Creato da lost4mostofitallyeah il 04/03/2009
CON QUEL TRUCCO CHE MI SDOPPIA LA FOCE
 

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V

Post n°284 pubblicato il 02 Novembre 2016 da lost4mostofitallyeah







L'Astice V

Mi asciugai e aprii il trolley cominciando a mettere ordine. Ma, tanto quanto Gianni e Francesca erano stati ordinati, così io ero approssimativo e indolente. La doccia mi aveva rinfrancato ma non al punto di essere reattivo e brillante; buttai le mie cose sul letto e indossai un paio di jeans con una maglietta bianca, poi calzai delle comode ciabatte. Mi fissai allo specchio e mi trovai appannato ma gradevole: la testa perfettamente rasata, gli occhi nocciola, la bocca carnosa senza essere volgare, le orecchie simmetriche, la corta barba curata. Insomma mi sentivo piacente, ma per quale ragione? Non intendevo, ovviamente, sedurre Francesca, né ero arrivato a Roma per girare i locali e trovarmi una provvisoria compagna d'avventura. MI sedetti sul bordo del letto e riflettei: ero a un punto di svolta - non più giovane ma nemmeno maturo, carico di energie ma con una strana accidia alla bocca dello stomaco -  ero alla ricerca di sensazioni e della vita degli altri perché la curiosità per la mia la stavo esaurendo. Sulla carta non mi mancava nulla, un bel lavoro in mezzo alla storia e alle documentazioni ancora scritte su pagina, una salute ragionevolmente stabile, una casa gradevole, un'automobile, un fratello e dei genitori ancora vivi, una relazione conclusa di fresco ma senza rimpianti o grosse recriminazioni. Insomma, si poteva affermare che il mio unico problema era la noia, e quando avevo saputo della morte di Gianni una potente scarica elettrica aveva attraversato il mio cervello. La Morte: l'unica situazione che potesse ancora scuotermi. Il pensiero dell'uomo che con la sua piccola SMART fortwo cabrio andava a schiantarsi contro il guard-rail sull'Aurelia mi bruciava sulla pelle e mi faceva provare persino un po' di invidia. Stracarico di rabbia e violenza repressa Gianni Costantini non aveva alzato il piede dall'acceleratore ed era finito direttamente tra le braccia degli angeli. si era eternato, mentre noi, miserabili mortali, continuavamo a lottare tra bolli e riscossioni, incombenze e rarissime gioie. Un piccolo tassello della ragione per cui ero venuto a Roma si faceva più chiaro; cercavo il segreto di quella volontà che aveva spinto l'uomo a non alzare il piede dall'acceleratore, ad andare a 180 all'ora incontro a quello che gli sprovveduti chiamano il proprio destino e che invece si chiama atto di supremazia. L'unico che ci sia concesso in vita. Rimasi incerto e stranito mentre prestavo orecchio a quello che succedeva nel salotto principale: Asia doveva essere uscita dalla sua stanza insieme a Petra e stava discutendo con la madre ad alta voce. Intuii che voleva uscire e Francesca era contraria ma che ben presto avrebbe ceduto. Infatti fu questione di qualche minuto che la porta principale sbatté con violenza e in tutto l'appartamento si fece un silenzio di tomba. Decisi che non potevo starmene rinchiuso nella stanza a tempo indeterminato e accostai la porta per sgattaiolarne fuori. Nel soggiorno la mia amica stava stravaccata sul divano con i piedi appoggiati a una sedia e una bottiglia di whisky aperta sul tavolino, provvista, a fianco, di due bicchieri. Immaginai che sarebbe stata una lunga notte e mi accostai ciabattando piano. Per cortesia mi tenni lontano dalla bottiglia e mi sedetti il più discosto possibile anche se il liquore scozzese esercitava il suo fascino ipnotico in pieno dispiegamento. 







(Continua)








 
 
 

