Parole in cammino

Post N° 83


Gennaio 1988Mia nonna è stata certamente il grande amore della mia vita, non vi è giorno che non mi manchi.Donna timida, semplice, molto attaccata alla famiglia, ci ha ricoperti d’amore e dolcezza e lo ha fatto così bene che nessuno di noi si è mai accorto che ci teneva stretti in pugno senza possibilità di scampo.C’è qualcosa di peggio dell’amore totale per renderci asserviti?Il ricordo è legato alla sua malattia. Non ricordo una nonna sana, mai. Non usciva di casa da sola, era preda dell’ansia; la folla, i luoghi caotici le provocavano malessere. Noi ci burlavamo un po’ di questa cosa e per tutta la vita ha avuto attorno persone che la massacravano dicendo:“devi sforzarti”. Rammento la frase che pronunciava spesso:”Se sabesià…” se sapeste….Passavo le mie giornate con lei, che ormai viveva nell’albergo e scandiva il tempo con i giornali radio le riviste delle Edizioni Paoline.La mattina alle nove scendeva nel salottino che la zia aveva sistemato per lei e il nonno, io prendevo il pettine d’osso e cominciavo a pettinarla: aveva capelli stupendi, di un grigio argenteo, i riccioli permanentati che io fermavo con delle mollette, accarezzandola piano sulle guance incredibilmente lisce, ascoltando le sue chiacchiere sul tempo e sui turisti e raccontandole sciocchezze che la facevano ridere.Una sera arrivai al lavoro e mia zia mi disse che la nonna non si sentiva bene e avrebbe cenato in camera, così preparai un vassoio con un po’ di brodo, il suo tovagliolo, le posate, i grissini che adorava e che avevano da anni sostituito il pane e salii la scala verso la sua camera. La trovai a letto con l’immancabile Famiglia Cristiana sulle ginocchia, la aiutai a bere il brodo, giocai un po’ con le sue mani di seta, la accarezzai e mi feci accarezzare…l’unico essere al mondo con cui potevo passare ore in effusioni fisiche senza sentirmi in imbarazzo, la bacia e tornai al mio lavoro.La mattina seguente arrivai all’albergo come sempre alle otto e vi trovai l’ambulanza.La nonna stava male, andava ricoverata d’urgenza e mia zia mi chiese di salire sul mezzo di soccorso mentre lei ci avrebbe seguito con la macchina. E qui il dramma. Io ormai da due mesi ero preda di quegli strani malesseri, di quei mancamenti e la sola idea di salire sull’ambulanza mi faceva morire.Non potevo addurre come scusa una cosa che nemmeno io capivo, così dissi semplicemente di no.Quel no semplice semplice sarebbe stata la mia condanna all’inferno per gli anni a venire e forse lo è ancora. Ricordo bene lo sguardo di disprezzo negli occhi di mia zia, il dolore, la preoccupazione e io lì, immobile statua di cera a scrollare il capo e pronunciare quel no.La nonna fu portata via e mai più la rividi cosciente.Lo stesso pomeriggio la riportarono a casa per permetterle di morire tra le cose familiari.Passai il mio tempo a vegliarla, accarezzando quelle mani dolci, scrutando il viso immobile, spiando il respiro che si spezzava a tratti e la guardai morire.Come si fa a lasciar morire l’amore della vita quando si sa che quell’amore è stato tradito? Che cosa avrebbe potuto dirmi ancora quella donna nel tragitto da casa all’ospedale? Credetti di dover in qualche modo pagare la mia vigliaccheria e feci la cosa più incredibile, più grandiosa, più distruttiva che potessi fare: mi appropriai della sua psiche nel momento in cui spirava e decisi che per espiare dovevo essere lei.Freud dice che le eredità noi ce le scegliamo. Io scelsi di ereditare la malattia di mia nonna, che per tutti è sempre stato “esaurimento nervoso”, per me donna del 2000 si chiamava pomposamente “Sindrome da attacchi di panico”.