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Kant ha avuto il merito di comprendere che “Lamanifestazione dell'ente (verità ontica) si impernia sul disvelamento della costituzione dell'esseredell'ente (verità ontologica)” ([2: vol. 3, p. 13 = [4, p. 25]). Kant insomma, in primo luogo, sisarebbe interrogato, heideggerianamente, non sul problema gnoseologico, ossia sul problema dellapossibilità della conoscenza, ma sul problema ontologico, ossia sul problema dell‟essere e delrapporto di tale essere con gli enti sia pure limitatamente all‟essere degli enti di natura.A mio parere, un autore che è stato in grado di tradurre nel proprio linguaggio in modo cosìspeculativamente creativo la gnoseologia trascendentale di Kant, non può non essersi misurato conl‟idea che se la scienza – come dice Reichenbach nel testo sopra citato - è in grado di crearecategorie nuove non reperibili nei dizionari tradizionali, e in particolare nel dizionario dellafilosofia kantiana, ciò potrebbe significare – detto in termini heideggeriani – che essa è in grado diapprontare modi nuovi di pensare l‟essere degli enti di cui parla. Certamente, se andiamo a leggerei paragrafi introduttivi di Essere e tempo ci imbattiamo in un Heidegger che è tutto teso arivendicare l‟assoluta priorità fondazionale dell‟indagine ontologica sulla natura dell‟essere ingenerale; priorità che viene reclamata non solo rispetto alle indagini scientifiche particolari le quali,muovendosi sul piano ontico, accantonano il problema dell'essere degli enti di cui parlano e siconcentrano esclusivamente sulle proprietà e le relazioni di essi, ma anche rispetto a quelle indaginiontologiche di carattere più specifico (come sarebbe, appunto, la ricerca condotta dal Kant del4periodo critico) le quali si interrogano non sulla nozione generale di essere, ma sul particolare modod'essere delle entità di cui si occupano le singole scienze.Ma questa vibrante rivendicazione di priorità non rende Heidegger del tutto sordo a ciò chenella scienza può avvenire, e che di fatto in quel momento stava avvenendo sotto i suoi stessi occhicon i profondi mutamenti che investivano soprattutto la fisica. In Essere e tempo, infatti, egli mostradi sapere bene, per dirlo proprio con le sue parole, che “L‟autentico „movimento‟ delle scienze - esottolineo la parola 'scienze‟ - ha luogo nella revisione, più o meno radicale e a se stessatrasparente, dei loro concetti fondamentali. Il livello di una scienza si misura dall‟ampiezza entrocui è capace di ospitare la crisi dei suoi concetti fondamentali. In queste crisi immanenti dellescienze, entra in oscillazione lo stesso rapporto fra il procedimento positivo di ricerca e le cose chene costituiscono l‟oggetto” ([2: vol. 2, p. 13 = p. 9] = [3, p. 25]), ossia, nel linguaggio delladifferenza ontologica, viene a porsi il problema dell'essere da riconoscere agli enti di cui ci si staoccupando.Se quindi ritorniamo alla contrapposizione heideggeriana tra ragione e pensiero da cui siamopartiti, si potrebbe ben dire che per lo stesso Heidegger, nelle scienze, non è all‟opera solo unprocedimento razionale, o empirico-razionale, il quale mira a stabilire a livello ontico un complessodi ipotesi e teorie riguardanti le proprietà e le relazioni degli enti che cadono sotto il loro dominio.Accanto a ciò – almeno stando ad alcuni suoi passi - può presentarsi anche quel pensiero che portaad indagare, e se del caso a sovvertire, i confini, le modalità d‟essere e lo statuto ontologico deglienti di cui le scienze si occupano.Si potrebbe forse pensare che considerazioni di quest‟ultimo tipo compaiano nell‟operaheideggeriana solo prima della svolta che porterà il filosofo a sottolineare, con forza via viacrescente, l‟ascolto del linguaggio e della parola poetica come risposta