Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

Messaggi di Maggio 2012

Seconda parte dell'analisi felina

Post n°180 pubblicato il 30 Maggio 2012 da paoloalbert

Segue dalla puntata precedente.

Dobbiamo cercare di scoprire se il colorante blù di alcuni granelli di silice è organico o inorganico e l'eventuale catione.
Se completamente organico, dopo opportuno trattamento sarà distrutto e in ogni caso non residuerà sali metallici.
Se inorganico, o organico coordinato con ioni metallici, residuerà appunto un composto del catione.
Mano alla vetreria!

Macino finemente i 5 g di granelli blù e li tratto in un recipiente di polietilene resistente all'acido fluoridrico con 20 ml di HF al 40%: la reazione (da farsi ovviamente in ambiente idoneo; io in questi casi mi metto comodamente all'aperto) è subito molto vivace ed in poco tempo tutto il prodotto è perfettamente sciolto; prendo atto che la colorazione è verde ma non ancora significativa.

  I gr

Gel Si 1

 Gel Si 2

 

 

 

 

 

 

Allontano a questo punto tutto il silicio per ebollizione prolungata a bagno maria e ottengo un concentrato con ancora molto HF in eccesso, nella soluzione più altobollente di 100°.

Voglio tirare tutto a secco, come fare? Non potendo adoperare per ovvie ragioni oggetti in vetro (nè tantomeno crogiolini in platino!), preparo per l'occasione un piccolo evaporatore in teflon fresandone una cavità in un pezzetto di questo materiale; il teflon può essere riscaldato anche ad alta temperatura e resiste perfettamente all'acido fluoridrico.
Penso anche che questo estemporaneo oggetto potrebbe tornar utile in future occasioni e quindi lo faccio seduta stante!
Lo si può vedere nella foto, con la soluzione verde che si sta concentrando.

 

Gel Si 3

 

Una volta arrivato a secchezza... sorpresa, ecco il risultato! Un bel po' di mg di residuo perfettamente gestibili, ma non di un bel colore azzurro come mi sarei maggiormente aspettato, bensì di un sospetto color ruggine.

 

Gel Si 4

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non sarà mica ferro anche stavolta! (ormai il ferro mi sta stufando quando salta fuori mentre mi aspetto altri elementi!).

Preparo una soluzione cloridrica del residuo (indovinate di che colore... gialla!) e testo il cobalto con il saggio di Vogel, cerco il rame con il saggio all'etilxantato e... non mi resta che confermare il ferro con le solite prove che abbiamo visto troppe volte.
Mannaggia, tutte negative tranne quella del ferro, positivissima!

 

Gel Si 5 Gel Si 6

 

 

 

 

 

Test con tiocianato - Test con ferrocianuro

 

Gel Si 6

 Gel Si 7

 

 

 

 

 

 

Test con K etilxantato - Test con tracce di rame aggiunte

 

Conclusioni


ramecobalto ci sono in quei granelli, almeno non nelle quantità umane che un'analisi di tipo classico può svelare.
Ferro ce n'è infinitamente troppo perchè derivi dalle modalità analitiche, quindi ritengo che sia proprio quello l'elemento cromatico del gel di silice.
Altri elementi (se non eventualmente in tracce) li escluderei a priori.

Chissà quale prodotto cinese a base di ferro, forse ftalocianine o qualcosa di simile?

Non ne ho la più pallida idea e nemmeno trovo niente al riguardo in bibiografia.
Ma almeno sono riuscito (salvo impreviste cantonate...) a smascherare l'innocuo catione!
Naturalmente io ho analizzato IL MIO gel di silice, presumendo che corrisponda in linea di massima a quello che comprava  Teresa.

Io la mia parte l'ho fatta; nel frattempo il gatto è stato alloggiato a fare i suoi bisognini in maniera diversa, se con minore o maggiore soddisfazione questo non lo so.
Di una cosa sono sicuro: al micio non gliene sarebbe potuto fregar de meno delle mie fatiche.

 
 
 

Un'analisi dedicata... al gatto!

