Parole in cammino

Post N° 371


Leggo oggi sul blog di Beppe Grillo un post che fa male. Non lo commento, lascio a chi vuol leggerlo di trarre le proprie conclusioni. Per quanto mi riguarda è stato un pugno nello stomaco. E lo è ultimamente accendere la tv e sentire di stupri, violenze, abusi. Che sian donne o che sian bambine, o bambini, è una litania di sopraffazioni che non sembra avere fine e noi ascoltiamo, preparando la cena per i nostri uomini, i nostri padri, i nostri figli, senza mai chiederci da dove nasca tutto quel desiderio di possesso distruttivo che riduce noi donne a tragici manichini nelle mani di pazzi furiosi che fuori dalle nostre vagine sono uomini normali, ma lì dentro diventano bestie.Scrissi mesi fa sul blog di Scricciolo (mi scuso con lei se son tornata a rubare e con chi già ha letto per la riproposizione magari un poco pallosa) di quanto sia doloroso e indimenticabile un qualsiasi abuso subito. Lo riscrivo qui, più per me che per voi, perchè se ancora sento i brividi a pensarci ci sarà ben un motivo e perchè ricordare non fa mai male e leggere, specialmente se si è uomini, a volte può fare molto bene.Avevo 14 anni e mezzo.Andavo a scuola, Istituto Professionale per il Commercio, e ogni giorno dovevo prendere un treno per andare e per tornare. Succedeva spesso che ci fosse uno sciopero o che si perdesse il treno, così io e una mia compagna facevamo auto-stop, aspettando davanti alla stazione che passasse qualche conoscente. Lei si fermava al paese prima del mio, quindi si stava attente a non salire in auto con estranei.Quella sera si fermò un signore che non conoscevo se non di vista, ma risultò essere collega del padre della mia compagna, così fiduciose salimmo, io dietro e lei davanti. Lui fu subito affabile e scherzoso, almeno fino a che scaricammo la mia compagna. Fu naturale per me passare nel posto a fianco al suo e fu naturale, quando mi disse "metti dietro la cartella", eseguire e liberarmi dell'ingombro. Ricordo la mano sul ginocchio risalire lentamente e la mia voce dire "pensi a guidare". Lo dissi con voce da finta donna, probabilmente avendolo sentito in un film. Non pensò a guidare. Mi toccò per sette lunghissimi chilometri, senza mai scostare un lembo di vestito, senza esporre nulla se non la mia vergogna. Mi chiese se fossi vergine e cominciai a piangere. Lo implorai di farmi scendere e, forse preso dalla paura, fermò l'auto e aprì la portiera, senza rinunciare a toccarmi ancora. Scesi nel freddo dell'inverno di montagna, avendo davanti a me mezz'ora buona di cammino isolato e buio, incerta tra il sollievo di essere finalmente libera e il terrore che tornasse lui o se non lui un altro. Arrivai a casa e mi misi a letto. Non avrei voluto uscirne più.Lo incontro ancora. L'ho sempre incontrato. Quando succede mi irrigidisco e mi viene la nausea.Conosco ogni piccola espressione del suo volto, il suo modo di camminare e quei suoi occhi azzurro ghiaccio... ed è l'unico essere al mondo di cui aspetto la morte.