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I "casi" raccolti non rappresentano la totalità delle morti che avvengono all'interno dei penitenziari italiani: sono quelle che siamo riusciti a ricostruire in base alle notizie dei giornali, delle agenzie di stampa, dei siti internet, delle lettere che ci scrivono i volontari o i parenti dei detenuti.

Purtroppo molte morti passano ancora "sotto silenzio", nell'indifferenza dei media e della società: ma la nostra non vuole essere una ricerca meramente statistica; il nostro obiettivo è un altro, quello di raccontare delle storie, di ridare una dimensione umana alle vicende delle persone che muoiono in carcere.

* Dati aggiornati al 10 maggio 2008

 

Morire di carcere: dossier 2000 - 2008

Post n°81 pubblicato il 21 Maggio 2008 da geko1963
 

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose

In 8 anni nelle carceri italiane sono morti 1.200 detenuti, di cui oltre un terzo per suicidio

 

Anni

Suicidi

Totale morti

2000

56

160

2001

69

177

2002

52

160

2003

57

157

2004

52

156

2005

57

172

2006

50

134

2007

45

123

2008

14*

30*

Totale

449

1.243

 
 

IL RUOLO DELL'UNIVERSITA' IN CARCERE

Post n°80 pubblicato il 09 Maggio 2008 da geko1963
 

Di Giuseppe D. Colazzo (CFPP-Casa di Carità onlus-Torino)

(intervento in occasione della ricorrenza del decimo anniversario della costituzione del Polo Universitario all’interno della Casa Circondariale”Lorusso e Cutugno” di Torino -8 maggio 2008)

 Quando ADRIANO MORAGLIO [giornalista de Il Sole 24 ore] mi ha chiesto se volevo partecipare a questa manifestazione e fornire la mia testimonianza [in qualità di studente laureato presso il Polo Universitario della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino], ho subito accettato per due ragioni essenziali:

 La prima ragione è che non ho mai avuto l’occasione pubblica di ringraziare tutte le persone che sono dietro al progetto del Polo Universitario - e quando parlo di Polo vorrei che si intendesse non solo l’Università degli Studi di Torino, e personalmente i docenti che investono volontariamente risorse di tempo, di professionalità e umanità garantendo qualitativamente didattica e metodologia, ma anche la Direzione dell’Istituto, l’Area Educativa, l’Area della Sicurezza. Infatti non possiamo dimenticare che senza la collaborazione di tutto il Sistema il Polo non sarebbe possibile. Non dimentico naturalmente anche altre figure professionali, giornalisti, operatori del privato sociale, volontari che, anche grazie all’Università, si sono avvicinati al Polo Universitario e che volontariamente spendono molto del loro tempo per attivare incontri, lezioni, seminari, anche al di fuori del percorso didattico. Naturalmente un ringraziamento va anche all’Ufficio Pio della Compagnia San Paolo che ha creduto nel progetto e durante questi anni non ha fatto mancare il sostegno economico per la realizzazione di interventi e la predisposizione di ausili e strumenti didattici.

La seconda ragione è che mi preme sottolineare l’importanza del Polo Universitario in un contesto tradizionalmente chiuso come il carcere.

Non ho mai amato molto le cerimonie istituzionali, perché sono convinto che spesso sono uno strumento di autoreferenzialità e attraverso di esse le Istituzioni cercano di legittimare se stesse, ma credo che oggi non sia un momento di autolegittimazione, ma una occasione per riaffermare, se ancora ce ne fosse bisogno, la funzione della cultura all’interno del carcere. Si fa sempre un po’ di retorica quando si dice che la cultura è importante, ma in tale contesto non si può non sottolinearlo perché l’Università non è solo didattica o impegno per sostenere gli esami da parte degli studenti. E’ cultura; e la cultura è libertà, è dialogo, è confronto con se stessi e con gli altri, con la società libera; l’Università è ricerca,  senso di responsabilità, di riflessione, capacità di organizzarsi, è capacità di ricominciare, magari con l’elaborazione di un nuovo progetto di vita più credibile e attuale. Ma io credo che l’importanza dell’Università non stia soltanto nell’aver portato la cultura nell’ambito carcerario e l’aver permesso a molti di noi di conseguire una laurea, ma nell’aver portato parte della società libera in carcere; essa è indispensabile perché, come ha detto in più  occasioni il prof. Davide Petrini, le violenze, le sopraffazioni, la perdita di dignità di chi ci vive sono inversamente proporzionali alla presenza della società  libera”.

 Il carcere in sé non ha gli strumenti idonei che possano consentire alla persona privata della libertà di affrontare, nel rispetto delle regole sociali, il ritorno alla vita libera; il carcere, se lasciato solo, e questo già lo diceva Clemmer 50 anni fa, è una scuola di criminalità perché la cultura, i valori e i principi della sub-cultura carceraria, in contrasto con i valori ed i principi della società libera, tendono ad essere assimilati  molto velocemente dalle persone ristrette, ed una volta interiorizzati influenzano anche il comportamento esterno, soprattutto in assenza di forti legami familiari. E’ necessario, dunque, che la persona ex-detenuta possegga quelle condizioni soggettive che combinate con le condizioni oggettive o ambientali gli permettano di affrontare i disagi che inevitabilmente incontra nel momento in cui si confronta con la realtà esterna. Per condizioni soggettive mi riferisco, nel loro insieme, “al corredo di cui la persona deve dotarsi per proporsi come persona che intende offrire le proprie prestazioni professionali e per farsi riconoscere dagli altri come soggetto affidabile, credibile, effettivamente capace di interagire e di eseguire i compiti attribuiti”; mentre le condizioni ambientali o oggettive “si riferiscono alla capacità di accoglienza, di assimilazione, inclusione, interazione che il contesto mette a disposizione della persona svantaggiata a causa del reato commesso e della conseguente pena detentiva” [A. De Salvia, già Direttore del CFPP].