IV

Post n°283 pubblicato il 27 Ottobre 2016 da lost4mostofitallyeah








L'Astice IV

Salimmo nell'appartamento spazioso che possedeva e fin dall'inizio il profumo di pulito mi prese alla gola. Compresi che era un rimasuglio del passaggio di Gianni. Lui e la sua mania dell'igiene. Si poteva dire che era lui la donna di casa anche dopo che si erano separati da tre anni: passava spesso da lì, facevano occasionalmente all'amore e poi lui si dava da fare a passare a brusca e striglia tutto il luogo, specialmente i due bagni. Era un rupofobo, una persona terrorizzata dalla sporcizia, e agiva di conseguenza. Tanto quanto Francesca era semplicemente ordinata lui era maniacalmente compulsivo e non abbandonava il luogo fino a quando non era splendente e tirato a lucido. Asia riconosceva subito il passaggio del padre e diceva tra il malizioso e il provocatorio: "è arrivato il babbo?" Ma ormai Francesca non ci faceva più caso. Malgrado il divorzio Gianni non era mai uscito veramente da quel bell'appartamento. Con la sua personalità decisa e il suo carattere forte si era imposto anche dopo la ribellione della sua ex moglie. Faceva irruzione in casa con un mazzo di rose e una bottiglia di veuve clicquot, qualche regalo per la ragazzina e tornava a imporsi come il sultano della situazione. La donna lo odiava per questo ma non riusciva a staccarsene; i suoi modi decisi e sbrigativi, il suo cavarsela in ogni situazione avevano fatto in modo che il legame fra di loro non si fosse mai spezzato del tutto. Lei continuava ad avere bisogno di lui: per lavoretti di manutenzione, per inghippi legali e burocratici e, chissà, forse anche per quel po' di amore a cui non si riesce mai a rinunciare. Ci sedemmo in salotto e lei mi versò un bicchiere di tequila insieme a una altro di acqua. Conosceva le mie abitudini ed era quello che ci voleva dopo un viaggio così stressante. Ingollai la tequila d'un fiato e poi il bicchiere d'acqua per attutire il colpo. Non rimpiansi nemmeno l'assenza di sale. Il calore colò nelle vene e mi fece stare meglio, un piacevole senso di quiete si impadronì delle mie membra mentre stavo ancora tutto vestito da viaggio sul divano. Potevo sentire il casino della musica di Asia e della sua amica provenire dalla stanza della ragazza, così come il parlare ad alta voce e lo spostare delle sedie. "Come l'ha presa?" Chiesi, appoggiando il cappello sul canapè. Francesca stava trafficando in cucina con gin e limonata e quando tornò aveva già la risposta pronta: "Oh, certo meglio di me. non la senti? Assomiglia a suo padre. Una lacrimuccia e poi si riparte. Spaventosamente cinica. Considera sé stessa, il mondo là fuori non esiste. Una spaventosa energia rivolta unicamente verso l'interno. Poi si era abituata a vederlo più raramente malgrado lui fosse ancora di casa, e le cose, anche quelle belle, dopo un po' stingono. Sapeva che mi ero vista ogni tanto con Andrea, e questo deve averla spinta a considerare sotto un altro punto di vista il rapporto con il padre genetico: se io mi permettevo delle brevi liaisons anche Gianni diventava uno dei pochi ma comunque acqua passata. Peccato che per me non sia stato così e che ci stia soffrendo come una bestia...Ma cosa fai ancora vestito, con il trolley e tutto? Mettiti comodo, là c'è la tua stanza. Sistemati e poi torna alla luce." Sorrisi e mi trascinai verso il mio provvisorio rifugio. Entrai, ed era una stanza per gli ospiti come si deve. Non troppo spaziosa ma confortevole. Aprii le finestre per il ricambio d'aria, poi mi spogliai e mi inoltrai nella micro doccia per un bagno tonificante. Sotto l'acqua tiepida ebbi di che riflettere a lungo: Una donna spezzata da un amore finito, una figlia che era il ritratto sputato del padre e un vecchio amico appena arrivato per portare il suo conforto laico e fraterno durante il periodo di lutto stretto. Mi sentivo spiazzato e fuori posto, non capivo precisamente quale fosse il mio ruolo e mentre le ultime gocce scivolavano dalla testa decisi mentalmente che non avrei fatto nulla se non osservare e comprendere, ero sicuro che altri avrebbero inscenato la tragedia al mio posto.







(Continua)









 
 
 

III

Post n°282 pubblicato il 24 Ottobre 2016 da lost4mostofitallyeah







L'astice III

Ci scambiammo un rapido bacio sulle guance e lei mise subito in moto per togliersi dal formicaio che brulicava intorno alla stazione e ci infilammo in piazza dei Cinquecento e poi su viale Enrico de Nicola e via Volturno. Dopo un po' eravamo sfuggiti alla strozza micidiale del centro della città eterna. Quando fummo in via XX settembre cominciò a parlare; prima a monosillabi quasi inseguisse una frase coerente da esporre con gentilezza, poi sempre più velocemente, con tutta l'urgenza di chi ha tenuto compresso i propri sentimenti troppo a lungo. "Vedi, Joe, ho saputo della notizia da una sua cugina. Nessuno della famiglia stretta che si sia degnato di avvertirmi. Sono stata trattata peggio di un vecchio calzino e ignorata. Eppure sai quanto ho voluto bene a Gianni, quante ne abbiamo passate nel bene e nel male. Ecco, non meritavo un simile atteggiamento. Un po' di rispetto per quella che era stata la moglie del loro figlio. Non lo nego: mi aspettavo una telefonata da Greta. Non subito, certo, ma con il passare dei giorni, e invece mi ritrovo una chiamata sulla segreteria telefonica che mi avvisa che l'uomo con il quale ho condiviso tanto è morto in un incidente stradale. Il modo peggiore per sapere le cose. Squallido! Assolutamente squallido!" Eravamo sulla via Salaria e Francesca iniziava a piangere, Io sino a quel momento non avevo spiccicato una parola. Ero travolto e stanco dopo tutto il viaggio. Girai la testa di lato per osservarla: i capelli castano chiaro da gorgone, gli occhi azzurri segnati da profonde borse, il visetto affilato e gentile giusto infiacchito da qualche piccola ruga, la bocca minuta ingentilita da un discreto rossetto, gli zigomi regolari e la piccola fronte perfettamente liscia. Mi dava tenerezza. Era bassetta e determinata, e mentre le lacrime sgorgavano dalle sue ciglia alternativamente non smettevo di pensare a quanto le volessi bene. Proprio non riuscivo a immaginarmi in un letto con lei e già vi intuisco lettori, a pormi la fatidica domanda: si può essere giusto amici di una donna con cui si condivide praticamente tutto? Così, immerso nei miei pensieri non mi ero accorto che eravamo arrivati al quartiere africano, dove lei abitava, in via Tripoli. Francesca mise la macchina nel piccolo parcheggio interno del condominio ma non accennò ad aprire la portiera. Non voleva farsi trovare da sua figlia Asia, undicenne in condizioni scarmigliate. Così si ricompose mentre mi lanciava occhiate birichine in tralice, quasi giocasse al vecchio trucco della seduzione. Era un atteggiamento naturale ma che non toccava né lei né me. Semplicemente avveniva ed era parte dell'eterno rapporto fra uomo e donna. Fui Io allora ad aprire la portiera dalla parte del passeggero mentre le dicevo: "Sai bene di non essere mai stata amata dalla famiglia di lui." Erano le mie prime parole e suonavano come un rimprovero. A lei caddero le braccia ma non venne meno la lingua: "Abbiamo combattuto contro tutto e tutti, poi, alla fine, lui ha ceduto. Ancora debbo capire perché si è messo con quella rumena. Voi uomini siete strani: proprio nel momento in cui sembravamo uscire dai guai, scopro che mi ha tradito. Anzi, me lo dice lui, tranquillamente. Sembra quasi che non riusciate a stare in una situazione di stabilità e amore, sentite il dovere di ficcarvi nei guai. Mi piacerebbe capirne la ragione." La ascoltai, poi, appoggiando la testa al finestrino le mormorai: "Si chiama cupio dissolvi. L'uomo rammenta molto bene le sue radici di cacciatore e guerriero e l'abitudine di morire in uno scontro per lui è inveterata. Pace, tranquillità, quiete non significano nulla se paragonati al turbine della pugna, all'adrenalina del rischio, l'uomo è un animale estremamente competitivo, deve conquistare spazi. Ma adesso andiamo. Tua figlia è in casa?" "Dove vuoi che sia? Ha undici anni. L'ho lasciata con un'amica, Petra, saranno nella sua stanza."