Post n°179 pubblicato il 26 Maggio 2012 da paoloalbert

No, non mi è dato di volta il cervello (almeno non del tutto...), ma il discorso che segue è veramente dedicato a un gatto, quello della gentile Teresa (alla quale mi permetto invece di dedicare il quadro di Renoir...).

 

Renoir gatto


Teresa, che oltre ad essere una chimica con i fiocchi è amante dei gatti, li tratta da gran signori e li fa alloggiare secondo le moderne comodità, ovvero con l'ausilio di un abbondante strato di lettiera a base di gel di silice.
Quel particolare gel di silice (che in pratica è un polimero del biossido di silicio idrato nSiO2.H2O) oltre a possedere le igieniche proprietà assorbenti che tutti conosciamo, ha anche qualcosa in più: alcuni granelli del medesimo non sono incolori come dovrebbero, ma decisamente blù.

Un bel blù profondo.

Tempo fa si discuteva con Teresa a cosa fosse dovuta quella colorazione; le risposte ottenute interpellando il venditore avevano portato, come facilmente prevedibile, a risultati poco o per niente attendibili (tipo improbabilissime antocianine, oltretutto... di cavolo rosso!).

La prima cosa che un chimico pensa quando vede un vetro blù è che sia colorato con sali/ossidi di cobalto.
L'abbiamo pensato anche noi, anche se si tendeva ad escluderlo a causa dell'assicurazione ricevuta dalla ditta che il prodotto fosse assolutamente innoquo anche riguardo lo smaltimento.
Poteva anche essere un colorante organico... ma nel reticolo cristallino della silice?
Azzardai l'ipotesi che potesse trattarsi di cupro-ftalocianine, coloranti estremamente resistenti agli attacchi chimici e potenti quanto basta a colorare con qualche grammo un'infinità di granelli; basta inglobarli in qualche modo in una sufficiente quantità di silice precipitata.

Rimaneva però il dubbio: sarà cobalto, rame, coloranti organici o che altro?

Per cercare di dirimere la questione a modo mio mi sono procurato un sacchetto di lettiera per gatti (e vabbè, vuol dire che non avendo gatti avrò gel di silice per tutta la vita...) ed ho separato cinque grammi di granellini blù dalla gran massa degli incolori.
Cercare di separare e concentrare l'eventuale catione inglobato NELLA SILICE in piccolissima quantità non è così semplice... e io per fare le mie prove da chimica ottocentesca ho bisogno di quantità ponderali di sostanza.
Non ho quelle macchine dei laboratori di adesso che butti dentro dieci molecole di una cosa e l'apparecchio ti dice cosa c'è  atomo per atomo!
(Ho già detto che ammiro infinitamente queste macchine, ma proprio non le vorrei: che hobby sarebbe lavorare così?).

Insomma con la silice non servono mezzi termini, bisogna ricorrere al suo quasi unico nemico, un tipo duro e brutale: l'acido fluoridrico!
Qui sotto si capisce perchè l'acido fluoridrico è il nemico numero uno della silice:

SiO2 + 4 HF --> SiF4 + 2 H2O
3 SiF4 + 3 H2O --> H2SiO3 + 2 H2SiF6


si forma tetrafluoruro di silicio (volatile!) e acido fluosilicico, che a caldo si scinde ulteriormente in SiF4 e HF, mentre l'acido silicico è ancora gel di silice: in pratica pian piano è possibile attaccare la silice allontanando tutto il silicio sotto forma gassosa.
E così ho fatto.

La prossima volta vedremo come, assieme agli inaspettati risultati.

 
 
 

Test sulla pila Grenet

Post n°178 pubblicato il 18 Maggio 2012 da paoloalbert

Dopo un paio di post "storici", devo mantenere la promessa di mettere mano alla vetreria!
Lo faccio arrangiando una piccola Grenet dimostrativa, giusto per verificare quanto affermato precedentemente e per ritornare, appena possibile, in stretta sintonia col titolo di questo blog.