L’Università permette o può permettere un intreccio tra condizioni soggettive e condizioni ambientali facendo si che l’individualità e il contesto sociale costituiscano gli “elementi di un binomio indissolubile perché l’azione e il comportamento sono definibili  in uno spazio, in un contesto di relazioni interindividuali e sociali che promuovono e garantiscono la dignità della persona come valore ontologico” [A. De Salvia].

In questa prospettiva tendono già i progetti personali e individualizzati, a seconda della specificità e delle competenze della persona, che l’Università ha avviato in questi ultimi mesi; per cui il mio auspicio è quello che si continui su questa strada affinché non solo il Polo ma anche tutti gli altri reparti siano coinvolti in progetti che hanno come obiettivo la risocializzazione della persona detenuta.

L’Università all’interno del carcere deve continuare a costituire il ponte di comunicazione tra le due società, quella libera e quella ristretta, anche perché ( ed è un altro motivo dell’importanza della presenza dell’Università) soltanto la conoscenza, la trasparenza e la visibilità all’esterno permettono il cambiamento di una struttura per antonomasia autoreferenziale.

L’individualizzazione del trattamento all’interno delle mura e soprattutto del percorso risocializzante all’esterno non deve riguardare soltanto la tipologia di lavoro (giardiniere piuttosto che falegname, bibliotecario piuttosto che altro) ma deve tenere conto anche delle esigenze personali del soggetto, delle sue aspettative, delle sue capacità, delle sue competenze professionali, del suo modo di rapportarsi con le persone libere. In questo senso occorre che l’Istituzione faccia un passo indietro, dia più voce alla società civile, al detenuto stesso, ascoltarlo quando è necessario perché, come sostiene Susanna Ronconi, il detenuto è un attore che ha un capitale sociale, sapere esperienziale, capacità di autoregolazione. Egli è e deve essere il protagonista della sua vita…Il detenuto non è un paziente muto, quello che deve farsi definire e indicare la via”.

Non si perde autorevolezza e potere nel fare questo, anzi si acquista; bisogna avere il coraggio di andare oltre, di provare strade nuove, in cui il soggetto detenuto si senta responsabile del suo futuro e sia trattato come soggetto “conoscente” capace di relazione e di responsabilità.

Da questo punto di vista, a mio avviso - e non è una posizione di parte in quanto ho sempre apprezzato lo sforzo illuminato dei Direttori che si sono succeduti alla guida dell’Istituto – la Direzione dovrebbe fare uno sforzo maggiore per uscire dalla sua proverbiale autoreferenzialità e dare più spazio all’autonomia della persona perché senza autonomia non può esserci né rieducazione né formazione. Il carcere è un luogo di grandi risorse umane e sociali, da potenziare e valorizzare, superando così la logica solo custodialistica del controllo e dell’esclusione.

D’altra parte lo stesso Pietro Buffa [ Direttore del “Lorusso e Cutugno”fino a dicembre 2007] afferma con fermezza che l’istituzione penitenziaria è nelle condizioni di modificare le proprie prassi e i propri atteggiamenti attraverso un riformismo interno e pragmatico aumentando la consapevolezza degli addetti ai lavori perché l’inerzia non sta solo nell’autoreferenzialità dell’organizzazione ma anche nella resistenza individuale degli operatori che stentano a vedere in modo diverso la loro azione, nella difficoltà, connaturata in ognuno di [loro], di accettare di riconoscere i propri errori e farne tesoro nella ricerca di nuove soluzioni possibili. Queste opacità istituzionali e individuali costituiscono un formidabile freno a qualunque processo di cambiamento [P. Buffa, I territori della pena: alla ricerca dei meccanismi di cambiamento delle prassi penitenziarie, EGA, 2006].

Ma il carcere è stato inventato dall’uomo, è – per dirla con Ota De Leonardis - un “artefatto umano intenzionale”, per cui può essere modificato dall’uomo. Allora l’Università deve agire in questo senso, deve avere un ruolo esterno di stimolo continuo per il cambiamento interno, individuando e consolidando quelle prassi che si rivelano efficaci non solo per la convivenza interna ma anche ai fini della risocializzazione dell’individuo. Credo che solo in questo modo si potranno oltrepassare quelle “opacità istituzionali e individuali” di cui parla Buffa.

 L’Università e la cultura in generale traccia la strada verso la responsabilizzazione dell’individuo detenuto, stimola la riscoperta dei valori e la condivisione dei principi etici: non si ha a che fare con destini segnati ma con fenomeni e processi da sollecitare e riattivare, ed è per questo motivo che bisogna fare uno sforzo perché il Polo Universitario non rimanga solo e sempre un “progetto” ma diventi presenza continua e strutturale al sistema, per esempio attraverso il riconoscimento di una sorta di indennità ai professori che tengono lezioni all’interno: in questo modo si garantisce anche la continuità del programma didattico, attualmente problematico soprattutto per gli studenti di giurisprudenza. Ma penso anche al fatto di allargare le iscrizioni e la partecipazione congiunta delle detenute che abbiano i requisiti, ma anche agli agenti di polizia che potrebbero seguire le lezioni insieme agli studenti-detenuti, superando la contrapposizione di principio che esiste tra le parti da quando è nato il carcere.

Ripeto ancora, occorre avere il coraggio di andare oltre e credo che l’Università con la sua autorevolezza può dare il suo contributo straordinario, come del resto sta facendo dal 1998 per aumentare il processo di normalizzazione del carcere e per non lasciare che il Polo resti confinato come una splendida “isola di vitalità”.

 Infine, permettetemi di ricordare la figura del prof. Odillo Vidoni, Lillo per gli amici, relatore della mia tesi di laurea, che è venuto a mancare circa un anno fa per una malattia purtroppo incurabile. Non voglio essere retorico ma solo dire che lo ricorderò e lo ricorderemo tutti sempre per la sua disponibilità, umiltà, per il suo modo di rapportarsi con l’altro, per i suoi insegnamenti, per la sua umanità e professionalità.

Grazie a tutti voi.

                                   Giuseppe D. Colazzo

 

 

                                                                         

                                                                                

 

 
 
 

Carcere: Dati reali e cultura dell'intolleranza. 

