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Perché è nato il principio della scolarizzazione. I giovani allievi odierni credono ancora in essa?
Di anno in anno, più di sempre, a noi insegnanti sembra di comprendere che molti dei nostri allievi non vengano con piacere a scuola. Forse è un gentile eufemismo: non vorrebbero venirci per niente, neanche più per trascorrere del tempo assieme ai loro simili, che possono incontrare altrove, laddove “altrove” può anche significare il variegato mondo del Web. Verrebbe fatto di pensarlo anche ascoltando l’urlo di consenso che sale dalla strada, quando, sotto scuola, l’ennesimo evento di spargimento di creolina li “costringe” ad allontanarsi. Fatti salvi ovviamente coloro che contrastano tale asserzione.
La necessità della scolarizzazione viene da lontano ed ha avuto un percorso complesso e difficile. Fino alla metà del sec. XIX i tre quarti circa della manodopera impiegata nelle fabbriche tessili inglesi erano donne e ragazzi fra i dieci e i diciotto anni. I dati seguenti si riferiscono agli operai dell'industria cotoniera inglese nel 1835:[1]
Per anni, ed occorrerebbe che i nostri giovani lo comprendessero davvero, l’infanzia non è esistita: -“Egli era davvero malvagio contro chi lo maltrattava, torvo, ringhioso e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincattucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel pane di otto giorni, come facevano le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tirava dei sassi, finché il soprastante lo rimandava a lavorare con una pedata".[[2]- Non è senza ragione gli scrittori dell’epoca ponevano in luce la sofferenza di questi ragazzi privati dell’infanzia e la feroce indifferenza degli adulti nei loro confronti. Un primitivo segno d’interessamento verso la sorte dei giovanissimi si avrà, in Italia, con la creazione delle prime Scolette e Custodie, che non vanno intese però come intervento del Governo o di un non esistente “ministero per l’istruzione”. Avevano carattere religioso o privato ed assolsero il compito di ridurre l’altissimo tasso di analfabetismo e di consentire alle madri operaie di andare al lavoro, non lasciando incustoditi i figli. Possiamo immaginare quale fosse la qualità, sia con riferimento all’istruzione sia all’igienicità dei luoghi in cui questa era impartita. Non parliamo poi delle cosiddette “Sale di custodia” per i più piccoli e dello stato dei Brefotrofi: asili di ricovero per i bambini del popolo e per bambini abbandonati. Che erano troppi. Restando alla fine del 1700, il pastore protestante. Johann Friedrich Oberlin ‹óobërlin›, (Strasburgo 1740 - Ban-de-la-Roche, Alsazia, 1826),fondò uno dei primi asili per bambini e un istituto di risparmio e prestito nella sua parrocchia; il suo nome passò poi a molti istituti protestanti di assistenza e asilo per bambini (Oberlinvereine).La struttura garantiva un miglioramento intellettuale e morale dell’individuo. Per la prima volta in quell’occasione il gioco e il giardinaggio furono visti come metodi dell’insegnamento. Tuttavia per raggiungere qualche reale e continuo cambiamento in meglio, occorse giungere alla metà dell’ottocento, con la comparsa dei primi pedagogisti, laddove si cominciò a concretare l’idea di una struttura che fosse indirizzata all’insegnamento ed alla cultura, più che alla custodia ed alla sorveglianza. In quel tempo nacque anche una maggiore attenzione nei confronti del bambino, tenendo presente la necessità della sua educazione, cercando, probabilmente, di accentuare l’utilizzo di strutture nate ad hoc anche allo scopo di diminuire i casi di abbandono e morte infantile (cosa che non è risolta completamente neanche oggi). Aggiungiamo il ricordo di Federico Froebel (1782-1852), che fondò il Kindergarten, il Giardino dell’Infanzia (tradotto in italiano). Con lui nasce il romanticismo pedagogico e in conseguenza l’attenzione per l’educazione dei piccoli individui. Rivolgendoci alla Francia troviamo, nello stesso periodo, i primi esempi di progetti della pubblica amministrazione per l’assistenza e la tutela dei poveri. In Italia, alla fine del 700, siamo ben lontani da una soluzione veloce e condivisa: in primis come far comprendere alle famiglie poverissime che un loro figlio non doveva più essere inteso come forza lavoro utile alla famiglia stessa, ma come individuo che, recandosi a scuola, avrebbe nel tempo raggiunto quell’emancipazione sociale ed economica che loro non avrebbero raggiunto mai. Il problema, per una parte del mondo “civile” e globalizzato odierno, come ben sappiamo, non è per nulla risolto. “La povertà aumenta il rischio che i bambini siano coinvolti nel