antonia nella notte

Post N° 277


E’ improvvisamentequando meno te l’aspettiche sbucano fuorida vicolini* cadenti(dove vite anacronistichescorrono malinconicamenteal ritmo di grosse sveglie)da cucine e seminterratiodoranti d’umidomisto a polvere atavica,suoni e odori e immaginiche comunicanoconati di gioiain forma di ricongiunzionead un ‘infanzia obliataed amata.Una piccola altalenaquanto meno cigolante,il tralcio di una festa di quartiereil lampioncino di carta colorata,l’odore di pasta e fagioliil riso bianco,stracottoed una gonna minuscolaa quadrettinidivengono simulacrivibranti nuova vitain forma empirica.A.*Secondo alcuni storici vicolo è un termine improprio per una stradina che ha sbocco in entrambe le estremità, anche se da sempre è molto usato come diminutivo di via. Nella città moderna il vicolo è la stradina a fondo cieco, mentre nell'antica Roma si distingueva il vicus dal pagus. Gli abitanti dei dintorni dell'Urbe erano detti vicini (da vicus, villaggio) fino al decimo miglio delle mura serviane, mentre i pagani (da pagus, borgo, cantone) erano gli abitanti delle borgate prossime alla città. Tacito parlava di vicus come di una piccola via, un borgo, mentre Orazio lo intendeva come un quartiere, un rione.  In Cicerone vicus vale come villa. Nel dialetto romanesco vi sono alcune espressioni in cui gioca la parola vicolo: abbità ar vicolo der bove (essere cornuto); annà pe' vicoli (nascondersi). Nel Belli il vicolo è anche sinonimo di soluzione o pretesto: er vicolo lo trova de sicuro.