Post n°79 pubblicato il 05 Maggio 2008 da geko1963
 

 A cura di Giuseppe D. Colazzo

È di nuovo emergenza carcere.

Dai dati raccolti dal Ministero della Giustizia risulta che l’affollamento negli Istituti di pena ha superato il livello di pareggio tra posti disponibili e numero di presenze, con una media di 113 detenuti presenti per 100 letti. Il  Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha pubblicato i dati della situazione al 14 febbraio 2008: 50.250 presenze, circa 7.000 in più della capienza regolamentare (43.216 presenze). Se si considera che i detenuti tendono ad aumentare di 1.000 unità al mese, è facile prevedere che alla fine del 2008 si oltrepasserebbe la soglia delle 60.000 presenze, cioè ci troveremmo nella medesima situazione della vigilia dell’approvazione della legge sull’indulto.

Certamente l’indulto ha lasciato il segno e la questione della recidività è tornata ad essere da un lato argomento discusso tra gli studiosi di scienze sociali, dall’altro sembra essere  la giustificazione per propagandare politiche penali più repressive: più carcere, meno misure alternative, lavoro coatto, tolleranza zero per gli autori di reato; i mezzi di comunicazione di massa fanno la loro parte nel fomentare le paure dei cittadini indicando nell’indulto la causa di tutti i mali, senza mai fare riferimento a dati oggettivi.

Da una ricerca di prossima pubblicazione commissionata dal Ministero della Giustizia e condotta dai prof.ri G. Torrente, C. Sarzotti e G. Jocteau della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino risulta che circa 7.000 “indultati” sono stati arrestati per aver commesso un nuovo reato. Certamente non sono pochi, intorno al 20% di coloro che hanno usufruito del provvedimento di clemenza. Sono una goccia nel mare rispetto ai 130-140 mila ingressi in carcere registrati dal 1° agosto 2006 ad oggi. D’altra parte non si può dimenticare che, senza l’indulto del 2006, le proiezioni ci dicono che oggi la popolazione reclusa supererebbe abbondantemente le 70.000 unità: un disastro umanitario ed una minaccia per la collettività.

Secondo la stessa ricerca una forte riduzione della recidiva si riscontra negli ultimi mesi del 2007. Per il prof. Torrente ciò è dovuto probabilmente al fatto che sono entrati in funzione quei progetti di accoglienza e reinserimento sociale di ex detenuti avviati alcuni mesi dopo l’indulto; inoltre, sempre secondo Torrente, il deterrente maggiore per chi ha fruito del provvedimento di clemenza è che, in caso di recidiva, si deve scontare l’intera pena. Conclude dicendo che, in generale, “se si supera il primo periodo si cerca di stare più attenti”.

Questa ricerca, ma anche un’altra condotta sempre dal prof. Torrente a sei mesi dalla legge sull’indulto, evidenzia in modo chiaro una colpevole incompetenza, forse anche voluta, da parte dei mezzi di comunicazione di massa. Non solo, ma se si attuano politiche di recupero e di risocializzazione la recidiva tende a diminuire, confermando in un certo senso anche altre ricerche condotte sul grado di recidività di detenuti ammessi alle misure alternative, dalle quali risulta che il tasso di recidività è estremamente più basso rispetto al 70% riferito a coloro che hanno scontato tutta la pena in carcere: infatti i dati del Ministero della Giustizia riferiti alle revoche registrate dal 2001 al 2006 ci dicono che sono state revocate complessivamente 19.281 misure alternative su 277.367 concesse, cioè la media del 6,92%; di queste solo 622 (0,22%) sono state revoche per commissione di reati durante la misura, 12.866 (4,63%) per andamento negativo, 5.384 (1,93%) per nuova posizione giuridica per assenza di requisiti giuridico-penali previsti, 263 (0,10%) per irreperibilità, 146 (0,05%) per altri motivi. Per contro l’andamento positivo registrato nei 6 anni è in media del 93,08%. Inequivocabilmente i dati sottolineano il buon andamento delle misure alternative, almeno durante la loro esecuzione. E dopo? Tutte le ricerche condotte evidenziano che nei 5 anni successivi alla fine dell’esecuzione della pena in misura alternativa la recidività aumenta e si attesta intorno al 20-25%, estremamente al di sotto di quel 70-80% del tasso di recidività riferita a ex detenuti che hanno espiato tutta la pena in carcere.

Per sottolineare ulteriormente il livello di disinformazione esistente nel nostro Paese occorre fornire ancora alcuni dati sul numero dei reati. Negli ultimi mesi del 2007 i reati sono diminuiti di 145.043. Si è passati da 1.466.614 delitti, del 2°semestre del 2006, a 1.323.118 del 2°semestre del 2007. Omicidi volontari: 335 nel 2006, 277 nel 2007; lesioni dolose: 30.817 nel 2006 e 27.222 nel 2007; violenze sessuali: 2.309 nel 2006, 2.057 nel 2007; totale rapine: 27.568 nel 2006, 22.675 nel 2007; reati legati agli stupefacenti: 16.780 nel 2006, 16.610 nel 2007. L’unico reato che è aumentato nel 2°semestre del 2007 (80.549) rispetto al 1°semestre del 2007 (77.184), ma in calo rispetto al 2°semestre del 2006 (83.396) è il furto in abitazione, mentre le estorsioni sono calate nel 2° semestre 2007 (2.658) rispetto al 1° semestre (3.144), ma sono aumentate, seppur di poco, in confronto al 2° semestre 2006 (2.597).

Poi c’è il problema degli stranieri. A livello nazionale tra il 1980 e il 1990, fra le persone in carcere, il 15% erano stranieri. A giugno 2005 erano il 31,1% mentre al 31 dicembre 2007 sono aumentati al 37,7% provenienti da 144 Paesi diversi (in Piemonte al 31 dicembre 2007 gli stranieri erano il 52,2%, a Torino il 45%). I Paesi più rappresentati in carcere sono: Marocco 20,8%; Romania: 14,4%; Albania: 12,2%; Tunisia: 10,2%; Algeria: 5,7%; Nigeria: 3,7%; Iugoslavia: 3,0%; Egitto: 1,8%; Senegal: 1,8%; Cina: 1,4%; altri Paesi 24,8%. In valori assoluti gli stranieri al 31 dicembre 2007 presenti nelle prigioni italiane erano 18.252 su una popolazione complessiva di 48.693 (a febbraio, come detto sopra è arrivata a contare 50.250 unità).

