Parole in cammino

Post N° 507


Dopo la prima sveglia alle cinque, per il solito prelievo, mi riaddormentai stranamente a mio agio tra tutti quei tubicini che impedivano i movimenti. Avevo trovato una posizione su un lato che permettesse al braccio di stare teso verso la flebo e al drenaggio, che dalla ferita scendeva al barattolino ai piedi del letto, di non aggrovigliarsi sotto al mio corpo. Mi addormentai e mi svegliai riposata quando portarono il tè. La prima sorpresa furono le fette biscottate, che approcciai con un misto di bramosia e timore. Bramosia perchè prima dell'interveno ero rimasta senza cibo nè acqua per 36 ore e dopo avevo ingurgitato solo un po' di semolino. Timore perchè avevo imparato che anche ingoiare la saliva diventava un esercizio penoso. Certo, le fette biscottate imbevute e ammorbidite nel tè, forse.... E così piano piano degustai quella piccola delizia mandata dal Dio delle piccole cose apposta per rimettermi al mondo. Intanto anche la mia dirimpettaia di letto si era svegliata. Ragazzina scomposta, svergognata, sfacciata, che le madame ricoverate con me guardavano con un po' di riprovazione, ma che a me faceva tanto ridere. Ambra si chiamava.Vennero i medici e il chirurgo mi fece capire che avrebbe deciso prima di mezzogiorno se dimettermi o meno. Entrai in fibillazione e cominciai a tramare. Con l'aiuto della ragazza pestifera presi possesso del bagno della corsia. Mi lavai i capelli e con il suo phon cercai di dare loro una parvenza di piega. Fu poi la volta del trucco. Una bella spalmata di fondotinta a mo' di stucco, poi cominiciai a dipingere la grande truffa. Certo, mettere il mascara mentre l'ago della flebo fuoriesce dalla vena e comincia a esondare il suo liquido sotto la cute non è il massimo. Il rossetto poi, su un viso misto verde-Rimmelcolor3sand, mi ricordava vagamente il colore del contenuto della boccia di plastica appoggiata ai miei piedi, ma, ferma nella mia decisione di andare a casa quel giorno stesso, uscii nel corridoio sorretta da Ambra. Il mondo si fermò a guardarci.Lei: tutina bianca a lasciare scoperto il pancino da splendida adolescente e a coprire maldestramente uno strepitoso tanga in pizzo, seno sbarazzino costretto in una canottierina degna di un locale di lap dance, capello biondo, occhio allungato con l'eyeliner e parlata a troppi decibel. Io: piagiama, vestaglia della nonna dalla cui tasca faceva capolino la boccia del drenaggio, la mano sinistra appesa all'asta della flebo, trascinata a fatica mentre il braccio gonfia a vista d'occhio e pulsa come un dannato, capello superelettrico e supercotonato per far sì che regga senza lacca, trucco da "a bbellaa!!" con labbrucce a cuore, il passo di una che nemmeno lo sa cosa significa "stare poco bene". Incrociamo il chirurgo e il pover'uomo sbarra gli occhi. Io mi stampo in faccia il sorriso sicuro di quella che "non mi sono mai sentita così in forma", mentre il pavimento sotto ai piedi mi sembra di gomma e le infermiere in fondo al corridoio assumono l'effetto del miraggio.Entriamo in camera e la mia vicina di letto, seppur provata da un intervento di una certa portata, scoppia a ridere maledicendomi, perchè lei ne ha tre di drenaggi e sono nella pancia. Quelle operate la sera prima di tiroide stanno malissimo e mi stanno odiando. Alle 10.30 arriva il dottore bello, quello che sembra uscito dritto dritto da un telefilm americano. Sotto al camice sembra un modello e sotto ai vestiti che stanno sotto al camice intuisco un ben di Dio senza precedenti nella storia ospedaliera italiana. Lo sguardo un po' sadico mi lascia intuire che non è lì per darmi piacere. Toglie via i punti e il drenaggio e mi fa la medicazione. Quando se ne va lo adoro il doppio di prima (misteri della mente umana).Alle 11.30 mi chiama il chirurgo. Mi porta in uno stanzino minuscolo, mi fa stendere. Gli chiedo se ha intenzione di torturarmi ancora, e lui risponde un secco "sì". Mi aggrappo al lettino aspettando il dolore che non arriva. Mi toglie la prima medicazione, controlla la ferita, mette un cerotto pulito e mi fa alzare. Mi fa delle prescrizioni per dei farmaci, mi dice come e quando fare le medicazioni e poi un freddo "per me può andare". "In camera?" chiedo io e lui "no, il suo letto ci serve. La dimetto." Leggera. Mi sono sentita tanto leggera. In un amen ero in camera, in due amen ero vestita. Al terzo amen la borsa era pronta e io mi aggiravo come una bestia in gabbia lungo il corridoio chiedendomi perchè mio marito per fare trenta chilometri ci mettesse più di quattro amen.Arrivai a casa che c'era il sole. La neve sulle cime più alte faceva sembrare il cielo ancora più blu. Mi pareva tutto così nuovo e pulito.Click Immagine: Luca B. Pagni