privilegiata, se nonaddirittura unica, alla domanda sull‟essere in quanto contrapposta alle domande sugli enti. Alcuniinterpreti hanno sostenuto, infatti, che da un certo momento in poi Heidegger non riprende più “ildiscorso sulla portata ontologica delle altre attività dell‟uomo, oltre all‟arte, […] se non per ciò cheriguarda il pensiero nella sua vicinanza con la poesia” ([11, p. 117]). Non per niente nella “Letterasull‟„umanismo‟” risalente al 1946-47 egli si rifarà ad Aristotele per affermare che “il poetare è piùvero dell‟indagine dell‟ente” [2: vol. 9, p. 363 = p. 193] = [8, p. 313]).Lascio naturalmente queste questioni alle attente analisi degli esegeti del pensieroheideggeriano tra i quali di certo io non posso essere annoverato. Vorrei far notare, però, che ancoranel saggio su “L‟origine dell‟opera d‟arte”, risalente alla metà degli anni Trenta e in seguitoristampato nella raccolta del 1950 Holzwege, Heidegger mostra di non aver abbandonato l‟idea chenella scienza possa esservi spazio per un genuino movimento di pensiero. È vero che, quando parla5della verità come apertura originaria e del suo accadere nell‟opera dell‟uomo, non pone la scienzafra le attività umane (come la fondazione di uno stato, la religione o l‟arte) in cui tale accadimentopuò realizzarsi. Di più: se si prosegue poco oltre nella lettura, è addirittura esplicito nel negareall‟attività scientifica ciò che riconosce all‟arte e ad altri modi di operare dell‟uomo. Al contrario diquanto avviene in questi ambiti – egli scrive – la “scienza […] non è affatto un accadere originariodella verità, ma è di volta in volta la strutturazione di un ambito veritativo già aperto, e invero unastrutturazione attuata attraverso il comprendere e il fondare ciò che, nella sua cerchia, si mostracome possibilmente e necessariamente corretto, esatto” ([2: vol. 5, p. 49 sg. = p. 50] = [6, p. 60];cfr. [5, p. 46 sg.]). E tuttavia, subito dopo una caratterizzazione così decisamente negativa, torna afarsi avanti la consapevolezza che ci sono aspetti dell‟operare scientifico cui tale caratterizzazionenon può venire applicata: “Quando e nella misura in cui – aggiunge e conclude Heidegger – unascienza va al di là dell‟esattezza e perviene a una verità, cioè all‟essenziale disvelamentodell‟essente in quanto tale, essa è filosofia” ([2: vol. 5, p. 49 sg. = p. 50] = [6, p. 60]; cfr. [5, p. 46sg.]).Anche nell‟attività scientifica può esservi dunque spazio per l‟esercizio del pensiero e quindi,nella visione di Heidegger, per la filosofia. Certo, può suscitare qualche legittima ironia un similericonoscimento, il quale vede la scienza, nel suo momento più alto, trasformarsi in qualcosa didiverso da sé. Non posso discutere in questa sede il complesso rapporto scienza/filosofia né laquestione – ammesso e non concesso che di una vera questione si tratti – se certe drastichetrasformazioni concettuali che possono verificarsi, e si sono di fatto verificate, nell‟ambito dellescienze debbano essere etichettate come scientifiche o filosofiche. Tuttavia, quello che qui mi sta acuore mostrare è che proprio la riflessione su tali radicali mutamenti di impianto categoriale – alcentro della meditazione del Reichenbach degli anni ‟20 ma, come abbiamo visto, percepiti ancheda Heidegger – ha condotto l‟epistemologia di oggi a una concezione della razionalità scientificalontana dalla visione che per lo più ne dà Heidegger e che costantemente troviamo in gran partedegli heideggeriani. In altre parole: il fatto che nella scienza, come essa storicamente si sviluppa,siano presenti momenti di pensiero nel senso heideggeriano del termine – momenti, cioè, in cui unascienza o la scienza, sempre heideggerianamente, scopre l‟ente come tale e ripensa i suoi proprifondamenti - ha posto con prepotenza la questione se la