Materiale occorrente

- potassio bicromato K2Cr2O7
- acido solforico H2SO4
- una lamina di zinco
- un cilindretto di carbone di storta
- un multimetro digitale

In un becker da 50 ml preparare una soluzione di 3,5 g di K2Cr2O7 e 3 ml di H2SO4 conc. in 40 ml di acqua.
Si otterrà una bella soluzione rosso vivo, dovuta alla colorazione dell'acido cromico H2CrO4 formatosi.
Preparare anche una lamina di zinco (la mia era mm 10x80, spessore 2 mm) e un cilindretto di carbone di storta, per esempio recuperandolo da una vecchia pila zinco-carbone.
(Attenzione che queste pile sono in via di estinzione (sostituite da quelle alcaline) e pertanto è meglio recuperare fin che si può questi elettrodi di carbone, che torneranno utilissimi in tanti esperimenti di elettrochimica spicciola).

 

pilla test 1

                                     I componenti

 

Lo scopo di questo lavoro era verificare i parametri tensione/corrente della pila e quindi è indispensabile almeno un tester affidabile; ho usato il multimetro Schlumberger che si vede in seguito nelle immagini.
Collegare i puntali dell'apparecchio ai due elettrodi, immergere prima l'elettrodo positivo (il carbone) e sistemarlo in modo che sia stabile e non vada poi a toccare la lamina di zinco una volta immersa.
Regolare il tester, e immergere quest'ultima andando subito a misurare la corrente di corto circuito: 860 mA!

 

Pila test 2
Misura della corrente di c.c.

Considerata la superficie immersa dell'elettrodo di carbone (5,5 cm2) ne risulta una densità di corrente di più di 15 A/dm2, come una robusta elettrolisi!
Naturalmente la corrente di c.c. non è mantenibile per lungo tempo, perchè tende subito a diminuire per polarizzazione (gli elettrodi si rivestono di un velo di gas che li isola parzialmente) e la misura va quindi effettuata velocemente.
Si notano in queste condizioni di c.c. le intense reazioni redox nella soluzione: lo zinco passa in soluzione e si ricopre istantaneamente di una patina verdastra (solfato di cromo Cr2(SO4)3 che cola nel liquido e lo scurisce velocemente).

Estrarre lo zinco, lasciar respirare un attimo la povera pila tirata per i capelli e andiamo poi a misurare la tensione a circuito aperto: ecco fatto, 1,947 Volt. Perfetto, come da teoria!
Nel post precedente si era calcolata la tensione come 1,99 Volt: il risultato pratico ne conferma il valore quasi perfettamente allineato con la teoria, c.v.d.

 

Pila test 3
Misura della tensione a vuoto

Non resta che provare a collegare un carico qualsiasi funzionante a bassa tensione; è abbastanza scontato scegliere un LED, che almeno ci fa vedere in maniera "lampante" che la pila emette potenza elettrica.

Pila test 4   
Pila e LED 

Eccoli bello illuminato! Naturalmente, dato il minimo assorbimento (una ventina di mA) questa piletta dimostrativa potrebbe tenerlo acceso per un'infinità di tempo, se non fosse... per la mancanza di mercurio!
Nella vera pila Grenet l'elettrodo negativo era formato da una lamina di zinco amalgamato, per diminuire la corrosione del metallo in acido con relativo svolgimento di idrogeno (non metto la reazione!).
In questa pila dimostrativa non mi sono preso la briga di amalgamare la lamina ed ho usato zinco puro, pertanto esso reagisce anche a circuito aperto sviluppando idrogeno e consumandosi inutilmente.
Ma era scontato che questo generatore avesse in ogni caso vita breve... il tempo di fare qualche foto e nulla più!

Ora devo trovare il sistema di arrangiare in qualche modo un piccolo vaso poroso per un altro esperimento elettrochimico che mi sta a cuore da tempo (ben più complesso di questo!); appena possibile se ne riparlerà.

 
 
 

Pile di una volta

Post n°177 pubblicato il 14 Maggio 2012 da paoloalbert

Anche oggi un po' di storia... la prossima volta metto mano alla vetreria, promesso!
Però non potevo far a meno di parlarne, visto la bella pila che ho fotografato: guarda una Grenet!... mi son detto mentre girovagavo per una famosa fiera-mercato.
Questa boccia di vetro da un paio di litri, il suo collo largo con il tappo di ebanite e i serrafili in ottone nichelato la rendono assolutamente inconfondibile.