Infine è doveroso sottolineare che la popolazione detenuta è costituita per il 3,2% da condannati per mafia, per il 3,7% di detenuti per reati contro l’amministrazione, per il 23,4% da tossicodipendenti , mentre il 64% ha un grado di istruzione che non va oltre la licenza media inferiore. Nella sostanza il carcere sta diventando sempre di più una discarica sociale dove finisce solo la manovalanza del crimine.

Dopo aver sciorinato un po’ di numeri cerchiamo di analizzare, per quanto è possibile, la situazione reale. Nonostante l’indulto le carceri continuano a riempirsi. E questo era facilmente prevedibile perché il provvedimento di indulto avrebbe dovuto essere accompagnato da una riforma del sistema penale volta alla riduzione del ricorso alla carcerazione al minimo indispensabile, …è necessario contenere il “bisogno di prigione” nei limiti della sua efficacia rispetto allo scopo (L. Manconi, sottosegretario alla Giustizia).

A parte le posizioni politiche, dalle ricerche sopra esposte è evidente che le misure repressive d’emergenza non affrontano il problema di lungo periodo perché “pretendono di svuotare la vasca della criminalità schiacciando l’acqua con una mano. Senza sapere che poi torna al suo posto quando si toglie la mano. Senza capire che, se si vuole ottenere una riduzione permanente del crimine bisogna analizzare e contrastarne la cause”.

Certamente la minaccia della repressione dello Stato è necessaria, ma solo nel breve termine, mentre nel lungo periodo la guerra alla criminalità si vince solo se si riesce a instaurare una cultura della legalità, come evidenziato da una ricerca condotta da P. Buonanno dell’Università di Bergamo e P. Vanin dell’Università di Padova i cui dati sono di prossima pubblicazione sul Journal of Law and Economics, la più prestigiosa rivista internazionale in materia di diritto ed economia, i quali concludono dicendo che il senso civico e la presenza di una densa rete associativa sul territorio riducono i crimini in modo significativo.

Tutte le indagini ci suggeriscono, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’incapacitazione dell’individuo sposta semplicemente avanti  nel tempo la sua azione deviante o criminale, pertanto le misure emergenziali, se non accompagnate da serie azioni di rieducazione e di risocializzazione non sono in grado di ridurre la criminalità nel lungo periodo. Se si continua a percorrere la strada della carcerazione di massa a scapito del welfare state, come avviene in America, si finisce di dire addio alle conquiste civili affermatesi nel secondo dopoguerra. Occorre investire non solo su una riforma del sistema penale ma anche sulle misure alternative perché abbattono la recidiva a circa il 20%; soltanto un potenziamento delle politiche sociali può garantire anche una sicurezza urbana, altrimenti la dignità della persona non sarà più il fondamento di uno Stato. Investire in politiche sociali vuol dire anche destinare più risorse umane ed economiche al terzo settore della nostra società che, attraverso la formazione professionale (in carcere e fuori) e progetti di inserimento socio-lavorativo da attuare nei confronti di detenuti in misure alternative ed ex-detenuti, contribuisce in modo determinante alla riduzione della recidiva.

Il carcere non è la soluzione alla criminalità “perché chi entra in un carcere è un emarginato, ma chi ne esce, in assenza di una politica di inclusione e reinserimento sociale, è emarginato due volte” (R. Loddo, Ass. 5 novembre).

Sta prendendo piede, e non solo in Italia, un pensiero intollerante, emergenzialista e giustizialista che attraverso strategie di esclusione aumenta i disagi sociali e produce un tipo di devianza da scaricare e nascondere poi in carcere. La tolleranza zero ha fallito e ce lo dicono i numeri: negli Stati Uniti dove è nata la politica di zero tollerance la popolazione carceraria è superiore a quella di qualsiasi altro Paese al mondo: 2 milioni e 300 mila persone private della libertà, 1000 detenuti su 100 mila abitanti, mentre in Europa il tasso medio è di 125 su 100 mila abitanti. Eppure stiamo seguendo quella strada.

Usare il carcere  come il contenitore nel quale collocare tipologie di persone con bisogni e domande diverse (tossicodipendenti, extracomunitari, ammalati di AIDS o affetti da HIV; persone con patologie psichiatriche…) significa creare i presupposti per la deriva della giustizia.

Da alcuni anni si continua a ridurre il budget per il funzionamento della giustizia con l’intento di ridurne le spese: eppure questa tendenza, a conti fatti, non solo non riduce le spese (bisogna affrontare l’emergenza), ma diventano più onerosi i costi sociali e umani conseguenti ai reati commessi.

    

“…Con spregiudicatezza irresponsabile si fa a gara per mettere al centro dell’informazione episodi di cronaca nera raccontando fatti, mettendo insieme frasi raccolte, assemblando immagini il cui effetto è di incutere nei telespettatori, soprattutto nelle fasce di popolazione più fragili per età e per cultura, un senso di terrore incombente alimentato dalla presenza degli stranieri.

A volte, meno importanti e più normali, invece, appaiono paradossalmente i delitti di sangue più efferati commessi dai mostri nostrani e spesso rappresentati con i plastici in miniatura nella trasmissione "Porta a porta". Con tali modalità di comunicazione mediatica, probabilmente finalizzata ad orientare l’opinione pubblica per la scadenza elettorale, si sta perpetrando a spese della comunità un danno di proporzioni incommensurabili.

La ferita al corpo sociale, inferta da un’informazione siffatta, è priva, a mio avviso, dei principi basilari dell’etica giornalistica e indica indirettamente strade selvagge di "coprifuoco" permanente, di chiusura e aggressività verso chiunque abbia tratti somatici o linguistici o nomi diversi dai nostri.

