Protezionismo significa limitare al minimo le importazioni (al limite eliminarle) ed agevolare al massimo le esportazioni.Una politica protezionistica può essere sorretta da una serie di motivazioni economiche, fra le quali proteggere le imprese nazionali dalla concorrenza straniera, salvaguardare l’occupazione ed evitare che i debiti dello Stato verso l’estero crescano.Sono noti, nella letteratura economica, anche gli svantaggi del protezionismo. Gli altri paesi possono non essere d’accordo con una politica che danneggi le loro esportazioni, quindi potrebbero adottare strategie di ritorsione. Inoltre il paese che intende “chiudersi” al commercio internazionale potrebbe non essere in grado di farlo a causa della carenza di alcune materie prime, oppure per mancanza di know-how di produzione.Tuttavia c’è un elemento contro il protezionismo dai più ignorato. L’economista liberista Pascal Salin, in “Liberismo, libertà, democrazia” (Di Renzo Editore 2008) evidenzia che la volontà di un determinato governo di chiudere le frontiere commerciali limita la libertà dei singoli individui di esercitare la pratica del commercio. Egli scrive testualmente: “La storia ci insegna che non ha senso obbligare i popoli a sviluppare rapporti commerciali, perché un aspetto fondamentale della libertà degli individui è quello di agire, di contrattare, di scambiarsi beni, merci”. La libertà va tutelata: se i cittadini vogliono commerciare con l’estero devono essere lasciati liberi di farlo. Se non intendono sviluppare rapporti commerciali con l’estero, non li si deve obbligare.Spesso invece le cose vanno nella direzione opposta. Se un governo intende proteggere un’industria nascente, stabilisce e impone dazi doganali o contingenti all’importazione. Addirittura un governo può essere capace di mantenere in vita un’azienda ormai decotta contro l’opinione di tutti coloro che ritengono sia il caso di smettere di sperperare denaro pubblico per entità commerciali senza futuro. In tali casi si ignora il concetto di specializzazione. Se un Paese non è in grado di produrre determinati beni o servizi, vorrà dire che li acquisterà da altri e si specializzerà in ciò che sa fare meglio e a costi bassi.Talvolta un governo può imporre determinati comportamenti in maniera più sottile. Ad es. se ritiene che le aziende vendano troppo poco all’estero, può incentivarle fiscalmente affinché le esportazioni crescano. Anche questa azione non rispetta la libertà dei singoli cittadini.È molto sentito dalle persone il rischio che l’Europa soccomba di fronte alla concorrenza dei Paesi Emergenti. Secondo Pascal Salin occorre innanzitutto introdurre un nuovo concetto di concorrenza. Non quella classica di aziende concorrenti in quanto producono lo stesso tipo di bene o di servizio, ma concorrenza in senso più ampio, nel senso che tutte le aziende “concorrono” per disporre di una parte del reddito degli stessi consumatori. In questa ottica il timore di perdere posti di lavoro a causa dei produttori cinesi va riesaminato e ricontestualizzato.A tal proposito, Salin scrive: “Sono convinto che i posti di lavoro non vengano sottratti dai produttori cinesi. Immaginate, ad esempio, di trovarvi di fronte ad economie molto flessibili, nelle quali sia possibile per i lavoratori passare da un posto di lavoro ad un altro, da un’attività ad un’altra, da un fattore produttivo ad un altro: non ci sarebbe affatto il problema della concorrenza da parte dei Paesi emergenti. Il problema della nostra economia non è tanto la paura di perdere posti di lavoro, ma il timore fondato che una volta perso il posto di lavoro è difficile trovarne un altro. E perché ci sono queste difficoltà? Per rigidità imposte dai governi dei nostri Paesi, e con questo mi riferisco in modo prioritario all’eccesso di imposizione fiscale e di regolamentazione”.Certo, l’idea che ogni lavoratore contratti liberamente con un determinato datore di lavoro tariffa oraria e condizioni di lavoro appare un po’ estrema, ma oggi molti giovani lavorano esattamente in questo modo. Si avvalgono di contratti di prestazione occasionale o di contratti a progetto oppure usano la partita IVA. Se però il mercato del lavoro fosse completamente deregolamentato potrebbe succedere che gli over 50 finiscano fuori da ogni azienda per essere sostituiti da giovani. Se un imprenditore potesse liberamente licenziare un cinquantenne stanco di ripetere gli stessi movimenti in fabbrica da una vita…….
