Joaquìn Maria Otuvas

Il rifiuto dell’azione


“In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno  che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.” “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto tra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera  o di cannella; il nostro appetito meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana.  Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto.” “I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine  sia anche,  se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?”(G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo)  Con queste parole il principe di Salina si rivolge a  Chevalley, emissario del governo piemontese.L’inerzia, il rifiuto dell’azione è propria di esseri che si vivono come semidei perfetti e che quindi rifuggono da qualsiasi cambiamento. Del resto anche Aristotele identificava la divinità come motore immobile.Parafrasando Sciascia, che sosteneva che la mafia siciliana  si fosse mondializzata, si potrebbe dire che la disposizione  a non fare, la rinuncia all’azione della Sicilia abbia contagiato l’Italia tutta.Il dinamismo investe oggi solo l’area scientifica, mentre nell’ambito della gestione politica, al di là dell’agitazione apparente, prevale l’immobilità: discorsi in cui non si dice, parole vuote, movimenti frenetici senza spostamento.Ma la malattia è comune: fare obbliga a trasformarsi, scegliere significa scartare alcune alternative, non essere più quello di prima, e molti si rifiutano a questo passo, preferiscono rimanere in un limbo adolescenziale che lasci aperti tutti gli esiti possibili senza realizzarne nessuno.