Si tratta di un’opera sistematica scellerata di distruzione progressiva del sistema naturale delle relazioni umane. Si tratta di una lucida folle filosofia che si inietta pericolosamente nell’opinione pubblica per far credere che l’unica soluzione per la sicurezza sia la costruzione di infinite carceri e manicomi dove dividere i "cattivi" dai "buoni".

È un’incultura delle barricate che suggerisce allo spettatore acritico il rifugio principe dove sentirsi più sicuri al tramonto: in casa, davanti agli accattivanti intrattenimenti e format televisivi, dove l’unico innocuo gioco interattivo è il televoto a pagamento. Uno schermo intercetta e si sostituisce al nostro bisogno di relazioni sociali e affettive e le fa entrare virtualmente dentro ogni salotto e camera da letto attraverso il reality show, dove non esistono fastidiose o "minacciose" presenze di rom, immigrati ed extracomunitari”. (Domenico Ciardulli, in www.ristretti.it)

              

 
 
 

sentenza

Post n°78 pubblicato il 04 Maggio 2008 da mediterraneoai

quando un giudice emette una sentenza, non dovrebbe dire: in nome del popolo italiano si condanna TIZIO a.... ma dovrebbe dire: in nome del popolo italiano si condanna a sofferenza la famiglia e i cari di TIZIO, perchè sono loro i veri condannati.      UN giudice dovrebbe fare un tirocinio rinchiuso per 3 mesi in un carcere italiano...per poter emettere sentenze

 
 
 

Giustizia: quando il carcere umilia l'uomo

Post n°77 pubblicato il 12 Marzo 2008 da geko1963
 

 

di Roberto Loddo (Associazione 5 novembre)

 

www.altravoce.net, 11 marzo 2008

 

La questione dell’esecuzione penale deve essere prima di tutto una questione culturale. Leggendo i dati del Dap degli ultimi venti anni, difficilmente possiamo considerare il carcere come la soluzione alla criminalità. Chiunque legga questi dati, dai numeri alla composizione sociale, rimarrà sorpreso nel notare che è più facile individuare dentro le percentuali migranti, prostitute, tossicodipendenti e meridionali. Uomini e donne che per la loro condizione perdono qualsiasi contatto con la società, o peggio, con la parte più produttiva della società.

Per questi motivi, come Associazione 5 Novembre, Arci e Antigone, insieme ad altri movimenti, stiamo organizzando una conferenza per i diritti dei detenuti. Mai come ora, dopo l’indulto, il carcere è stato così isolato. Ha ragione il direttore di "Diritti Globali", Sergio Segio, quando dice che le carceri sono diventate un sovraffollato deposito di "vite a perdere", in particolare di migranti e tossicodipendenti. Perché chi entra in carcere è un emarginato, ma chi ne esce, in assenza di una politica di inclusione e reinserimento sociale, è emarginato due volte.

Tutto ciò accade mentre i Governi europei, in assenza di garantismo negli interventi sociali, acquisiscono una percezione della realtà sociale distorta, inquinata da un pensiero intollerante, emergenzialista e giustizialista che nasce delle voci che provengono dagli "stomaci" delle società. Strategie di risoluzione che aumentano solo le disuguaglianze e ci portano ad un nuovo Medioevo. Strategie di contenimento sociale, della volontà di escludere, segregare e nascondere i disagi sociali che la nostra società produce e poi scarica verso il Carcere.

A Cagliari, l’aspetto più drammatico del sistema penale è Buoncammino. Chiamato anche carcere della pazzia, della droga e della malattia, attraverso la testimonianza di Santino, ex persona detenuta, che dalle lettere inviate a Radio Carcere scrive: "Rumore. Urla. Depressione e pazzia. Psicofarmaci. Droga. Vino e valium. Bombolette di gas da sniffare. Lamette da barba per tagliarsi. Sporcizia. Puzza. Topi e scarafaggi. Malati mentali. Tossici. Malati fisici. Chi sta sulla sedia a rotelle. Chi ha l’epatite o l’aids. Chi ha la scabbia, la tubercolosi e la meningite. Ogni tanto, in una cella vedi una cinghia attaccata alle sbarre, e lì appeso uno dei tanti che non ce l’hanno fatta".

Se il carcere sembra precipitato in un pozzo senza fondo, se emerge una situazione di vero e proprio sfascio delle legalità, di azzeramento della dignità e rispetto dei diritti umani e civili delle persone detenute, allora come Associazione 5 Novembre, proponiamo una soluzione: l’amnistia. Indulti e indultini da soli non bastano, poiché estinguono solo la pena e non comportano una sentenza di assoluzione. L’amnistia estingue il reato e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie.

L’amnistia in Italia è prevista dall’art. 79 della Costituzione. I decreti del Presidente della Repubblica del 1946 e del 1953 fecero beneficiare dell’amnistia per la prima volta i condannati per reati comuni, politici e militari. Dal 1992 una riforma costituzionale ha attribuito questo potere al Parlamento.

Al mondo della politica chiediamo l’attuazione di questo provvedimento, accompagnato dal diritto di associazione dei cittadini detenuti, dalla decarcerizzazione di malati psichici, tossicodipendenti e sieropositivi, dall’aumento delle concessioni alle misure alternative, dalla riforma del codice penale a partire dall’abolizione dell’ergastolo e dalla depenalizzazione dei reati minori. Vogliamo giustizia consapevole: le prigioni sono un invenzione del medioevo, e l’uomo moderno deve individuarne il superamento.

 
 
 

Una opinione di parte

Post n°76 pubblicato il 10 Marzo 2008 da geko1963
 

Devo ringraziare Dany per il suo commento, per la sua onestà intellettuale. So benissimo che il carcere, e tutto ciò che ruota intorno ad esso, non è argomento di attrazione per il pubblico; chi non è direttamente o indirettamente coinvolto lo sente molto lontano, anzi ci sono persone che non sanno neanche se esiste nella loro città e se lo sanno non lo vedono neanche quando ci passano a fianco. Inoltre i mass media affrontano questo tema soltanto quando l'argomento fa audience o permette di vendere più copie di giornali (vedi i vari processi mediatici dove pseudogiornalisti danno notizie con la bava alla bocca, come se godessero).

