Creato da Giuranna il 05/07/2008
Blog di Giovanni Giuranna - consigliere comunale della lista civica Insieme per cambiare di Paderno Dugnano

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La scommessa è un blog di Paderno Dugnano Responsabile Giovanni Giuranna (da giugno 2014 consigliere comunale per la lista civica Insieme per cambiare).

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OCCHI DI GUFO PER VEDERE NELLA NOTTE

Post n°2172 pubblicato il 14 Agosto 2011 da Giuranna
 

Bernard Buffet (1928-1999), "Hibou", particolare
Olio su tela 1995 (65 x 54 cm). Asta Christie's (5-5-2011)

 

Traggo dalla rete due spunti interessanti sul tema del "vegliare", "vigilare"...

I monaci antichi avevano una predilezione particolare per gufi e civette. In questi uccelli, il cui grido notturno ci fa rabbrividire, i contemplativi scorgono il simbolo della loro vita. Soprattutto a motivo degli occhi, enormi, capaci di forare il muro della notte.
Questi animali non si limitano ad avere degli occhi grandi. Sembrano essere tutto e soltanto occhi. Il gufo riesce a vedere con una luce cento volte inferiore a quella necessaria per l’uomo.
Per scrutare le tenebre bisogna avere occhi smisurati, gli occhi di Dio stesso. Allora la notte diventa luce….
Così è dei contemplativi: si ostinano a scrutare la notte di Dio. Sono là come sentinelle in attesa, pazientemente appollaiati sulle loro fragili zampe, fino a che si levi il Sole.

[dal sito piccolifiglidellaluce.it]

 

Il secondo testo è parte dell'omelia pronunciata dal monaco Enzo Bianchi, priore di Bose, in occasione della festa della Trasfigurazione (6 agosto).

Il vangelo della trasfigurazione secondo Luca non a caso precisa, quasi aggiungendo qualcosa che mancava al vangelo di Marco e di Matteo: «Pietro e quelli che erano con lui erano appesantiti dal sonno ma, avendo vegliato (diagregorésantes), videro la gloria di Gesù» (Lc 9,32). Appare qui un verbo connesso a gregoreîn, che indica bene questa condizione in cui diventa possibile vedere la gloria di Gesù. C’è un’altra espressione neotestamentaria che ricorre sovente: il verbo néphein, anch’esso esprimente l’idea del vegliare, del vigilare. Questo vocabolario della veglia, della vigilanza, molto ricorrente nel Nuovo Testamento, indica un atteggiamento di chi è presente a se stesso e a Dio, di chi è vigilante, di chi sa combattere e vincere la sonnolenza del corpo ma soprattutto quella del cuore, dello spirito, di chi sa resistere all’intontimento spirituale e vincerlo.
In questa omelia [...]  vorrei proprio sostare su questa necessità della vita spirituale, della vita cristiana e della vita monastica: vigilare, vegliare, gregoreîn, néphein.
Perché il monaco deve vigilare? Innanzitutto per essere un figlio del giorno, un figlio della luce e non un figlio della notte. Si chiamavano così i monaci di Qumran, «figli della luce». E Paolo chiede questo atteggiamento ai cristiani nel mondo: «Voi siete figli della luce e figli del giorno … Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e vigilanti (gregorômen kaì néphomen)» (1Ts 5,5-6), esorta l’Apostolo. Occorre essere figli del giorno, vivere nella luce, essere consapevoli di ciò che si vive e di ciò che ci accade intorno.
C’è un sapere, c’è una conoscenza, una vera intelligenza – non l’intelligenza degli eruditi – che nasce soltanto dalla vigilanza, dall’attenzione. Si tratta di concentrarsi, di vivere una tensione verso, di fissare l’esercizio delle nostre facoltà intellettive e sensitive su qualcosa di preciso. Vigilare, vegliare, è un movimento dell’intero essere umano, corpo e spirito, e per questo non è necessario avere tanti doni. L’intelligenza che nasce dalla vigilanza non è l’intelligenza degli intellettuali, e non ci vogliono doni speciali delle nostre facoltà intellettive. Si tratta di acconsentire a una unificazione personale in cui si è capaci di attendere, di fare attenzione; si tratta di raccogliere tutte le nostre forze per dirigerci interamente verso qualcosa.
È chiaro che in noi c’è una forza che ci fa rifuggire da questa attenzione, che esige sforzo e fatica, dicono i padri monastici. Eppure, senza questa fatica non c’è possibilità di orientamento per tutto ciò che siamo e facciamo [...] Abba Poemen fa della vigilanza la virtù necessaria e al tempo stesso sufficiente: «Non abbiamo bisogno di nient’altro se non di uno spirito vigilante» (Detti dei padri, Serie alfabetica, Poemen 135).
Da questo esercizio quotidiano di vigilanza nasce la capacità di ascoltare anche la voce della propria coscienza, questa voce che purtroppo noi rifuggiamo, perché è più comodo per noi innanzitutto non formare la nostra coscienza in modo adeguato; ma poi ci è più comodo ascoltare la voce degli altri, magari la voce delle autorità, e finire per fare come fanno tutti, senza esporci, non assumendo quelle responsabilità che ci competono e che nessuno può assumere per noi. Perché la nostra coscienza, diceva Tommaso d’Aquino, è sovrana anche rispetto alle autorità della chiesa. [...]
Infine, il monaco deve anche vigilare perché il suo compito è di essere nella chiesa, nella comunità del Signore, una sentinella. Ricordiamo le parole del Signore nel profeta Isaia: «Così dice il Signore: “Sulle tue mura, Gerusalemme, io ho posto delle sentinelle. Per tutto il giorno e tutta la notte non dovranno mai tacere. Voi, sentinelle, risvegliate il ricordo del Signore, non concedete a voi il riposo, ma non concedete riposo neanche al Signore, finché il Signore venga”» (cf. Is 62,6-7). È un brano straordinario: ci sono sentinelle, si dice qui poeticamente, che devono risvegliare il Signore, non devono concedergli riposo, come non danno riposo a se stesse. È molto importante questa passione delle sentinelle, che si manifesta nel vegliare e nella vigilanza. Ma questa è la diaconia dei monaci nella chiesa: giorno e notte attendere il Signore, giorno e notte invocarlo, giorno e notte restare in dialogo con lui, non dargli tregua, non dargli riposo, ricordargli le promesse, anche quando sembra deluderle, finché egli venga. [...]

[Leggi o ascolta integralmente l'omelia di Enzo Bianchi]

 

 

 
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