Parole in cammino

 


Eravamo sposati da pochi anni quando una collega di mio marito ci invitò ad una festa africana che si sarebbe tenuta nel paese di là della montagna. A quei tempi i miei "no" erano ancora rari e per quanto ogni volta fosse una pena, mi sforzavo di partecipare alla vita. Non conoscevo nessuno dei colleghi di mio marito e tanto meno le colleghe, sapevo dunque che mi sarei sentita un pesce fuor d'acqua, ma l'entusiasmo del mio uomo era tanto, così strinsi i pugni e partimmo. Uno dei miei problemi più grandi e fonte inesauribile di panico è sempre stato il senso di inadeguatezza: mi sento sempre troppo poco bella, troppo poco magra, troppo poco elegante, o troppo poco sportiva; insomma, non sono mai a mio agio nelle situazioni che mi si prospettano. Quella sera di quell'estate caldissima arrivammo alla cascina dove si doveva tenere la festa e scoprimmo che a causa di un disguido avevano confuso le date, però, di fatto, molta gente era arrivata, così che gli organizzatori dovettero inventarsi la serata di sana pianta, cous cous compreso. In mezzo a tutta quella confusione di gente nera e incazzata non scorgemmo nessuno di conosciuto, quindi ci sedemmo su una panca in attesa degli eventi. Ricordo che tenevo gli occhi bassi nel tentativo di estraniarmi da tutto ciò, maledicendo l'africa, gli africani e quella scema che aveva convinto mio marito a portarmi lì. Dopo due ore buone fu pronta la cena. Non avevo mai mangiato cous cous e devo dire la verità, difficilmente ripeterò l'esperienza. Ricordo ancora con raccapriccio un pezzo di montone gigantesco, grondante grasso e cartilaggini varie, affondato tra semola e verdure di origine sconosciuta, servitomi in malo modo da persone chiaramente e giustamente scazzatissime. Poi d'improvviso l'urlo. Il nome di mio marito sparato oltre ogni decibel consentito e, al mio voltarmi, una figuretta sinuosa di cui lì per lì distinsi una cascata invidiabile di capelli biondi e un'altrettanto invidiabile silhouette avvolta in una cosa che non si poteva chiamare abito; era una sexy minisottoveste di seta verde smeraldo che frusciava ad ogni passo, segnandole il seno libero da costrizioni e i fianchi sprizzanti promesse che io mai avrei osato fare e che ad ogni fruscio abbassava di mezzo metro la mia autostima. La scema era rumorosamente arrivata. Fino a quella sera mi ero vantata di non essere gelosa, ma improvvisamente mi vidi con gli occhi di un uomo: bianca come un cencio, vestita come una zitellona acida, capello spento e occhio vivace come quello di una triglia. Il confronto con la bellezza al bagno che si stava gettando tra le braccia di mio marito non era sostenibile. Avevamo tutte e due ben meno di trent'anni, ma mentre lei sprizzava gioia di vivere e sensualità da tutti i pori, io ero semplicemente una moglie abulica e spenta. La serata finì in qualche modo che non rammento, la fanciulla svolazzò di fiore in fiore per tutto il tempo e noi ce ne tornammo a casa, mio marito allibito dalla prima ed unica scenata di gelosia della mia vita e io disperatamente consapevole che nessun vestitino di seta avrebbe potuto farmi brillare gli occhi di vita così come avevo visto in quella donna.Da tempo ripenso a questi 20 anni di vita passati. La sofferenza che giorno per giorno mi ha accompagnata la sento tutta nel cuore e a volte la rabbia per quello che ho perso e che non tornerà mai più è così forte da farmi urlare. Però ora so cosa voglia dire essere donna, so come una sottoveste di seta possa cambiarmi lo sguardo e so che quel luccichìo me lo sono guadagnato con sudore e sangue, l'ho voluto, cercato, rubato dove ho potuto. La fanciulla che quella sera abusò incosciente di una sua dote innata, è ora una signorina di 42 anni, un poco inacidita. Chiedo scusa se, cercando il riscatto da quell'umiliazione e peccando di superbia, mi riguardo come quella sera con gli occhi di un uomo: oggi vinco io.(Foto: Gustave Klimt)