Il problema della criminalità in generale e del carcere in particolare è un problema complesso e di difficile soluzione (se ce ne fosse una) che deve essere affrontato senza pregiudizi di sorta, senza riferimenti politici di destra o di sinistra. Il carcere fa parte della società in cui viviamo e all'interno di esso ci sono persone, con la loro dignità, e se qualcuno di loro ha calpestato la dignità di un qualsiasi cittadino/a, ciò non vuol dire che lo Stato deve fare lo stesso. Il principio "occhio per occhio, dente per dente" è un principo che incattivisce le persone e non permette il recupero delle stesse - se questo è una delle finalità del carcere - ma le costringe a reagire e ad allontanarsi sempre di più dalle regole sociali. La tolleranza zero non è mai stata una politica che ha dato dei risultati consistenti...e allora perchè si persevera su questa strada? Solo perchè, giocando sulle paure della gente - ringraziamo i mass media anche per questo - si cerca un ritorno elettorale (in Italia siamo sempre in campagna elettorale). Però i costi della tolleranza zero sono molto maggiori, anche in termini di risorse umane e non solo economici. E' inutile dire quanto costa mantenere un detenuto ed è inutile dire che la costruzione di altre carceri oggi non è possibile (chi lo afferma è solo un chiacchierone politico, un politicante da strapazzo), allora proviamo ad essere lungimiranti per una volta, lasciamo da parte i ritorni elettorali e pensiamo ad una seria politica per il futuro, cominciando dalla scuola, dalla prevenzione e dal guardare in faccia la realtà: le persone rinchiuse sono una risorsa per il paese non un problema da risolvere...occorre solo vederle come tali. Forse non si vuole risolvere il problema della devianza o della criminalità perchè esse sono funzionali alla società, soprattutto ad una società basata sul profitto e sull'individualismo sfrenato: ha continuamente bisogno di un nemico ed è facile trovarlo nel deviante di turno. Oggi l'extracomunitario, domani il pedofilo e dopodomani lo zingaro davanti al semaforo che cerca di mettersi in tasca qualche spicciolo, che noi gli rendiamo con cattiveria. La nostra è una società che mette da parte tutto ciò che dà fastidio ai nostri occhi, mentre leggi ad personam sottolineano che ci sono persone di serie a e di serie b. Dove sono i giornalisti? Dove sono le inchieste giornalistiche che indagano sui reati dei potenti? Forse che in carcere c'è qualche persona di questo tipo? Solo questo dovrebbe far riflettere che l'Italia è in mano a gente incapace, o meglio capace solo di perseguire gli interessi personali.

 
 
 

DA "Ristretti orizzonti"

Post n°75 pubblicato il 03 Marzo 2008 da geko1963
 

Giustizia: Ass. Antigone; sono già 7.700 i detenuti "di troppo"

 

Redattore Sociale, 29 febbraio 2008

 

Sono 50.851 i reclusi nelle carceri italiane (al 21 febbraio), il 60% è in attesa di giudizio. Il 35% è straniero e il 23,4% tossicodipendente.

Nelle carceri italiane ci sono più imputati che condannati. Ogni dieci detenuti sei sono in attesa di giudizio. Soltanto 20.190 dei 50.851 detenuti è stato condannato. Il 35% è straniero e il 23,4% tossicodipendente. Questi gli ultimi dati aggiornati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, relativi al 21 febbraio 2008, presentati dall’Associazione Antigone.

Nelle carceri italiane è di nuovo sovraffollamento. Ad oggi sono detenute 7.702 persone in più rispetto alla capienza. L’indulto aveva liberato più di 25mila persone. Così dai 61.264 detenuti del 30 giugno 2006 si era passati al minimo storico dei 33.326 nel settembre 2006. Ma le leggi sulle droghe, sull’immigrazione e sulla recidiva hanno continuato a far aumentare gli ingressi in carcere, con una incremento di 1.000 persone al mese.

La capienza regolamentare di 43.149 posti è stata superata il 30 giugno 2007 con 43.957 presenze ed è continuata ad aumentare fino alle 48.693 unità del 31 dicembre e le oltre 50.000 del 21 febbraio 2008. Senza l’indulto - stima Antigone - saremmo oggi di fronte alla cifra record di 72.000 detenuti. Eppure il tasso di carcerazione in Italia è tra i più bassi in Europa: 94 detenuti ogni 100.000 abitanti. Meno di un terzo dei 321 dell’Estonia, che detiene il primato seguita da Lettonia, Lituania e Polonia. Ma anche molto meno della Spagna (146) o della Gran Bretagna (145).

Un dato tipico della popolazione carceraria italiana è quello dei detenuti in attesa di giudizio: sono il 60%, 29.166 persone, più dei condannati, complice la lentezza dei procedimenti penali nel nostro Paese. Tra i condannati, il 29,5% sconta una pena per reati contro il patrimonio, il 16,5% contro la persona, il 15,2% per violazioni della legge sulle droghe, il 3,7% per reati contro l’amministrazione e il 3,2% per associazione mafiosa.

Le donne rappresentano il 4% dell’intera popolazione carceraria. Per loro non vale il problema del sovraffollamento, visto che le detenute sono 2.278 su 2.358 posti disponibili. Tuttavia sono ancora 50 le detenute madri con bambini al seguito, di età inferiore ai tre anni.

I detenuti stranieri sono il 35% della popolazione. Nel 1990 erano solo l’8%. Perlopiù si tratta di africani. Il 23,4% dei detenuti è tossicodipendente e il 4% in trattamento metadonico. Un altro 2% ha problemi di alcolismo. Per quanto riguarda la durata delle pene, il 31,9% dei detenuti sconta pene inferiori ai tre anni, che - sostiene Antigone - "potrebbero astrattamente usufruire delle misure alternative". Il 21,3% sconta pene tra i tre e i sei anni ed il 46,8% sconta pene di durata superiore.