(Continua)









 
 
 

II

Post n°281 pubblicato il 18 Ottobre 2016 da lost4mostofitallyeah








L'astice II

Il viaggio fu abbastanza rapido con cambio batticuore alla stazione di Bologna. Tutti a correre per non perdere la coincidenza e maleducazioni assortite, poi la lunga distesa del nastro d'acciaio attraverso le colline toscane e le lievi alture delle campagne laziali. Il clima che si faceva più dolce e l'orizzonte che arrivava a toccare il sole, rimpicciolito come una palla da biliardo. Si poteva persino odorare il mare se si fosse voluto e la città eterna cominciava a dilatare le sue dita grassocce per accoglierci nella stretta. Ricordo l'immensa periferia urbana  ma le luci stavano già calando e quindi si distingueva solo il dipanarsi dei graffiti e delle ruvide casette ferroviarie, nonché il reticolo labirintico degli scambi con il loro inastarsi di precisione. Ho sempre adorato l'arrivo in una nuova città, più di quanto mi abbatta l'arrivederci alla mia origine. Ho un bisogno fisiologico di stimoli e nuove impressioni, caratteri diversi dei popoli e architetture sorprendenti o banali, purché diverse. è la mia maschera d'ossigeno, la mia bombola di scorta che inalo con voluttà e piacere. Non credo a chi mi sussurra che l'uomo si modifica poco nel corso della sua vita e rimane sostanziale prigioniero dei suo primi cinque anni. No...non vi credo. Ho vissuto sulla mia pelle il turbine creato da presenze nuove e inattese, sono stato deragliato da incontri che non avevo messo in conto e piacevolmente incantato da sorprese in forma umana nelle quali non avrei mai sperato a mente lucida. Ritirarsi nel guscio significa abbandonare ogni speranza, incartapecorirsi, lasciare perdere quella che è la prima caratteristica umana: la socialità. Siamo uomini in quanto capaci di cambiare di modificarci ed è un precipuo segno terrestre quello di diventare creta modificabile sotto il tocco altrui. Riconoscere la propria friabilità ed essere pronti a gettare la corazza dei pregiudizi e delle prevenzioni  quando un soffio gentile alita su di noi e ci dona nuova vita. Così ero allestito a sentirmi mentre imboccavamo il giusto sentiero per Roma Termini e, sferragliando, ci accingevamo a concludere la nostra corsa. Quando, fra stridore dei freni e oscillazioni ci apprestavamo a scendere dal convoglio una vibrazione di rapida gioia mi percorse tutto, come all'inizio delle grandi avventure. Ero arrivato! E la babele di quella Metropoli era pronta a rapirmi e ad insegnarmi nuovi, inattesi linguaggi. Scesi con il sole negli occhi malgrado fosse già calato da un paio d'ore. Spinsi il mio trolley con decisione sino a uno degli ingressi dov'ero d'accordo di aspettare Francesca e mi misi in attesa. Concionare di civiltà multiculturale può sembrare tronfio e da tromboni ma in quei momenti ebbi l'esatta impressione di essere al centro di un fuoco dal quale si dipanavano molteplici lingue: sikh, cingalesi, cinesi, giapponesi, nigeriani, ghanesi, marocchini, algerini, pakistani, indiani, filippini, senegalesi, siriani, libici mi ruotavano attorno insieme ad alcune brutte grinte locali e agli usuali tossici in opera di questua. Era tardi e la stazione cominciava comunque ad assumere una grinta poco raccomandabile con il trascorrere di ogni minuto. Non mi allontanavo un attimo dal mio trolley e posavo lo sguardo curioso sui personaggi del crepuscolo che iniziavano a popolare il posto: clochard con i carrelli della spesa, ubriaconi, borseggiatori, pattuglie di polizia, corpi di vigilanza privata, ultimi ritardatari, gruppetti di giovinastri in cerca di rogne e me stesso piazzato come un palo telegrafico poco innanzi ai gradini che digradavano sulla grande piazza colma di clacson. Ad un tratto mi giunse una telefonata che mi implorò di spostarmi verso una tavola calda thailandese alla mia sinistra. Era Francesca e in poco minuti ero al sicuro dentro la sua utilitaria in tripla fila.