 

Pila Grenet

 

Monsieur Eugene Grenet per la verità ha fatto un po' troppo il furbo, perchè è dal 1856 che si prende tutto il merito per aver dato il nome a questa pila, che in realtà era stata inventata già quattordici anni prima da Johann Christian Poggendorff; lui l'ha resa solo un po' più pratica, prendendosi pure un brevetto tre anni più tardi.

Come è fatta questa Poggendorff-Grenet?
Come si vede, è costituita appunto da una grande boccia di vetro come sopra detto.
I due serrafili che attraversano il coperchio sono collegati al di sotto in questo modo:

- quello laterale si collega a due spesse lamine di carbone spaziate un paio di centimetri e lunghe quanto basta per arrivare fino quasi al fondo del contenitore (di solito i serrafili positivi sono due, uno per lamina, ai lati di quello centrale negativo).

- quello centrale permette il passagggio attraverso il forellino di un'astina in ottone (mancante in questo esemplare) collegata inferiormente ad una lamina di zinco (anch'essa mancante) posta tra le due di carbone; in tal modo può essere immersa o estratta dal liquido elettrolita.
Essa viene immersa nella soluzione solo quando si vuole creare una differenza di potenziale ai morsetti, bloccandola nella posizione voluta per mezzo di quella vitina che si vede.
Lo zinco era amalgamato con mercurio per proteggere l’elettrodo dall’attacco dell’elettrolita a circuito aperto.

Questa pila, come quella di Volta, è un generatore ad un solo conduttore di seconda classe, cioè di una pila in cui la soluzione elettrolitica è una sola (conduttori di prima classe sono gli elettrodi metallici, di seconda la soluzione ionica).
La lamina di zinco è l'elettrodo negativo della pila e durante il funzionamento va via via consumandosi; gli elettrodi di carbone collegati in parallelo (polo positivo) sono invece inerti, cioè servono per trasportare gli elettroni, ma non subiscono alcuna reazione.
Poggendorff usava originariamente per la sua pila una soluzione di CrO3 (anidride cromica), un bel solido in scagliette rosse solubilissime in acqua: in pratica una soluzione di acido cromico H2CrO4.

Grenet sostituì questo composto, scomodo da ottenere puro, con una soluzione solforica di bicromato di potassio K2Cr2O7, che è poi la stessa cosa (l'anidride cromica si ottiene per azione dell'H2SO4 sul bicromato; è la separazione successiva della CrO3 pura che è difficile).

Cosa avviene all'interno della bottiglia, quando la lamina di zinco viene abbassata?

Come in tutte le pile avviene una reazione di ossidoriduzione:

3 Zn + 2 CrO3 + 12 H+ => 3 Zn2+ + 2 Cr3+ + 6 H2O

e più concretamente:

3 Zn + K2Cr2O7 + 7 H2SO4 --> Cr2(SO4)3 + 7 H2O + K2SO4 + 3 ZnSO4

Ecco spiegato come gli elettrodi di carbone non partecipino alla reazione (non si consumano), mentre la povera lamina di zinco deve ossidarsi prendendosi sulle spalle metà del lavoro e sciogliendosi lentamente nella soluzione come solfato di zinco ZnSO4.
L'altra metà del lavoro la fa la soluzione, che si riduce da -CrO42- a -Cr3+ e contemporaneamente si impoverisce di ioni H+.
Da essa emerge il fatto che sia la lamina che l'elettrolita subiscono un graduale degrado, e la pila si "consuma": da un bel colore rosso vivo, la soluzione tende ad assumere alla fine la colorazione verdastra caratteristica degli ioni cromo -Cr3+ e la lamina di zinco si assottiglia sempre più.

E riguardo la forza elettromotrice, cioè la tensione ai morsetti?
I potenziali redox delle semireazioni dicono che:

Zn --> Zn2+ = -0,76 V
-Cr2O72- --> Cr3+ = +1,23 V

il salto teorico totale è 1,99 volt, pienamente corrispondente con la realtà, che è intorno a questo valore.