lavoro” – denuncia Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro Secondo le stime ILO (International Labour Organization) parliamo di 215 MILIONI DI PICCOLI "INVISIBILI", a livello internazionale. Dei 215 milioni di bambini coinvolti nel lavoro minorile, ben 115 milioni svolgono attività pericolose, soprattutto nell’agricoltura. Di questi quarantuno milioni sono femmine e settantaquattro milioni maschi. E’ cosa certa che molti di questi bambini lavorino in condizioni disumane. Agli inizi dell’ottocento si cominciò a comprendere che la scuola dovesse essere gratuita, ma anche obbligatoria. Dice in tal senso il Genovesi[3]: -“ vi è qui un circolo vizioso: senza scuola non acquista fondamento il concetto di infanzia e senza quest'ultimo concetto non sembra aver senso la scuola. Comunque stiano le cose è certo che in situazioni economiche drammatiche ed assolutamente precarie, il togliere delle braccia lavorative da una famiglia è un momento di ulteriore crisi insopportabile.”- Problema che esiste ancora oggi dove la mappa del lavoro e dello sfruttamento minorile si evidenzia chiaramente sia nel Mezzogiorno sia nel Nord-est. Più presente, ovviamente nei casi in situazioni di degrado familiare e sociale, laddove si sommano anche carenze infrastrutturali che permettono maggiore criminalità organizzata, alti tassi di disoccupazione e povertà. Non è dunque cambiato molto dai tempi che lamentava il Genovesi e la cosa dovrebbe quantomeno sorprendere. Fatto sta che a fronte della poca o molta voglia di studiare da parte di alcuni ragazzi, si pone la necessità economica delle famiglie (lavoro giovanile), o, cosa ancora peggiore, la possibilità dei ragazzini di entrare a far parte di una manovalanza illegale (di ogni possibile tipologia, compresa quella sessuale). Tornando indietro nel tempo, al primo censimento post-unitario del 1861, fu rilevata una media di analfabetismo del 75%, dato tanto più drammatico quanto più si andava a sud e più diffuso tra la popolazione di sesso femminile. Se poi vogliamo guardare allo stato di salute: la denutrizione portava al rachitismo, le condizioni delle scuole erano insane e molti maestri si ammalavano di tubercolosi, così come i bambini, la cui condizione però non era registrata che con l’assenza dalle lezioni. Giungendo ai primi del 900 dobbiamo ricordare che l'inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia di Francesco Saverio Nitti (1910) rileva un cambiamento: -“Vi era in passato una grande indifferenza da parte delle classi borghesi per la diffusione dell'alfabeto: era in molti comuni una vera diffidenza. Gaetano Salvemini, in un’inchiesta affine svolta in Calabria, asserirà che:- “il desiderio dell'istruzione si è manifestato ovunque ardentissimo da dieci anni a questa parte per effetto dell'emigrazione negli Stati Uniti.”-[5] Non è ovviamente, dati gli spazi, mia intenzione ripercorrere tutte le tappe, più o meno giuste, che hanno condotto l’Italia alla attuale situazione scolastica, ma fermandoci qui trovo davvero che vi sia qualcosa su cui meditare: 1) la globalizzazione non ha reso a tutti i bambini del mondo una reale possibilità di vivere la propria infanzia. 2) Ai primi del 900 gli italiani sembravano avere compreso, soprattutto nelle classi meno abbienti, che la cultura poteva fare la differenza tra una speranza più certa in un domani economicamente e socialmente valido e la negazione di questa. La conclusione più triste che possiamo trarre oggi, osservando l’indifferenza con cui i nostri giovani guardano alla cultura è proprio la seguente: i giovani non vedono la scuola, la cultura scolastica, il successivo iter universitario (i possibili dottorati di ricerca, laddove possano trovarvi spazio), come una realtà di miglioramento sociale economico. Non sembrano rendersi conto di essere dei fortunati, rispetto ai tanti bambini che non possono recarsi a scuola serenamente e non credono più che cultura e alternative di vita migliori camminino di pari passo. Una ben triste considerazioni da farsi ad oltre 100 anni da quei difficili tempi delle migrazione italiana. Bianca Fasano
[1] http://www.larapedia.com/storia-rivoluzioni/rivoluzione-industriale.html [2] Rosso Malpelo, in Giovanni Verga. Tutte le novelle, a cura di Carla Riccardi, Mondadori, Milano, 1979, pag. 173. [3] Giovanni Genovesi - Storia della scuola in Italia dal Settecento ad oggi - Laterza 2000. [4] Carlo G. Lacaita - Istruzione e sviluppo industriale in Italia 1859-1914 - Giunti 1973. [5] Broccoli, Porcheddu, Menzinger - Ruolo, status e formazione dell'insegnante italiano dall'unità ad oggi - ISEDI 1978. |
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