(Continua)







 
 
 

I

Post n°280 pubblicato il 17 Ottobre 2016 da lost4mostofitallyeah









L'astice

Gianni era morto. Schiantato con la sua piccola SMART fortwo cabrio sull'Aurelia, Là dove i lavori stradali erano segnalati ossessivamente ma non abbastanza per lui. Aveva preso il volo lungo un dosso e s'era catapultato in mezzo ai campi, schiacciandosi come una scatoletta. C'erano volute sei ore per tirare fuori quello che restava della sua alta e malinconica figura dalle lamiere. Francesca m'aveva telefonato alle quattro di notte mentre sognavo che il mio vecchio paesino era stato invaso dagli extraterrestri. Le avevo risposto insonnolito e intontito mentre lei inondava il pavimento di lacrime e l'aria di singhiozzi. Non riuscì a dire nulla e la lasciai parlare con la voce rotta. Parlava di tutto: che Gianni non era un drogato, che era impensabile un colpo di sonno all'ora dell'incidente etc. etc. La sua tesi, chiara e tonda, era che avesse avuto l'intenzione di suicidarsi e che, alla fine avesse realizzato il suo progetto. Riuscì a interromperla solo dopo quindici minuti di lamenti altissimi: "Ma Francy, non eri tu a dirmi che talvolta tirava pesante di cocaina e che soffriva di deprivazione del sonno?" "Chi?" Urlò di rimando "Chi ti ha propinato simili stupidaggini? OK, gli è capitato (come a tutti) di fare qualche cazzata ma s'era messo in riga negli ultimi tempi. Si dedicava al giardinaggio, allenava una squadra di pulcini di football, Usciva pochissimo e solo per i corsi di liscio." Tutto il passato, più o meno turbolento, era alle spalle. Il Gianni che avevo conosciuto anch'Io era un flebile ricordo del passato. Già il passato. Mentre Francesca insisteva a martellarmi i timpani con il suo giusto dolore  la memoria andava al marzo di tre anni prima, quando, inforcata la freccia rossa ero piombato nella città eterna con il mio bagaglio. Lei e Gianni erano ampiamente separati da due anni, ma, come spesso succede nei grandi amori (o negli amori che non sanno riconoscersi piccoli) continuavano a giocare a rimpiattino. A rincontrarsi, a rimettersi insieme, a lasciarsi, a fare l'amore saltuariamente, a scheggiarsi, odiarsi e amarsi. Io ero reduce da una balzana storia con una ragazza di Lauregno, mezza tedesca, e non mi parve vero di prendere la palla al balzo e fiondarmi verso Roma per liberare il cervello dall'apatia, dalla noia e dall'insicurezza. Sentivo forte il bisogno di ficcarmi nei guai proprio mentre lasciavo dietro la schiena una relazione asfittica e grottesca, fatta di rari incontri e di altrettanto rada felicità. Francesca l'avevo conosciuta su una delle piattaforme per blogger e avevamo legato istantaneamente. Lei era un fiume in piena, un tornado, un uragano tropicale. Io la ascoltavo e mettevo in fila le parole giuste. Mi raccontò tutto della sua vita in dieci minuti di scambi epistolari e poi per altri trenta si dava mazzate in testa per la sua dabbenaggine. "Io l'ho tirato su dalla merda" infieriva sulla tastiera "Poi, un bel giorno, mi ha confessato di avermi tradito con Eva, una mia amica rumena. è scoppiato il macello e l'ho cacciato da casa a calci nel culo strepitando lungo tutte le scale. Nemmeno gli ho dato il tempo di portarsi via nulla che non fosse la sua auto (all'epoca possedeva una opel astra). Ha sgommato ed è scomparso alla mia vista mentre Io crollavo sul divano frantumata. Ma lasciamo perdere le mie magagne, tu che fai nella vita?" Le raccontai del mio lavoro presso il museo del risorgimento a Trento e di come avessi alcuni blog su cui pubblicavo le mie liriche. Ero un tipo tranquillo ma insoddisfatto. Mi occupavo delle scolaresche che giungevano al castello e di regolarne la burocrazia di viaggio. Però ambivo a qualcosa di diverso. Ricordo, allora avevo 37 anni.








(Continua)








 
 
 

Guarda che luna. Capitolo quattordicesimo.