La disposizione degli elettrodi, molto vicini e di grande superficie, unita al tipo di elettrolita, conferisce alla pila una resistenza interna particolarmente bassa e la rende quindi idonea ad erogare correnti molto intense, anche se per poco tempo.

Ricordo che la POTENZA elettrica di un qualsiasi dispositivo è data dal prodotto della tensione per la corrente, cioè dai Volt per gli Ampere (non è mai superfluo ripeterlo...).
I volt sono in genere "facili" da ottenere, gli Ampere no, e sono questi che contano in elettrotecnica!

Dov'erano usate queste pile?

Per quanto affidabili e capaci di produrre un'intensa corrente, le pile al bicromato sono andate in disuso verso la fine del XIX secolo perché tendevano a "scaricarsi" troppo velocemente, anche se lo zinco veniva inserito soltanto quando si voleva alimentare il circuito utilizzatore.
(Nel brevetto di Grenet si fa uso addirittura di aria soffiata sugli elettrodi come depolarizzante per aumentare l'efficienza, ma ciò riguardava grandi generatori, non il singolo elemento che trattiamo in questa sede).

Oltre che per i telegrafi e le poche cose che allora andavano a corrente, erano le pile ideali da laboratorio didattico, pronte ed affidabili e che per di più non emettevano gas durante il funzionamento.
E' vero che erano a base di inquinantissimi sali di cromo esavalenti, ma allora chi ci pensava a queste cose?

Rubo dalla rete (miniera inesauribile di ogni notizia!) questa bellissima cartolina fin de siecle, nella quale si vedono campeggiare sui tavoli di un'aula dell'Istituto Industriale di Fermo delle belle Grenet... pardon, Poggendorff!

 

Altri tempi


Voglio concludere con una amara considerazione guardando la cartolina: allora non erano ancora arrivati i famigerati tagli e in classe si "lavorava" davvero... alacremente!

 
 
 

Il Genio della Lampada

Post n°176 pubblicato il 08 Maggio 2012 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

L'amico Marco mi ha recentemente invitato ad assistere ad una bella (quanto inconsueta!) conferenza sulla "Breve storia delle lampade da minatore"... ghiotta occasione alla quale ho dovuto con rammarico rinunciare.
L'oggetto "lampada da minatore" può rimandare il pensiero sai a che cosa?
A Penzance, sperduto paesello della Cornovaglia!
E perchè mai? Perchè qui è nato un genio, il Genio della Lampada, che con una insignificante reticella ha salvato la vita non a migliaia, ma ad un'infinità di lavoratori.

Mmmm, oggi sento odore di puntata biografica...
Spegni il bunsen e metti via gli alambicchi!
Andiamo a documentarci un po' e poi parliamo come viene viene sulle vicende di un Padre della scienza.

                                   ---°°°OOO°°°---

Nel 1778, la moglie del falegname di questa sconosciuta località (Penzance) mette al mondo il piccolo Humphry, destinato a diventare uno degli scienziati più celebri della sua epoca.

Humphry (che faceva Davy di cognome), ragazzo brillante con una mente curiosa come si conviene ad uno che aspiri ad un grande futuro, studia grazie al patrocinio di persone illuminate e impara tutto ciò che a fine '700 si imparava: materie classiche, matematica, elettricità, magnetismo, medicina e soprattutto sperimentazione pratica.
(Da qualche parte lo si fa ancora...).

A diciannove anni (allora si era precoci!) gli viene in mano nientemeno che il libro del povero Laurent Lavoisier "Traité de Chimie Elémentaire"; dato che Humphry aveva imparato anche il francese, può ripetere alcuni degli esperimenti di Lavoisier e veder pubblicati i suoi risultati.

