Carcere e società

IL RUOLO DELL'UNIVERSITA' IN CARCERE


Di Giuseppe D. Colazzo (CFPP-Casa di Carità onlus-Torino)(intervento in occasione della ricorrenza del decimo anniversario della costituzione del Polo Universitario all’interno della Casa Circondariale”Lorusso e Cutugno” di Torino -8 maggio 2008) Quando ADRIANO MORAGLIO [giornalista de Il Sole 24 ore] mi ha chiesto se volevo partecipare a questa manifestazione e fornire la mia testimonianza [in qualità di studente laureato presso il Polo Universitario della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino], ho subito accettato per due ragioni essenziali: La prima ragione è che non ho mai avuto l’occasione pubblica di ringraziare tutte le persone che sono dietro al progetto del Polo Universitario - e quando parlo di Polo vorrei che si intendesse non solo l’Università degli Studi di Torino, e personalmente i docenti che investono volontariamente risorse di tempo, di professionalità e umanità garantendo qualitativamente didattica e metodologia, ma anche la Direzione dell’Istituto, l’Area Educativa, l’Area della Sicurezza. Infatti non possiamo dimenticare che senza la collaborazione di tutto il Sistema il Polo non sarebbe possibile. Non dimentico naturalmente anche altre figure professionali, giornalisti, operatori del privato sociale, volontari che, anche grazie all’Università, si sono avvicinati al Polo Universitario e che volontariamente spendono molto del loro tempo per attivare incontri, lezioni, seminari, anche al di fuori del percorso didattico. Naturalmente un ringraziamento va anche all’Ufficio Pio della Compagnia San Paolo che ha creduto nel progetto e durante questi anni non ha fatto mancare il sostegno economico per la realizzazione di interventi e la predisposizione di ausili e strumenti didattici.La seconda ragione è che mi preme sottolineare l’importanza del Polo Universitario in un contesto tradizionalmente chiuso come il carcere.Non ho mai amato molto le cerimonie istituzionali, perché sono convinto che spesso sono uno strumento di autoreferenzialità e attraverso di esse le Istituzioni cercano di legittimare se stesse, ma credo che oggi non sia un momento di autolegittimazione, ma una occasione per riaffermare, se ancora ce ne fosse bisogno, la funzione della cultura all’interno del carcere. Si fa sempre un po’ di retorica quando si dice che la cultura è importante, ma in tale contesto non si può non sottolinearlo perché l’Università non è solo didattica o impegno per sostenere gli esami da parte degli studenti. E’ cultura; e la cultura è libertà, è dialogo, è confronto con se stessi e con gli altri, con la società libera; l’Università è ricerca,  senso di responsabilità, di riflessione, capacità di organizzarsi, è capacità di ricominciare, magari con l’elaborazione di un nuovo progetto di vita più credibile e attuale. Ma io credo che l’importanza dell’Università non stia soltanto nell’aver portato la cultura nell’ambito carcerario e l’aver permesso a molti di noi di conseguire una laurea, ma nell’aver portato parte della società libera in carcere; essa è indispensabile perché, come ha detto in più  occasioni il prof. Davide Petrini, “le violenze, le sopraffazioni, la perdita di dignità di chi ci vive sono inversamente proporzionali alla presenza della società  libera”. Il carcere in sé non ha gli strumenti idonei che possano consentire alla persona privata della libertà di affrontare, nel rispetto delle regole sociali, il ritorno alla vita libera; il carcere, se lasciato solo, e questo già lo diceva Clemmer 50 anni fa, è una scuola di criminalità perché la cultura, i valori e i principi della sub-cultura carceraria, in contrasto con i valori ed i principi della società libera, tendono ad essere assimilati  molto velocemente dalle persone ristrette, ed una volta interiorizzati influenzano anche il comportamento esterno, soprattutto in assenza di forti legami familiari. E’ necessario, dunque, che la persona ex-detenuta possegga quelle condizioni soggettive che combinate con le condizioni oggettive o ambientali gli permettano di affrontare i disagi che inevitabilmente incontra nel momento in cui si confronta con la realtà esterna. Per condizioni soggettive mi riferisco, nel loro insieme, “al corredo di cui la persona deve dotarsi per proporsi come persona che intende offrire le proprie prestazioni professionali e per farsi riconoscere dagli altri come soggetto affidabile, credibile, effettivamente capace di interagire e di eseguire i compiti attribuiti”; mentre le condizioni ambientali o oggettive “si riferiscono alla capacità di accoglienza, di assimilazione, inclusione, interazione che il contesto mette a disposizione della persona svantaggiata a causa del reato commesso e della conseguente pena detentiva” [A. De Salvia, già Direttore del CFPP]. L’Università permette o può permettere un intreccio tra condizioni soggettive e condizioni ambientali facendo si che l’individualità e il contesto sociale costituiscano gli “elementi di un binomio indissolubile perché l’azione e il comportamento sono definibili  in uno spazio, in un contesto di relazioni interindividuali e sociali che promuovono e garantiscono la dignità della persona come valore ontologico” [A. De Salvia]. In questa prospettiva tendono già i progetti personali e individualizzati, a seconda della specificità e delle competenze della persona, che l’Università ha avviato in questi ultimi mesi; per cui il mio auspicio è quello che si continui su questa strada affinché non solo il Polo ma anche