Post n°279 pubblicato il 28 Maggio 2016 da lost4mostofitallyeah






Mi sentì mancare. tutto il quartier generale di mio padre aveva gli occhi puntati nella mia direzione. Nemmeno mi chiesi dove fosse finito Freddie Eberhard. Forse si era fatto piccolo come un pugno e tentava di dileguarsi. Lì, in piedi, la lingua mi si era inceppata e sentivo di tremare vistosamente mentre nessuna giustificazione mi affiorava alla mente. Il mio cervello aveva fatto tabula rasa. Quando furono trascorsi alcuni minuti punteggiati dagli scoppi vicini della nostra artiglieria mio padre tornò a sollevarsi, e con la calma dei vincitori disse :"Non hai nulla da aggiungere? Significa che quello che ho detto è preciso?" Avevo la gola come carta vetrata ma, facendo uno sforzo sovrumano, riuscì a mettere in ordine delle parole di contraddittorio :"Freddie Eberhard è un combattente valoroso e un ottimo soldato. Posso solo dire che mi ha salvato la vita, generale." Ciò non toglie che sia un disertore, non è così generale Clerici?" Mi si gelò il sangue quando vidi spuntare da dietro un gruppetto di alti graduati la sagoma traccagnotta e baffuta del comandante dei coloniali. "Abbiamo perso contatto nelle prime ore della notte con il XVI reggimento Togo. Solo da poco tempo abbiamo potuto constatare con certezza l'effettivo abbandono delle proprie postazioni da parte del suddetto reggimento comandato dal capitano Freddie Eberhard e il passaggio al campo avverso. buona parte dei disertori è stato rastrellato e passato immediatamente per le armi. Mancava giusto all'appello il capo di tutta la macchinazione." Sentì un piccolo tumulto alle mie spalle e compresi che il mio compagno era stato immobilizzato e reso inoffensivo. Le ginocchia mi cedettero e stavo per finire diritto al suolo se non avessi avuto la prontezza di appoggiarmi al tavolo da campo. "Mio padre si era acceso con noncuranza un corto sigaro grigio :"Portatelo nello spiazzo e fucilatelo." Udì una massa di uomini armati transitarmi a fianco e dirigersi verso lo squallido muro periferico di una vecchia fabbrica, già macchiato di sangue. "Fucilerai anche me?" trovai il coraggio di biascicare. "Non ne varrebbe la pena, figliolo. Tu sei un imbecille, non un nemico. Sarà sufficiente degradarti a soldato semplice e mandarti in una compagnia disciplinare. Tranquillo, non sminerai i campi con le tue preziose gambe. Ormai quella fase è superata e la zona circostante è stata messa in sicurezza. Però almeno capirai cosa significa obbedire agli ordini e togliersi certe fantasie dal cervello." Fu proprio in quel momento, sotto la sferza di quelle parole di fuoco, che qualcosa scattò nella mia mente facendomi vedere rosso. Afferrai la prima pistola abbandonata sul tavolaccio e aprì il fuoco a casaccio in direzione di mio padre. Come seppi in seguito riuscì a sparare tre colpi mirando al bersaglio grosso, ma ero talmente confuso che non uno dei proiettili arrivò neppure a sfiorarlo. Venni sommerso da una montagna di soldati e picchiato per bene, senza riguardi. Quando tornai eretto mi resi conto di essere una maschera di sangue. Da una distanza che mi sembrava remotissima udivo gli ordini che decretavano la fine di Freddie Eberhard e del sogno del XVI reggimento Togo. "Caricate - puntate -fuoco!" Poi arrivò la scarica mentre venivo trascinato fuori dal tendone e caricato su una camionetta. Nemmeno feci in tempo ad augurare a mio padre non una, ma mille morti. Adesso scrivo dal manicomio criminale di Monza, dove sconto una condanna a sei anni di reclusione per sabotaggio e tentato omicidio. La carta non mi manca e posso scrivere poesie colme di nostalgia per mia moglie, la mia piccolina e mia madre. Ho pure riempito le mura di questa galera con le mie invocazioni. Mio padre Prospero Defant è stato promosso a capo di tutto il raggruppamento occidentale delle forze regolari. Non dubito che a favorirlo sia stato anche l'atteggiamento tenuto nei confronti del figlio: fermo e deciso. Di Freddie Eberhard e del XVI reggimento Togo non è rimasto più nulla. Sbandato è stato sostituito da un plotone di militari ivoriani. Ma Io lo ricordo bene e posso ancora oggi testimoniare che non vi fu gruppo armato più efficace, coerente, libero e determinato di quel pugno di orgogliosi negri.





(Fine)






 
 
 

 
 
 

Guarda che luna. Capitolo tredicesimo.