razionalità scientifica possa ancora essereidentificata con una ragione confinata all‟applicazione automatica di regole astratte univocamentedeterminate e formalmente specificabili.Benché oggi siano in molti a pensare che il contrasto fra scienza rivoluzionaria e scienzanormale non sia così netto come Thomas Kuhn lo ha presentato, resta comunque vero che è statasoprattutto l‟indagine sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche che ha condotto gli epistemologi a6ripensare la visione tradizionale della razionalità scientifica. Dalla riflessione sui cambiamenti deiparadigmi (nel senso di matrici disciplinari) che si verificherebbero nelle fasi cosiddette„rivoluzionarie‟ è nata una concezione come suol dirsi „a tessitura aperta‟ di tale razionalità, unaconcezione che non la esaurisce più - come fa Heidegger quando la contrappone al pensiero – inprocedure di tipo logico e algoritmico e neanche, più in generale, in una razionalità di tipocriteriale, e cioè basata sull‟uso di concetti ritenuti chiaramente definibili e circoscrivibili nelle loroapplicazioni. La razionalità, lungi dall‟essere solo conformità a regole più o meno compiutamenteformalizzabili, si estrinseca anche attraverso l‟attività del giudizio e della deliberazione, ossiaattraverso un processo che non è guidato da principi di natura generale e i cui esiti non sono ilrisultato di un modo di ragionare di tipo esclusivamente „calcolistico‟. Una parte cospicua dellenostre valutazioni e decisioni razionali viene compiuta non mediante la "disputa", ma mediante ladiscussione critico-razionale la quale dipende dall‟applicazione di procedure discorsive peculiariche vanno da quelle studiate da Aristotele quando parla della saggezza al sistematico impiego dimetafore ed analogie, dalla denuncia delle contraddizioni performative ai giudizi casistici presentiin molte parti della giurisprudenza, della medicina clinica e della critica artistica (da quellaletteraria a quella musicale e figurativa). Vi è insomma una razionalità che procede con modalitàdiverse da quelle che Kant attribuiva al giudizio determinante, ma che resta, nondimeno, unarazionalità.Può un simile allargamento del concetto di ragione essere considerato una sorta di„avvicinamento‟ delle prospettive dell‟epistemologia contemporanea a certe istanzedell‟impostazione ontologico-ermeneutica di Heidegger? Da un lato certamente sì (v. [9, § 6]), madall‟altro non bisognerà dimenticare – come ha osservato uno dei più profondi interpreti statunitensidel filosofo tedesco – che il metodo mediante cui, fin da Essere e tempo, Heidegger ha mirato allacomprensione dell‟essere dell‟ente intende porsi come “un'alternativa alla tradizione delleriflessione critica in quanto [tale metodo] cerca di porre in rilievo e di descrivere la nostracomprensione dell'essere dall'interno di tale comprensione senza tentare di rendere il nostro coglierele entità teoricamente chiaro” ([1, p. 4]). Laddove invece la chiarezza e l‟intersoggettività restanoun requisito ideale di primaria importanza anche entro la concezione „allargata‟ della razionalità cheesce dalla riflessione epistemologica odierna.In ogni caso, di fronte a un concetto di razionalità divenuto così ampio, „mobile‟ e „aperto‟,bisognerà quanto meno riconoscere che sembra difficile continuare a contrapporre scienza efilosofia, ragione e pensiero in termini così drastici come quelli prevalentemente utilizzati daHeidegger e ancor più difficile confinare o relegare la scienza al regno del non pensiero. Con buonapace delle formulazioni heideggeriane che vanno in questa direzione (e senza nulla togliere7all'importanza di Heidegger nella filosofia del Novecento), pare più opportuno riconoscere che lascienza non è solo ragione calcolante, ma anche, e soprattutto, ragione pensante.