LIVINGSTONE BORE

I


L'astice Gianni era morto. Schiantato con la sua piccola SMART fortwo cabrio sull'Aurelia, Là dove i lavori stradali erano segnalati ossessivamente ma non abbastanza per lui. Aveva preso il volo lungo un dosso e s'era catapultato in mezzo ai campi, schiacciandosi come una scatoletta. C'erano volute sei ore per tirare fuori quello che restava della sua alta e malinconica figura dalle lamiere. Francesca m'aveva telefonato alle quattro di notte mentre sognavo che il mio vecchio paesino era stato invaso dagli extraterrestri. Le avevo risposto insonnolito e intontito mentre lei inondava il pavimento di lacrime e l'aria di singhiozzi. Non riuscì a dire nulla e la lasciai parlare con la voce rotta. Parlava di tutto: che Gianni non era un drogato, che era impensabile un colpo di sonno all'ora dell'incidente etc. etc. La sua tesi, chiara e tonda, era che avesse avuto l'intenzione di suicidarsi e che, alla fine avesse realizzato il suo progetto. Riuscì a interromperla solo dopo quindici minuti di lamenti altissimi: "Ma Francy, non eri tu a dirmi che talvolta tirava pesante di cocaina e che soffriva di deprivazione del sonno?" "Chi?" Urlò di rimando "Chi ti ha propinato simili stupidaggini? OK, gli è capitato (come a tutti) di fare qualche cazzata ma s'era messo in riga negli ultimi tempi. Si dedicava al giardinaggio, allenava una squadra di pulcini di football, Usciva pochissimo e solo per i corsi di liscio." Tutto il passato, più o meno turbolento, era alle spalle. Il Gianni che avevo conosciuto anch'Io era un flebile ricordo del passato. Già il passato. Mentre Francesca insisteva a martellarmi i timpani con il suo giusto dolore  la memoria andava al marzo di tre anni prima, quando, inforcata la freccia rossa ero piombato nella città eterna con il mio bagaglio. Lei e Gianni erano ampiamente separati da due anni, ma, come spesso succede nei grandi amori (o negli amori che non sanno riconoscersi piccoli) continuavano a giocare a rimpiattino. A rincontrarsi, a rimettersi insieme, a lasciarsi, a fare l'amore saltuariamente, a scheggiarsi, odiarsi e amarsi. Io ero reduce da una balzana storia con una ragazza di Lauregno, mezza tedesca, e non mi parve vero di prendere la palla al balzo e fiondarmi verso Roma per liberare il cervello dall'apatia, dalla noia e dall'insicurezza. Sentivo forte il bisogno di ficcarmi nei guai proprio mentre lasciavo dietro la schiena una relazione asfittica e grottesca, fatta di rari incontri e di altrettanto rada felicità. Francesca l'avevo conosciuta su una delle piattaforme per blogger e avevamo legato istantaneamente. Lei era un fiume in piena, un tornado, un uragano tropicale. Io la ascoltavo e mettevo in fila le parole giuste. Mi raccontò tutto della sua vita in dieci minuti di scambi epistolari e poi per altri trenta si dava mazzate in testa per la sua dabbenaggine. "Io l'ho tirato su dalla merda" infieriva sulla tastiera "Poi, un bel giorno, mi ha confessato di avermi tradito con Eva, una mia amica rumena. è scoppiato il macello e l'ho cacciato da casa a calci nel culo strepitando lungo tutte le scale. Nemmeno gli ho dato il tempo di portarsi via nulla che non fosse la sua auto (all'epoca possedeva una opel astra). Ha sgommato ed è scomparso alla mia vista mentre Io crollavo sul divano frantumata. Ma lasciamo perdere le mie magagne, tu che fai nella vita?" Le raccontai del mio lavoro presso il museo del risorgimento a Trento e di come avessi alcuni blog su cui pubblicavo le mie liriche. Ero un tipo tranquillo ma insoddisfatto. Mi occupavo delle scolaresche che giungevano al castello e di regolarne la burocrazia di viaggio. Però ambivo a qualcosa di diverso. Ricordo, allora avevo 37 anni.(Continua)