Post n°278 pubblicato il 23 Maggio 2016 da lost4mostofitallyeah

 







Arrivammo a Trescore Cremasco che la luna si stava dissolvendo nel cielo. Ormai era un altro giorno e i ricordi della notte appena trascorsa galleggiavano come frammenti di sogno sull'aria, spargendosi ovunque per cercare rifugio dall'invadenza e dalla supremazia dell'alba umida. Mi presentai al quartier generale di mio padre, tentando in qualche maniera di averne accesso. Poi, in un attimo di scoramento, mi girai a guardare il capitano Eberhard e la sua giacca di caporale sloveno, poi fissai la mia di sergente dello stesso reparto. Avevamo trovato mio padre ancora, sorprendentemente, dove ci era stato segnalato. Pensavo che fosse avanzato con l'impeto dell'offensiva ma eccolo lì, invece, seduto su una sedia di campo, impegnato ad ascoltare i rapporti di colonnelli, capitani e generali. Fu una buona mezzora dopo che incrociai il suo sguardo, e cominciai a tremare irrazionalmente. Ancora oggi non capisco se si trattasse per la mia personale vergogna di essermi presentato dinanzi a lui in quelle miserevoli condizioni o la paura per il destino del mio nuovo compagno Freddie Eberhard, capitano di un reggimento di punta del nostro esercito, passato al nemico nelle ore calde della battaglia. Prospero Defant si alzò torreggiando su tutti gli altri personaggi e, a grandi passi, si avvicinò nella mia direzione, poi lanciò un'occhiata all'uomo che mi stava alle spalle. "è stato perquisito?" Chiese duramente. Alcuni membri del suo entourage annuirono. "Che ci fai con questo tizio?" Mi domandò con grinta "è da stanotte che sei sparito e non si sa nulla di te." "Avrei voluto urlargli in faccia la verità, che ero stufo di quella guerra, che non vedevo l'ora di rivedere la mia compagna, mio figlio, mia madre, e levarmi di torno da quella storia di campi minati, linciaggi, feriti e morti. Invece, bisbigliando, gli rivelai che mi ero spinto erroneamente oltre le linee avversarie ed ero stato fatto prigioniero, fino alla liberazione alle prime ore dell'alba. Mio padre indicò Freddie Eberhard alle mie spalle :"è stato lui a farti prigioniero?" Io sorrisi. "Ti pare possibile che mi trascini dietro il mio sequestratore? No, Lui è Freddie Eberhard, capitano del valoroso XVI reggimento Togo. Ha provveduto a mettere in fuga i senegalesi del comandante Leblanc, portando così alla mia liberazione. "Senegalesi di Leblanc? Nel V settore? Mi stai prendendo in giro, figliolo. Da quelle parti nemmeno se n'è vista l'ombra." "Posso essermi sbagliato" Replicai, deglutendo saliva. "Di notte tutti i gatti sono neri." Prospero Defant sorrise e tornò a sedersi sulla seggiolina da campo :"Te la racconto Io una bella storia, figliolo. Tu intendevi imboscarti e ti sei imbattuto nelle file del XVI reggimento Togo che aveva appena disertato per passare con gli Irregolari. A loro non era parso vero di avere il figlio del generale Defant fra le loro grinfie e...il resto me lo racconterai tu, con calma."





(Continua)






 
 
 
 
 
 

Guarda che luna. Capitolo dodicesimo.

Post n°277 pubblicato il 19 Maggio 2016 da lost4mostofitallyeah

 




"Hanno scoperto tutto: si tolga quella giacca, sottotenente Defant. Le risulterà più salutare." Feci come mi consigliava non prima di avergli suggerito la stessa cosa. Lui abbozzò e si tolse il panno gettandolo al lato della strada. Poi ci avviammo senza più speranze e con un oscuro presentimento nel cuore. Ogni tanto nel nostro cammino verso le retrovie incrociavamo cadaveri conosciuti del XVI reggimento Togo: passati rapidamente per le armi come disertori. Era un atroce peccato vedere così validi combattenti gettati alla rinfusa l'uno sopra l'altro, nelle pose più oscene che la morte improvvisa aveva deciso per loro. A un certo punto del nostro cammino ci imbattemmo nel sergente Dakwaafi, o in quello che ne era rimasto. Stava seduto con la schiena eretta appoggiata a un albero, ma la testa gli era stata spiccata dal busto e messa in grembo, giusto sotto la scritta "disertore" scarabocchiata su un cartone con un pennarello nero. Non so perché ma mi venne da pensare al ragazzo che Dakwaafi  aveva strangolato con le sue mani per una questione di irregolarità a poker. E stupidamente pensai "Quello che dai è quello che ricevi." Per quanto riguarda il mio compagno d'avventura, ormai non reagiva più. Aveva visto abbastanza e ora restava impassibile di fronte alla macabra messinscena del sergente Dakwaafi. "Vada per la sua strada, sottotenente. Temo che il mio destino sia ormai segnato. è inutile che ti rovini la carriera per avere cercato di salvare un disertore. " Non ci riesco, Freddie. è questa guerra che è sbagliata, non gli uomini che la combattono." Lui non rispose e recuperammo due giacche quasi intonse da un mucchietto di cadaveri di regolari. "Che intendi fare?" "Arrivare al quartier generale di mio padre e perorare la tua causa. Quante battaglie avete combattuto? In quante occasioni vi siete distinti eroicamente? Tutto questo non può finire in una latrina per un gesto avventato degli ultimi giorni di guerra." Eberhard sorrise stancamente. "Allora conosci tuo padre meno di quanto lo conosca Io. è un individuo d'acciaio. Sarai fortunato se non ci farà impiccare alla stessa corda." Sputai ostentatamente a terra mentre a dai due lati della carreggiata non si interrompeva il flusso dei militari in marcia. "Mio padre mi deve molto." Urlai per farmi sentire nel frastuono." "Credi davvero che salverà un negro disertore per la tua bella faccia. Povero illuso!" "Mio padre è a Trescore Cremasco. Mettiamoci in cammino." "Può essere che sia molto più avanti, ormai." Ero d'accordo con lui ma dovevamo appigliarci a qualcosa. "Almeno in quel paese ci diranno dove si è spostato." Freddie scosse il capo, evidentemente scettico, ma sembrava che le sue energie si fossero svuotate insieme al desiderio di combattere per la propria vita. O forse, chissà, vedeva seriamente nel ragazzo che gli stava a fianco l'ultima speranza per salvarsi la ghirba. Nel frattempo la notte era praticamente giunta al termine e la bizzarria del nostro dirigersi verso le retrovie mentre tutto spingeva in avanti cominciava a dare nell'occhio. Ci salvammo in diverse occasioni spacciandoci per gli ultimi sopravvissuti di una colonna fatta a pezzi che retrocedeva verso qualche punto di raccoglimento, giusto per essere riorganizzata e rigettata nel forno della battaglia. Ovunque chiedevo del generale Defant. Taluni lo davano a Bernareggio, Altri già a Vimercate, altri ancora ad Agrate Brianza. Il fronte si muoveva come un polipo e avvolgeva stritolandoli gli ultimi reparti di irregolari impegnati in una vacua resistenza. Avevo perso ogni pudore e spacciavo a tutti di essere il figlio di Prospero Defant, ma ricevevo in cambio solo informazioni contraddittorie. Nessuno era sicuro dove il grande condottiero si stesse portando. E, in quei momenti, ancora più assurdo mi parve il destino del XVI reggimento Togo che aveva avuto misere pretese di eliminarlo. Ora di quel valoroso reggimento non era rimasto nulla e Io mi trovavo a perorare la causa di uno dei suoi ultimi superstiti. Passato da valoroso e decorato comandante a pallido e incerto ombra delle glorie che furono.