PROTEZIONISMO, LIBERO SCAMBIO E CONCORRENZA di Walter Caputo
Protezionismo significa limitare al minimo le importazioni (al limite eliminarle) ed agevolare al massimo le esportazioni.Una politica protezionistica può essere sorretta da una serie di motivazioni economiche, fra le quali proteggere le imprese nazionali dalla concorrenza straniera, salvaguardare l’occupazione ed evitare che i debiti dello Stato verso l’estero crescano.Sono noti, nella letteratura economica, anche gli svantaggi del protezionismo. Gli altri paesi possono non essere d’accordo con una politica che danneggi le loro esportazioni, quindi potrebbero adottare strategie di ritorsione. Inoltre il paese che intende “chiudersi” al commercio internazionale potrebbe non essere in grado di farlo a causa della carenza di alcune materie prime, oppure per mancanza di know-how di produzione.Tuttavia c’è un elemento contro il protezionismo dai più ignorato. L’economista liberista Pascal Salin, in “Liberismo, libertà, democrazia” (Di Renzo Editore 2008) evidenzia che la volontà di un determinato governo di chiudere le frontiere commerciali limita la libertà dei singoli individui di esercitare la pratica del commercio. Egli scrive testualmente: “La storia ci insegna che non ha senso obbligare i popoli a sviluppare rapporti commerciali, perché un aspetto fondamentale della libertà degli individui è quello di agire, di contrattare, di scambiarsi beni, merci”. La libertà va tutelata: se i cittadini vogliono commerciare con l’estero devono essere lasciati liberi di farlo. Se non intendono sviluppare rapporti commerciali con l’estero, non li si deve obbligare.Spesso invece le cose vanno nella direzione opposta. Se un governo intende proteggere un’industria nascente, stabilisce e impone dazi doganali o contingenti all’importazione. Addirittura un governo può essere capace di mantenere in vita un’azienda ormai decotta contro l’opinione di tutti coloro che ritengono sia il caso di smettere di sperperare denaro pubblico per entità commerciali senza futuro. In tali casi si ignora il concetto di specializzazione. Se un Paese non è in grado di produrre determinati beni o servizi, vorrà dire che li acquisterà da altri e si specializzerà in ciò che sa fare meglio e a costi bassi.Talvolta un governo può imporre determinati comportamenti in maniera più sottile. Ad es. se ritiene che le aziende vendano troppo poco all’estero, può incentivarle fiscalmente affinché le esportazioni crescano. Anche questa azione non rispetta la libertà dei singoli cittadini.È molto sentito dalle persone il rischio che l’Europa soccomba di fronte alla concorrenza dei Paesi Emergenti. Secondo Pascal Salin occorre innanzitutto introdurre un nuovo concetto di concorrenza. Non quella classica di aziende concorrenti in quanto producono lo stesso tipo di bene o di servizio, ma concorrenza in senso più ampio, nel senso che tutte le aziende “concorrono” per disporre di una parte del reddito degli stessi consumatori. In questa ottica il timore di perdere posti di lavoro a causa dei produttori cinesi va riesaminato e ricontestualizzato.A tal proposito, Salin scrive: “Sono convinto che i posti di lavoro non vengano sottratti dai produttori cinesi. Immaginate, ad esempio, di trovarvi di fronte ad economie molto flessibili, nelle quali sia possibile per i lavoratori passare da un posto di lavoro ad un altro, da un’attività ad un’altra, da un fattore produttivo ad un altro: non ci sarebbe affatto il problema della concorrenza da parte dei Paesi emergenti. Il problema della nostra economia non è tanto la paura di perdere posti di lavoro, ma il timore fondato che una volta perso il posto di lavoro è difficile trovarne un altro. E perché ci sono queste difficoltà? Per rigidità imposte dai governi dei nostri Paesi, e con questo mi riferisco in modo prioritario all’eccesso di imposizione fiscale e di regolamentazione”.Certo, l’idea che ogni lavoratore contratti liberamente con un determinato datore di lavoro tariffa oraria e condizioni di lavoro appare un po’ estrema, ma oggi molti giovani lavorano esattamente in questo modo. Si avvalgono di contratti di prestazione occasionale o di contratti a progetto oppure usano la partita IVA. Se però il mercato del lavoro fosse completamente deregolamentato potrebbe succedere che gli over 50 finiscano fuori da ogni azienda per essere sostituiti da giovani. Se un imprenditore potesse liberamente licenziare un cinquantenne stanco di ripetere gli stessi movimenti in fabbrica da una vita…….