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CHIMICA sperimentale

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Capitolo di metallurgia - Parte terza

Post n°402 pubblicato il 14 Aprile 2018 da paoloalbert

 

Capitolo di metallurgia, tratto da un manoscritto sulle miniere della Provincia Bellunese…

(Parte terza/5 – Ved. Post precedente)

 

Abbiamo veduto più sopra, che lo schisto è il fondente impiegato in questa operazione; e qui aggiungeremo essere due le varietà di tal pietra, che si antepongono alle altre; lo schisto steatitico cioè, e lo schisto nero, rocce che formano quasi la totalità delle montagne poste a nord della miniera.

Sulla pietra arrostita come fondente, parmi possa aver luogo una discussione metallurgica, imperciocchè, se con unanime accordo i metallurgisti hanno surrogato a molti altri fondenti terrosi la calce, a che perseverare nell’antica costumanza di usare lo schisto?

Al bravo e zelante Sig. Zanchi Direttore dei lavori, non deve essere ignota l’efficacia con la quale opera la calce sulle miniere d’indole piritacea (la calce non agisce solamente come flusso, ma serve a neutralizzare tutto l’acido che si forma durante la liquefazione della miniera); e perciò io credo ch’egli preferisca a questa lo schisto, onde ottenere gli stoni meno carichi di ferro, ed evitare ad un’ora alcuni altri inconvenienti, che sogliono accompagnare la fondita.
S’ella è così, vediamo adesso quali sieno i materiali dello schisto da riputarsi utili alla fondita, e se questi possano cooperare con tutta quella energia che si ricerca; ovvero si abbia ad escludere lo schisto come poco proficuo, e sostituire ad esso dei fondenti migliori.

Per avere una precisa notizia sulle varietà di schisto dell’Agordino, ho cercato di segregare con l’analisi le terre che entrano nella loro composizione, e trovai che la varietà nera contiene 54 parti di silice, 20 di allumina, 9 di calce, 5 di magnesia, 4 di ferro, e 8 di perdita: e che lo schisto steatitico somministra 47 di silice, 20 di magnesia, 18 di allumina, 6 di calce, 1 di ferro e 7 di perdita.

Da ciò chiaramente apparisce, che codesti schisti non s’impiegano per ottenere gli effetti che suol produrre la calce; né tampoco per trarre profitto dall’allumina, e dalla magnesia; imperciocchè, la prima di queste terre, vi esiste in dose assai modica per riescire vantaggiosa; e le altre due si considerano poco utili al buon esito dell’operazione.
E’ dunque disvelato, che gli schisti vengono preferiti agli altri fondenti, in virtù della silice, che vi predomina nella loro composizione; la quale, secondo le testimonianze dell’Orschall, è un ingrediente necessario alla riduzione del rame piritoso.

L’uso della silice era conosciuto dall’Agricola, e dal Biringuccio (De Re metallica… - Pirotecnia…) ma non era egualmente nota la maniera di agire di questa terra sopra la vena esposta all’azione del fuoco colliquativo; per il chè, volle Mr. Gueniveau, in questi ultimi tempi riconoscere la ragione che induceva il metallurgo a trattare la pirite di rame con le polveri al quarzo.

A tal fine si recò egli alle miniere di rame piritoso poste a S.Bell; e dopo aver istituite sul luogo molte esperienze sintetiche, e fatta l’analisi di tutti i prodotti che si ottengono da ciscuna operazione, ebbe a concludere, che il ferro della pirite, appena trasmutato in ossido, si combina alla silice, e forma con essa un vetro assai fusibile; mentre il rame si concentra nella metallina (ston sottile), dalla quale, col mezzo di ulteriori torrefazioni, si elimina il resto dello zolfo; e l’ossido di ferro, che ancora contiene la medesima, si separa mediante il ministero della silice, che vi si unisce di nuovo, prima di sottoporla ad una novella fondita.

Ora, ritornando alla preminenza che si dà allo schisto, in causa della silice che contiene, io trovo che questa terra, essendo combinata chimicamente all’allumina, alla magnesia, e ad altre sostanze straniere alla sua natura, non può contribuire alla separazione del ferro con tutta quella efficacia che si desidera; e perciò io insinuo di sperimentare il quarzo polverizzato in luogo dello schisto, e di mescolare ad esso un terzo di carbone calcario, o meglio ancora, di calce viva, escludendo la pirite, che si adopera per salificare gli ossidi di ferro, a spese dell’acido che somministra.

Credo di aver addotto bastanti ragioni onde provare l’utilità che trarre si potrebbe dalla silice e dalla calce, qualora di volesse surrogarle allo schisto e alla pirite; tanto più che l’aggiunta di quest’ultima non è generalmente adottata; imperciocchè, se dall’un canto favorisce la fondita, dall’altro rende più complicate le operazioni, o almeno più lunghe dell’ordinario; e ciò principalmente in causa d’una maggiore quantità di ferro, di cui si caricano gli stoni.


Par. III – 2° Torrefazione


La torrefazione degli stoni crudi si eseguisce in un’aja circondata da una muraglia di mediocre altezza, che dicesi Rosta, nella quale si colloca lo ston, frapponendovi di spazio in spazio uno strato di legna, ed uno di carbone.

Non è di necessità in questa operazione di coprire il minerale con la solita terra ocracea, essendo bastanti le muraglie per impedire all’aria di insinuarsi con forza attraverso i lati della rosta, e sturbarne quindi la combustione.

Dopo alcuni giorni di fuoco, si estraggono gli stoni arrostiti, e si trasportano al forno per assoggettarli ad una seconda fondita.

Terminata l’arrostitura, si osserva, che gli stoni hanno assunto caratteri diversi da quelli che manifestavano prima di essere calcinati.

I pezzi si convertono in una massa concrezionata, di color bruno lucente, nei cui vani si scorgono di sovente alcune laminette di rame metallico.

 

Par. IV - Seconda fondita


Agli stoni calcinati si uniscono le grassure (fu imposto il nome di grassure all’ossido di rame conseguito dalla scomposizione del solfato di questo metallo, col mezzo della ghisa, o ferro impuro di ossigeno), i kretz della fondita precedente, e quelli cavati dal bacino del forno di raffinazione, onde sottoporre il tutto alla fusione.

A questi prodotti si sogliono aggiungere anche quei frammenti che si staccano dal rame nero mentre resta nel bagno acqueo per raffreddarsi; i quali si raccolgono sul fondo della fossa dopo avervi estratto il metallo.

Nel corso di questa operazione nulla v’ha di osservabile, o di nuovo, perché viene eseguita con le medesime regole della prima, e in un forno analogo a quello in cui si sono ottenuti gli stoni crudi.

Il materiale che si ricava da questa fondita dicesi ston rifuso, e corrisponde a ciò che i tedeschi chiamano spurstein.

E’ desso di color grigio all’esterno, ma rubiginoso nella frattura; e qualche volta di una lucentezza che molto assomiglia a quella dell’argento rosso dei mineralogisti.

Il suo interno è inegualmente seminato di piccole cellule dentro alle quali si vede il rame metallico, disposto in finissime e corte spille riunite in fascetti, e aggomitolate fra loro.

Molti di questi saggi sono stati spacciati dai mercanti diminerali per rame nativo.

Fine terza parte

 

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