(Continua)







 
 
 
 
 

Guarda che luna. Capitolo undicesimo.

Post n°276 pubblicato il 14 Maggio 2016 da lost4mostofitallyeah

 





Inizialmente camminavamo tenendoci per un braccio e stavamo attenti ad evitare i rialzi sopra le campagne imbevute di acqua: una delle posizioni preferite per i posamine di qualsiasi esercito. Dopo mezzora, però, con i nervi a fior di pelle, decidemmo di staccarci e di avanzare fianco a fianco. La fobia da mina ci stava distruggendo psicologicamente più di quanto riuscisse a fare la bizzarra posizione nella quale ci venivamo a trovare: due militari contrapposti che lottavano insieme per ritrovare delle vie principali che potevano solo significare morte, tradimento o prigionia. Insistemmo con gli stivali nella melma fino a quando realizzammo che non v'erano campi minati in quelle zone. Restava il problema di affrontare le truppe regolari in rapida avanzata o quelle irregolari in disarmo e rotta. "Sappiamo entrambi" Dissi "Quanto può essere pericoloso un esercito sconfitto." "Come un gatto selvatico schiacciato contro una parete e senza più via di fuga." Mi rispose Eberhard. Guardai in alto la luna e mi resi conto la notte stava trapassando nel giorno. Lo feci notare al mio compagno. "Strano" Notò "Che tutti questi avvenimenti siano potuti accadere nel giro di poche ore." "Già. non ce se ne rende conto." A un certo punto ci arrestammo e aguzzammo l'udito. Sentivamo chiaramente il passaggio di forze corrazzate a un centinaio di metri in linea d'aria. "Dal casino che fanno e dalle urla si direbbero dei tuoi compagni in rapida offensiva." Annuì con l'amaro in bocca. Ancora cento metri e mi sarei ritrovato fra gente che conosceva benissimo mio padre e mi avrebbe fatto ponti d'oro. Ma Freddie Eberhard? Come potevo giustificare la sua presenza al mio fianco? Io stesso avevo ancora indosso la divisa del XVI reggimento Togo, e non mi decidevo a liberarmene, per rendere più rischiosa la mia pelle o forse per preservare intatta quella del mio nuovo compagno. Ci avvicinammo comunque a piccole falcate al passaggio dei blindati. Ormai eravamo a una decina di metri dagli stessi e li vedevamo transitare spediti, affiancati dal passo molle della fanteria leggera. Arrestai Eberhard. "Attendiamo che siano passati, poi decideremo il da farsi". Borbottai malcerto. "La verità è che non abbiamo nessun piano. Se la notizia della diserzione del XVI reggimento Togo è trapelata, il nostro destino è alquanto oscuro." "Il mio destino, Defant. A lei non succederà nulla. Potrà sempre dire di essere stato fatto prigioniero e di essere stato agganciato ai Ribelli come ostaggio. Il che non è tanto lontano dalla verità." "è lontanissimo, invece. Ho imparato a rispettarvi e non ho mai tentato la fuga tranne quando è scoppiato il finimondo e ognuno ha cercato di salvare la pelle. Ma prima non vi ho mai messo i bastoni fra le ruote con un atteggiamento ostile. E, sinceramente, ancora non ne so la ragione." Eberhard abbozzò un sorriso stanco mentre le retrovie dalla colonna corazzata  scomparivano dietro al muro di frasche. "Possiamo uscire sulla strada, sono passati." Così facemmo, e proprio mentre scavalcavo la barriera verde un piede calzato mi batté sul viso. Imprecai, non realizzando subito di cosa si trattasse. Fu quando arrivai sulla stradicciola battuta che Freddie mi disse di girarmi e guardare in alto. Lo feci, e quello che vedi fu il tenente Omologoh appeso per la gola a un vecchio larice. Era stato impiccato. I suoi piedi, ancora con gli stivali lucidissimi (com'era sua abitudine) battevano lievemente nella brezza mattutina mentre le mai erano abbandonate lungo i fianchi. "John..." Balbettò il mio compagno. Io mi sedetti su un grosso sasso cercando di mettere insieme una spiegazione logica e una via razionale da quell'orrore.