Altro colpaccio di fortuna fu l'incontro a Penzance con Gregory Watt (figlio del grande James), appena giunto dall'Università di Edimburgo dove aveva studiato chimica e geologia. I due diventano amici e così il nostro protagonista viene "introdotto" (a cosa servirebbero le conoscenze altrimenti?) presso eminenti scienziati, tra cui Boulton, Priestley, e un certo Thomas Beddoes, medico di primo piano a Bristol.
Costui aveva in progetto di allestire un grande Ospedale di Pneumatica, in cui vari gas sarebbero stati somministrati ai pazienti (nel senso letterale del termine...) per il trattamento di malattie varie e ipocondria.
A quei tempi quando non si sapeva cosa diagnosticare si diceva "-soffre di ipocondria".
Davy diventa assistente e si trasferisce a Bristol, trovando un ottimo laboratorio dove poter sperimentare a piacere.

Ora succede che tra le scoperte contemporanee di Joseph Priestley vi fosse un gas che lui che aveva nominato "gas di azoto deflogisticato" (ma che simpatico questo flogisto! Bisognerebbe parlarne!).
Nel 1799 Davy sperimenta con questo gas e lo ribattezza protossido di azoto (N2O).
L'inalazione sperimentale del gas da parte del giovane Humphry (si vede che gli piaceva sniffare) gli provoca uno stato di euforia, che darà origine al nome "gas esilarante" che l'N2O tutt'ora tenacemente mantiene.
Ma non è tutto: siccome anche gli scienziati hanno il mal di denti, in occasione di un attacco Humphry si accorge che l'N2O gli fa un effetto anestetico.
Ma che bella scoperta! Ecco il protossido di azoto diventare lo standard per l'esecuzione di lavori dentali in tutto il mondo.
E così il nostro Davy, poco più che ventenne, diviene ben noto negli ambienti scientifici e sociali.

Sua Eccellenza il conte di Rumford, Sir Benjamin Thompson, fonda nel 1800 la Royal Institution, col fine di promuovere le scoperte scientifiche e la loro applicazione industriale. Come Assistente in Chimica e Direttore del prestigioso laboratorio  viene nominato... Humphry Davy!
Le sue abilità come oratore e presentatore impressionano il pubblico e subito dopo, nel 1802, il Nostro è stimato Professore di Chimica presso la prestigiosa istituzione.

Alcuni anni prima Luigi Galvani (sempre alle prese con le sue rane...) aveva mostrato la relazione tra alcune reazioni chimiche e la corrente elettrica, ma non solo: Alessandro Volta aveva nel frattempo inventato la pila, una fonte facilmente riproducibile di corrente.
Davy vede che il processo di Galvani può essere invertito e la pila di Volta lo aiuta.
Dice: se reazioni chimiche possono produrre una corrente elettrica, allo stesso modo una corrente elettrica può scindere i composti nei loro componenti!
E così, in una conferenza alla Royal Society nel 1806, Davy descrive il metodo di "elettro analisi" (elettrolisi) per scomporre l'acqua in idrogeno e ossigeno. Davy avvia da queste osservazioni una grande serie di esperimenti, che lo portano nel 1807 alla scoperta del potassio e del sodio metallici, preparati a partire dagli idrossidi. In seguito (e scusate se è poco!) prepara per elettrolisi di sali fusi gli elementi alcalino-terrosi magnesio, calcio, stronzio, bario!
Mica facile neanche oggi. Bel colpo Humphry!

Giusto duecento anni fa, si ritira dal suo incarico a tempo pieno per diventare professore onorario alla Royal Institution.
Questo gli dà più tempo per seguire i suoi interessi non solo nel campo della ricerca ma perfino nella pesca, nella poesia e in quant'altro... e perchè no, nelle attenzioni verso una ricca vedova di nome Jane.

Ma non smette di sperimentare: già giocando col pericolosissimo cloruro d'azoto NCl3 aveva perso temporaneamente la vista (Pierre Dulong, lo scopritore di questa sostanza, ci perdette definitivamente, oltre a un occhio, anche due dita...) e si prende un assistente, ma non si accontenta di uno qualsiasi, si sceglie Michael Faraday!
Davy decide di compiere un viaggio nel continente (accompagnato da Faraday) sia per andarsi a ritirare il Prix Napoleone in Francia, sia per visitare il sud Europa.
In Francia incontra il famoso chimico francese Joseph Gay-Lussac e il fisico Andre Marie Ampere.
          