Giustizia: in Europa sovraffollamento carcerario è del 125%

 

Redattore Sociale, 29 febbraio 2008

 

Nella Ue la popolazione carceraria è aumentata costantemente in 23 Stati su 27. I maggiori problemi di sovraffollamento in Grecia, Spagna, Ungheria e Belgio.

Sono circa 600.000 i detenuti ristretti nelle carceri dei paesi dell’Unione europea. Di questi, circa 131.000 sono in attesa di giudizio. Le donne rappresentano circa il 5% dell’intera popolazione carceraria. In media vi è un poliziotto penitenziario ogni 283 detenuti. Un dato opposto a quello italiano, dove il rapporto è di circa uno a uno. Nella Ue negli ultimi anni la popolazione carceraria è costantemente aumentata in 23 Stati su 27.

Quattordici stati su 27 hanno superato il limite della capienza regolamentare. Il tasso di sovraffollamento vale in media 125%. I paesi con maggiori problemi di sovraffollamento sono la Grecia, con 168 detenuti ogni 100 posti disponibili, la Spagna (140%), l’Ungheria (137%) e il Belgio (118%).

Tra i 14 paesi che non superano il limite della capienza regolamentare, il primato spetta alla Slovenia, seguita da Danimarca, Finlandia, Irlanda e Svezia. Che guarda caso sono gli Stati con il minore tasso di carcerazione dell’Unione europea, rispettivamente 65, 69, 71, 74 e 79 detenuti ogni 100.000 abitanti.

Tassi che valgono meno di un quarto dei tassi dell’Europa orientale, con il primato di carcerazione che spetta all’Estonia (322 detenuti ogni 100.000 abitanti), seguita da Lettonia (285), Lituania (237), Polonia (230) e Repubblica Ceca (186).

Nell’Europa occidentale il primato spetta al Lussemburgo (164) seguito da Spagna (146) e Inghilterra (145). L’Italia, al 21 febbraio 2008, ha un sovraffollamento del 117,8% a fronte di un tasso di carcerazione del 94,1%, in linea con la media europea. Ma in termini assoluti il nostro paese si pone al sesto posto per il numero di detenuti, dietro Polonia (88.647), Germania (79.156), Gran Bretagna (77.982), Spagna (64.120) e Francia (57.816).

Giustizia: Ferrero; rischiamo la deriva verso lo "stato penale"

 

Dire, 29 febbraio 2008

 

"I dati diffusi oggi dall’Associazione Antigone sulla situazione carceraria italiana dimostrano non solo il superamento di qualsiasi soglia d’allarme ma anche una evidente crisi". Lo afferma il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, secondo il quale di fronte "a dati che ci parlano di un 23,4% dei detenuti tossicodipendenti e di 35% di stranieri non ci si può non domandare se il carcere non sia chiamato oggi a risolvere le contraddizioni della società piuttosto che a favore il recupero sociale di chi ha commesso un crimine".

Dinanzi a questo quadro, conclude il ministro, "è necessario interrogarsi sulla funzione reale della pena nel nostro Paese, e sanare le contraddizioni più evidenti attraverso forme alternative alla detenzione".

 
 
 

...Basterebbe un pò di cultura

Post n°74 pubblicato il 03 Marzo 2008 da geko1963
 

 

 

Sono anni che problemi come la tossicodipendenza e la prostituzione vengono presentati dai mezzi di informazione come emergenze e conseguentemente vengono affrontati dai governi con misure sempre più repressive. Il risultato disastroso che questo produce lo subiamo sulla pelle anche noi detenuti, che dobbiamo fare i conti prima con condizioni di vita sempre più inumane, e poi con una società sempre più incattivita.

Sembra così difficile far capire alle persone quanto questi fenomeni allarmanti in realtà siano anche dei problemi che coinvolgono esseri umani con tutta la loro complessità, mentre basterebbe, per saperne di più, un po’ più di cultura, semplicemente leggere della buona letteratura o guardare qualche film di quelli che non avranno al centro donne splendide e scene d’azione, ma che insegnano tanto.

In questi giorni ho letto di un film che racconta una storia che secondo me offre una chiave per leggere con più umanità quei fenomeni chiamati "emergenze". Al centro c’è una donna di mezza età che ha un nipotino che rischia di morire se non viene sottoposto a un’operazione in Australia, ma i suoi genitori non hanno il denaro necessario. Lei decide allora di andare a Londra a cercare lavoro, si presenta a un colloquio, ma scopre che il lavoro richiesto è quello di stare dietro una parete, in un locale porno, e masturbare i clienti che però non possono vederla.

Io credo che questa storia insegnerebbe molto a tutti, detenuti compresi, perché mi sembra che non sia solo ricca di umanità, ma in un modo del tutto originale apra una finestra sul mondo complesso delle prostitute. Cioè, in questo film vedi come anche una donna con un lavoro che appare così degradato, ha in realtà una storia pesante, ed è portatrice di una straordinaria capacità di amore per il proprio nipote: la sua è una vita-simbolo, dove si intrecciano due grandi temi, la malattia e la prostituzione.

Sarei curioso di sapere che cosa ne pensa la gente fuori, cosa ne pensano quelli che ritengono che una società civile non debba accettare l’utilizzo della donna come oggetto di piacere a pagamento, ma che però non si scandalizzano se qualcuno ha la libertà di rendere la gente più povera e più sfruttata; mi interessa sentire anche la gente comune, che sicuramente non sopporta di vedere tante prostitute straniere in giro per le città, e però non pensa che a volte tra di loro ci sono donne che hanno famigliari malati, che vivono magari in paesi come l’Albania, dove il liberismo sfrenato ha causato l’abbandono di chi ha bisogno di cure mediche per sopravvivere.

Ecco, mi piacerebbe che questo film così inusuale potesse far un po’ riflettere su quelle realtà di degrado e di povertà, che chi sta in carcere ha spesso conosciuto da vicino.

