è lui a sua volta si oscura
E per rendergli quello che ama
Si rivolge alla pena del giorno Madrigale Dal tempo che era amata stanca di se stessa
Lei aveva giurato d’essere questo amore
E ne fu l’incanto lui ne fu il poema
La terra è leggera a promesse passate Il vento piangeva gli uccelli migranti
Cullando i mari sulle ali di sale
Prendo la stella con una bella nuvola
Se la pagina bianca ha consumato il cielo Nell’aria che fiorisce al suo riso
C’è un vecchio cavallo color del cammino
Capisci al suo passo la morte che m’ispira
E che va senza me a chiederne la mano Poema della sera Su un giaciglio sfinito
Il lampo che oscura un istante
Mette la veste di fumo
E segue il vento distante Su terre senza memoria
Ogni piede ha la sua scarpa
L’ala è bianca l’ala è nera
Il giorno è solo metà E su una trama di cenere
Dove l’uomo non è che i suoi passi
Il cuore palpitò per cogliere
Ciò che uno sguardo non vede E’ la speranza che un mondo a venire
Abbia fatto buio con la nostra ombra
E sorridendoci alla finestra
Abbia solo i nostri occhi per vedersi Dietro le quartine che lei ispira
Ai giorni che dubitano di te
La vita ha i suoi denti per sorridere
Di ciò che una volta era già stata L’ombra gemella Varca la notte senza sponde
Se tu sei solo vagamente
L’oblio restituirà il tuo volto
Al cuore da cui nulla è assente Il tuo silenzio nato da un’ombra
Che a tutto il cielo l’ha unito
Schiude l’amore dove ti abbandoni
Alle braccia di un doppio infinito E annullandoti sotto i tuoi veli
Presi alla notte da un fiore
Concede occhi alla stella
Di cui la tua ombra è il cuore La fortuna dei giorni Io so un rosaio dove sboccia una rosa
Non c’è più notte per l’ombra che è
Da un’aiola errante di bagliori chiusi
Dove lo sciame vibrava dei giorni passati Non c’è fuoco nel buio che il cielo non l’abbia
Con il mio amore morto a tante cose
Tessevo il drappo funebre dei voti sfumati
Era quello di un pianto in cui sboccia una rosa Alba di una vita estranea ai giorni
L’oblio dell’imprevisto morto dal nostro amore
Dischiude nel fiore la mano che lo stringe E senza me cogliendo la rosa delle notti
Una sorella di cenere lascia le nostre terre
Rende il corpo lunare ai morti che io sono Giorno e notte Sul corpo di un uccello di bosco
Inchiodati dalle sue ali immense
I giorni crocifissi alle notti
Aggiungono un nome al silenzio Passando su lui senza vederlo
Fanno occhi più grandi della vita
All’amante che strugge di sapere
Come si muoia d’essere gradita I giorni che disfecero i fiori
Per seppellirsi sotto il loro peso
Si sono uniti al cielo nei cuori
Dove s’aprono le ali dell’ombra Denudandosi sotto le acque
Che la sua trasparenza ha velato
Il mattino che nasce a occhi chiusi
Allibisce di una stella fuggita La croce che spalanca l’orizzonte
Sente in voci che si chiamano
Due nomi sbocciare un canto
Dove l’alba ride di una rondineciao