tutti gli altri reparti siano coinvolti in progetti che hanno come obiettivo la risocializzazione della persona detenuta.L’Università all’interno del carcere deve continuare a costituire il ponte di comunicazione tra le due società, quella libera e quella ristretta, anche perché ( ed è un altro motivo dell’importanza della presenza dell’Università) soltanto la conoscenza, la trasparenza e la visibilità all’esterno permettono il cambiamento di una struttura per antonomasia autoreferenziale. L’individualizzazione del trattamento all’interno delle mura e soprattutto del percorso risocializzante all’esterno non deve riguardare soltanto la tipologia di lavoro (giardiniere piuttosto che falegname, bibliotecario piuttosto che altro) ma deve tenere conto anche delle esigenze personali del soggetto, delle sue aspettative, delle sue capacità, delle sue competenze professionali, del suo modo di rapportarsi con le persone libere. In questo senso occorre che l’Istituzione faccia un passo indietro, dia più voce alla società civile, al detenuto stesso, ascoltarlo quando è necessario perché, come sostiene Susanna Ronconi, “il detenuto è un attore che ha un capitale sociale, sapere esperienziale, capacità di autoregolazione. Egli è e deve essere il protagonista della sua vita…Il detenuto non è un paziente muto, quello che deve farsi definire e indicare la via”. Non si perde autorevolezza e potere nel fare questo, anzi si acquista; bisogna avere il coraggio di andare oltre, di provare strade nuove, in cui il soggetto detenuto si senta responsabile del suo futuro e sia trattato come soggetto “conoscente” capace di relazione e di responsabilità.Da questo punto di vista, a mio avviso - e non è una posizione di parte in quanto ho sempre apprezzato lo sforzo illuminato dei Direttori che si sono succeduti alla guida dell’Istituto – la Direzione dovrebbe fare uno sforzo maggiore per uscire dalla sua proverbiale autoreferenzialità e dare più spazio all’autonomia della persona perché senza autonomia non può esserci né rieducazione né formazione. Il carcere è un luogo di grandi risorse umane e sociali, da potenziare e valorizzare, superando così la logica solo custodialistica del controllo e dell’esclusione.D’altra parte lo stesso Pietro Buffa [ Direttore del “Lorusso e Cutugno”fino a dicembre 2007] afferma con fermezza che “l’istituzione penitenziaria è nelle condizioni di modificare le proprie prassi e i propri atteggiamenti attraverso un riformismo interno e pragmatico aumentando la consapevolezza degli addetti ai lavori perché l’inerzia non sta solo nell’autoreferenzialità dell’organizzazione ma anche nella resistenza individuale degli operatori che stentano a vedere in modo diverso la loro azione, nella difficoltà, connaturata in ognuno di [loro], di accettare di riconoscere i propri errori e farne tesoro nella ricerca di nuove soluzioni possibili. Queste opacità istituzionali e individuali costituiscono un formidabile freno a qualunque processo di cambiamento” [P. Buffa, I territori della pena: alla ricerca dei meccanismi di cambiamento delle prassi penitenziarie, EGA, 2006].Ma il carcere è stato inventato dall’uomo, è – per dirla con Ota De Leonardis - un “artefatto umano intenzionale”, per cui può essere modificato dall’uomo. Allora l’Università deve agire in questo senso, deve avere un ruolo esterno di stimolo continuo per il cambiamento interno, individuando e consolidando quelle prassi che si rivelano efficaci non solo per la convivenza interna ma anche ai fini della risocializzazione dell’individuo. Credo che solo in questo modo si potranno oltrepassare quelle “opacità istituzionali e individuali” di cui parla Buffa. L’Università e la cultura in generale traccia la strada verso la responsabilizzazione dell’individuo detenuto, stimola la riscoperta dei valori e la condivisione dei principi etici: non si ha a che fare con destini segnati ma con fenomeni e processi da sollecitare e riattivare, ed è per questo motivo che bisogna fare uno sforzo perché il Polo Universitario non rimanga solo e sempre un “progetto” ma diventi presenza continua e strutturale al sistema, per esempio attraverso il riconoscimento di una sorta di indennità ai professori che tengono lezioni all’interno: in questo modo si garantisce anche la continuità del programma didattico, attualmente problematico soprattutto per gli studenti di giurisprudenza. Ma penso anche al fatto di allargare le iscrizioni e la partecipazione congiunta delle detenute che abbiano i requisiti, ma anche agli agenti di polizia che potrebbero seguire le lezioni insieme agli studenti-detenuti, superando la contrapposizione di principio che esiste tra le parti da quando è nato il carcere. Ripeto ancora, occorre avere il coraggio di andare oltre e credo che l’Università con la sua autorevolezza può dare il suo contributo straordinario, come del resto sta facendo dal 1998 per aumentare il processo di normalizzazione del carcere e per non lasciare che il Polo resti confinato come una splendida “isola di vitalità”. Infine, permettetemi di ricordare la figura del prof. Odillo Vidoni, Lillo per gli amici, relatore della mia tesi di laurea, che è venuto a mancare circa un anno fa per una malattia purtroppo incurabile. Non voglio essere retorico ma solo dire che lo ricorderò e lo ricorderemo tutti sempre per la sua disponibilità, umiltà, per il suo modo di rapportarsi con l’altro, per i suoi insegnamenti, per la sua umanità e professionalità.Grazie a tutti voi.                                    Giuseppe D. Colazzo