       - ma quanti attori famosi ci sono in questa storia?-

Ampere gli aveva chiesto aiuto riguardo un misterioso composto che faceva i fumi viola.
Davy sperimenta addirittura nella sua stanza d'albergo francese, producendo (si vede che non ne aveva avuto ancora abbastanza!) fumi ed esplosioni: la sostanza viene identificata come elemento iodio, scoperto casualmente nel 1811 da Courtois.
Per quanto riguarda le esplosioni in camera, visto che si parla di iodio, possiamo immaginare facilmente a cosa fossero dovute...

Giunto in Italia, visto che si trova nel Paese del sole, cosa fa? Concentra i raggi solari con una lente e sacrifica un diamante bruciandolo in una sfera di vetro piena di ossigeno, dimostrando che diamante e carbonio non sono altro che lo stesso elemento. Di chi era quel diamante? Non lo so.

Tornato in patria, in nostro Humphry si dà da fare per risolvere un problema pratico di enorme importanza, che gli conferirà gloria e riconoscenza perenne.
In quel tempo gli incidenti nelle miniere di carbone erano all'ordine del giorno, dato che il grisou (metano) mieteva migliaia di vittime in tutta Europa e in Inghilterra in particolare.

Osservato che l'accensione di un gas infiammabile non si propaga attraverso una reticella metallica sufficientemente fitta, Davy inventa la famosa "lampada di sicurezza" per le miniere, in sostanza una semplice lampada a olio con la fiamma protetta da un contenitore a rete, che impedisce l'esplosione del gas in galleria.
Il Nostro, con gran gesto di magnanimità non brevetta la sua lampada ma ne fa dono alla nazione (non solo alla nazione, ma soprattutto a tante di quelle che, senza la sua scoperta, sarebbero diventate future vedove...).

Nel 1829 Davy, in uno dei suoi tour europei, viene colpito da un ictus a Roma. Durante il viaggio di ritorno a casa Sir Humphry Davy muore a Ginevra, dove è sepolto.

Lampada Davy

 

                                  ---°°°OOO°°°---

Non ho potuto assistere alla conferenza sulle lampade da minatore, ma in compenso ho colto l'occasione per ripassarmi un po' di storia... qualcosina ho guadagnato lo stesso!
Ora, scusami Humphry, ti prendo virtualmente per mano e ti porto addirittura a partecipare al diciassettesimo Carnevale della Chimica (ospitato sul blog di Leonardo Petrillo Scienza e Musica): vedrai che ci sarà tanta gente che conosci!

 
 
 

Sintesi del 1-Naftalensulfonato sodico

Post n°175 pubblicato il 04 Maggio 2012 da paoloalbert

Oggi niente divagazioni storico-personali: lo chef ci schiaffa in tavola un piatto di sola chimicaccia per palati allenati. Ogni tanto una portata pesante rende più gradevoli le successive...

In seguito a una interessante discussione scaturita riguardo la solfonazione del naftalene, ho provato la sintesi del sale alcalino dell'isomero alfa dell'acido naftalensulfonico, per verificare l'andamento della solfonazione operando in condizioni "cinetiche", ovvero sfruttando la velocità di formazione elevata di questo isomero a temperatura relativamente bassa, rispetto all'andamento "termodinamico" di formazione del più stabile beta preparato in precedenza.
La procedura ricalca fedelmente quella già proposta (ved. post dedicato); ho solo ridotto di un fattore 2,5 le quantità dei reagenti, dato che si trattava di una verifica e non di una preparazione finalizzata a sintesi successive.
Verifica cioè sulla effettiva solfonazione completa e veloce in posizione alfa in condizioni fast-soft, ovvero scaldando appena a fusione e operando molto velocemente, in maniera esattamente opposta a quella necessaria per ottenere in grande maggioranza l'isomero beta.
Traducendo:
- temperatura alta e tempi lunghi --> acido 2-naftalensulfonico (prodotto "termodinamico")
- temperatura bassa e tempi brevi --> acido 1-naftalensulfonico (prodotto "cinetico")


Naftalensulfonato 1

 

Materiale occorrente:
- naftalene
- acido solforico
- sodio idrossido
- sodio cloruro
- vetreria opportuna
 