 

Un detenuto a Padova

 
 
 

QUESTO CLIMA MI PREOCCUPA

Post n°73 pubblicato il 03 Marzo 2008 da geko1963
 

 

Ultimamente faccio fatica a comprendere le notizie, che mi arrivano da tv, giornali, radio. Essendo un semilibero mi sforzo di avere un confronto quotidiano con l’informazione: per noi infatti è importante cercare di non restare tagliati fuori dalle notizie e sviluppare un dibattito indirizzato alla conoscenza della realtà. Come detenuto poi sento forte l’impulso di esplorare, in senso critico, tutto quello che si scrive o si sente sul carcere e sui reati, e su questi temi le notizie sono talmente divergenti da creare una totale confusione, sia per me, che questa realtà la conosco sulla mia pelle, che per chi le sente o le legge fuori da queste mura.

Esiste un disagio facilmente intuibile nella società, la gente pare che viva in un perenne stato di ansia, la sicurezza viene considerata una priorità. Ma se da un lato abbiamo cittadini sempre più spaventati, dall’altro salta fuori che il numero dei reati non è aumentato.

Contribuisce certamente, a questo clima generale di insofferenza e insicurezza, l’incessante martellamento mediatico di tv, giornali e radio, ma anche il fatto che la criminalità è cambiata con l’arrivo degli immigrati, che i reati legati alla droga creano preoccupazione all’interno delle famiglie, che la povertà aumenta di anno in anno. Mi sembra però di avvertire anche una mancanza di solidarietà, pare che la gente abbia paura di socializzare e che il piacere di confrontarsi con il prossimo non esista più.

E allora forse, fuori, tanti finiscono per accettare che tutto sia come si vede per televisione, che nessuno faccia niente per cambiare le cose, che lo straniero sia portatore assoluto del male, che i detenuti debbano stare in carcere a vita, che lo Stato non punisca abbastanza, che ci vogliano più carceri. E questo è un clima che preoccupa i più poveri e più disagiati, compresi anche tanti di noi detenuti, ma non porta a risolvere i problemi e soprattutto non fa stare realmente meglio. Io oggi sono fuori dalla società, devo ripagare lo Stato e i cittadini per averne violato la legge, mi è stata comminata una pena e con essa la privazione della libertà, ma mi chiedo: sarà libertà vera la mia, se una volta pagato il mio debito dovrò confrontarmi con persone che di me e della loro libertà hanno paura?

 
 
 

Nicola ci ha provato

Post n°72 pubblicato il 27 Febbraio 2008 da geko1963
 

 

Verso le cinque del mattino mi ha svegliato un rumore che proveniva dalla cella accanto alla mia, pensavo che fosse Ivano che facesse le ore piccole e che fosse inciampato in qualche cosa. Ho ripreso a dormire ma subito dopo mi sono svegliato di nuovo e ho sentito gridare una guardia: - Allarme rosso, allarme rosso. - Ivano ci sei? Ivano mi ha risposto subito: - Ci sono, ci sono, non sono io, ci ha provato Nicola, si è impiccato. Si sono affacciati dallo spioncino tutti gli altri compagni a gridare: - Presto dottore! - Sbrigatevi, non respira! - Infermiere, infermiere, sta morendo! - È bianco come un morto! - Appuntato, appuntato!

Dopo un po’ arriva il dottore di corsa prendendo Nicola con la barella e lo portano via. Lo vedo passare, gli occhi chiusi, un segno al collo, il viso da morto. Non so cosa auguragli, se salvarsi o morire, se si salverà ci rimarrà male e ci riproverà di nuovo. È un ergastolano, è malato e invalido, io al posto suo mi arrabbierei se non riuscissi neppure a morire, forse è meglio per lui che muoia senza soffrire. Poi penso che l’altro giorno era con me nella sala colloqui e l’ho visto insieme a sua moglie e ai suoi figli, ci ripenso e spero che si salvi per l’amore della sua famiglia. Dopo qualche ora ci comunicano che si salverà.

È ufficiale, Nicola si salverà.

È tornato Nicola dall’ospedale

 

Carmelo Musumeci dal carcere di Spoleto

, sono andato a stringergli la mano e gli ho detto: - Alcuni pensano che gli ergastolani sono dei morti viventi, facciamogli vedere che si sbagliano e che siamo ancora vivi, dimostriamo che la vita è sempre più forte della morte.
Spero che non ci provi e se ci riproverà spero che questa volta ce la faccia. È assurdo vivere senza un fine pena…. si può farlo solo per amore o per pazzia.

 
 
 

IL MITO

 

HASTA SIEMPRE COMANDANTE GUEVARA

Il potere ha sempre paura delle idee e per arginare la lotta degli sfruttati comanda la mano di sudditi in divisa e la penna di cervelli sudditi. Assassinando vigliaccamente il Che lo hanno reso immortale, nel cuore e nella testa degli uomini liberi. Negli atti quotidiani di chi si ribella alle ingiustizie. Nei sogni dei giovani di ieri, di oggi, di domani!     

 

ART.1 L. 26 LUG 1975, N. 354

Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono copnsiderati copevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reiserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti. 

ART. 27 COSTITUZIONE

La responsabilità penale è personale.

L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalla legge (La pena di morte non è più prevista dal codice penale ed è stata sostituita con la pena dell'ergastolo)

 

TESTI CONSIGLIATI

Sociologia della devianza, L. Berzano e F. Prina, 1995, Carocci Editore.
Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza,
E. Goffman, Edizioni di Comunità, 2001, Torino.
Condizioni di successo delle cerimonie di degradazione
, H. Garfinkel.
Perchè il carcere?,
T. Mathiesen, Edizioni Gruppo Abele, 1996, Torino.
Il sistema sociale,
T. Parsons, Edizioni di comunità, 1965, Milano.
Outsiders. saggi di sociologia della devianza,
Edizioni Gruppo Abele, 1987,
Torino. La criminalità, O. Vidoni Guidoni, Carocci editore, 2004, Roma.
La società dei detenuti, Studio su un carcere di massima sicurezza,
G.M. Sykes, 1958. Carcere e società liberale, E. Santoro, Giappichelli editore, 1997, Torino.

 

 

 

 


 

 

 

 

 
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