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Guarda che luna. Capitolo decimo.

Post n°275 pubblicato il 10 Maggio 2016 da lost4mostofitallyeah

 




Non rammento quanto corsi né quando arrestai la mia folle fuga. Ricordo solo che mi ritrovai in una buca poco profonda circondato dalla vegetazione. Ebbi appena il tempo di realizzare questa mia situazione che un'altra persona mi travolse brutalmente, costringendo ad appiattirmi contro il fondo della dolina. Imprecai ad alta voce mentre udivo i colpi di fucile e lo schiocco del mortaio farsi lontani. Mi girai, scostando brutalmente l'altro inquilino e aggredendolo verbalmente. Quando mi accorsi che si trattava del capitano Eberhard mi zittì e lo fissai interrogativamente. Lui aveva ancora il fiatone e solo qualche minuto più tardi ricambiò il mio sguardo feroce e disse fra i singulti :"Maledetti francesi. Penso abbiano mangiato la foglia. Forse Clerici per qualche ragione è venuto a conoscenza della nostra diserzione, o forse pensavano che fossimo sul serio esploratori avversari. Comunque il reggimento Togo adesso è ufficialmente sbandato." E rise, di una risata folle e a gola spiegata, mentre si metteva a sedere sul fondo dell'avvallamento. "Era un'impresa folle, e lei lo sapeva" Replicai inferocito "Per poco non ci abbiamo rimesso la pelle." "Non si preoccupi, Defant." Ed estrasse una pistola di grosso calibro dalla tasca del giubbotto, puntandomela addosso "Noi cacciatori negri non molliamo facilmente la preda quando siamo sulle sue tracce. Vorrà dire che sarà lei stesso a condurmi da suo padre. Ebbi un moto di rabbia ma la canna della pistola a pochi centimetri dalla mia faccia mi fece rabbonire. Ero stanco ed esasperato: la guerra personale del reggimento Togo contro mio padre Prospero Defant, comandante di divisione, mi lasciava freddo e reticente. Pur non amando il mio genitore credevo che non sarei mai giunto a guidare un suo implacabile avversario nel sacro recinto del suo potere. Eppure era quello che stavo continuando a fare, muovendomi a casaccio attraverso le postazioni in movimento delle varie truppe e cercando di evitare uomini che erano stati miei commilitoni fino alla sera prima. Eberhard, sempre tenendomi sotto tiro, spiegò una lacera cartina della Brianza e indicò la cittadina di Trescore Cremasco. "Suo padre è lì con tutto il suo quartier generale. Le mie ultime informazioni erano queste. O ne sa qualcosa più di me, capitano?" Feci un gesto di diniego con la testa e sollevai le braccia come fossi al colmo dell'esasperazione. "La sua guerra è persa, Eberhard! Non se ne rende conto? Dove intende portarmi? A tagliare tutte le linee dei regolari fino a farmi ricevere da mio padre, il quale mi abbraccerà fra le lacrime prima di farsi saltare le cervella dalla
sua pistola? si rende conto che tutto il suo piano è improponibile? Io non sono amato da mio padre fino al punto da essere ricevuto per la mia bella faccia e il mio ruolo di figliol prodigo. Fossimo restati uniti la soluzione poteva anche essere credibile, ma ora, di fatto, siamo due disertori o assenti senza permesso. E dobbiamo muoverci in conseguenza. Abbassi quell'arma e mi dica il suo nome. Se ce la caveremo sarà insieme, e sapere il nome della persona che mi farà ammazzare o condannare alla corte marziale sarebbe già qualcosa." A queste parole l'uomo appoggiò al suolo la Smith & Wesson e mi tese la mano. "Io sono Freddie" Mormorò "Freddie Eberhard." ricambiai la stretta "Il mio nome lo conosci già e pure il fatto che sono il figlio di cotanto padre." Freddie alzò la testa dal nostro rifugio provvisorio e si guardò in giro "Qui intorno è tutto calmo, ma che ne sarà stato dei miei uomini?" "Si saranno dati alla macchia anche loro. Alcuni saranno stati fatti prigionieri, altri ancora saranno morti." Rimarcai tristemente. "E non è improbabile che qui intorno ci siano dei campi minati. anche se pare una zona estremamente tranquilla." "L'unico modo per scoprirlo è muoverci" Replicò Freddie "Non possiamo restare in questo buco fino a guerra finita." Detto questo fece un balzo e fu fuori dalla dolina, Io lo seguì, come si segue un fantasma, o un morto che cammina.





(Continua)







 
 
 
 
 
 
 

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