- in un pallone da 250 ml introdurre 20 g di naftalene e riscaldare fino a fusione (80°), senza oltrepassare questa temperatura.
In una beuta da 50 ml preriscaldare contemporaneamente 18 ml di H2SO4 conc. alla stessa temperatura.
Ho fatto questo per evitare di dovere riscaldare ancora la miscela alla successiva aggiunta dell'acido freddo, affinchè sia possibile operare velocemente (mi ero posto il limite di due minuti complessivi per l'intera solfonazione).
In poche porzioni, agitando vigorosamente, aggiungere l'acido al naftalene fuso, tenendo sempre d'occhio il termometro immerso; se la miscela tende ad aumentare in temperatura raffreddare leggermente affinchè si mantenga nel range 80-85°

Naftalensulfonato 2Il naftalene tende a sublimare facilmente e nelle zone fredde del pallone si formerà uno straterello di sostanza sublimata, che non parteciperà alla reazione.
Trascorsi i due minuti complessivi dall'inizio dell'aggiunta di acido, versare subito in 250 ml di acqua fredda la miscela di H2SO4 residuo e di acido 1-naftalensulfonico formatosi.
La leggera torbidità è dovuta al naftalene non reagito, che comunque è molto poco; potrebbe essere dovuta anche a piccole quantità di dinaftilsulfone C10H7-SO2-C10H7 insolubile, ma non posso confermare che la sua formazione avvenga anche a temperatura così bassa.

Naftalensulfonato 3In ogni caso filtrare, ottenendo una soluzione solo leggermente opalescente.
Neutralizzare ora con NaOH al 20%; siccome c'è H2SO4 in eccesso ne serve una buona quantità e verso la fine procedere molto lentamente, senza far diventare basica la soluzione.
Procedere ora alla "salatura", per far precipitare la maggior quantità possibile del naftalensulfonato sodico; per far questo saturare con NaCl solido, mescolando fino a soluzione e poi aggiungere ulteriormente.

Naftalensulfonato 4Scaldare fino a circa 80° eventualmente continuando ad aggiungere NaCl alla soluzione che a caldo rimane leggermente rosata ma quasi limpida.
Lasciando raffreddare si ha abbondante separazione di 1-naftalensulfonato sodico in microcristallini leggeri ma molto meno voluminosi rispetto all'isomero beta e purtroppo molto più solubili.
Filtrare su buchner spremendo il più possibile il prodotto, che rilascia l'acqua molto facilmente.

Lavare goccia a goccia con acqua molto fredda per eliminare il più possibile i cloruri e i solfati, che in ogni caso rimarranno in piccola quantità nel prodotto; non è possibile lavare più di tanto perchè questo naftalensulfonato come dicevo è ben solubile in acqua e insistendo col lavaggio se ne perderebbe troppo.
Per questo motivo non ho ricristallizzato da NaCl perchè non avrei guadagnato in purezza e ne avrei perso ancora.
Dopo il lavaggio lasciar seccare all'aria.

 

Naftalensulfonato 5

 

Il 1-naftalensulfonato sodico si presenta sotto forma di polvere microcritallina leggera che tende a impaccarsi di colore appena appena beige; non deve odorare per niente di naftalina.
Anche questa sintesi è abbastanza facile (attenzione alla T°!) ed è servita allo scopo prefissato.
La resa ottenuta è di 12 g, pari ad un misero 33%, che si spiega in grandissima parte per le perdite per solubilità e non per il naftalene non reagito (che reputo inferiore al 10%, a parte quello sublimato).
Purtroppo non ho alcun modo di verificare la purezza in isomero alfa rispetto al beta, ma avendo operato a temperatura appena sopra il punto di fusione e molto velocemente, probabilmente il beta stava ancora organizzandosi per farsi largo nell'ambiente che già la miscela solfonante è stata buttata in acqua; quindi dovrebbe essere in netta minoranza. 
Almeno credo (e spero a ragione!) che sia andata così; le proprietà diverse, anche macroscopicamente, dei due prodotti dovrebbero confermare questa ipotesi.

 
 
 

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