Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

Messaggi di Febbraio 2013

Intervallo

Post n°223 pubblicato il 28 Febbraio 2013 da paoloalbert

 

Intervallo

 

 

 
 
 

Reazione Schimdt e Tornow per il mercurio

Post n°222 pubblicato il 19 Febbraio 2013 da paoloalbert

Ogni tanto metto nell'armadio qualche "esperimento" e poi magari me ne dimentico; mi è capitato sottomano il file dell'esperienza che vado ora a descrivere e che a suo tempo aveva destato curiosità in alcuni di coloro che, come me, hanno questo strano hobby della chimica sperimentale.
Si tratta di un originale metodo analitico per il mercurio, devo dire assai originale, ideato nel 1932 da Schmidt e Tornow.
Purtroppo non sono riuscito a trovare, come mi sarebbe piaciuto, delle notizie riguardo questi due chimici, che avrebbero integrato la fredda descrizione dell'esperimento stesso.

Naturalmente ho voluto provarlo, anche perchè è una reazione specifica per questo metallo.
In sostanza si tratta di condurre una elettrolisi in ambiente neutro di una soluzione della sostanza in esame usando un catodo di alluminio: se il mercurio è presente, il catodo una volta esposto all'aria si ricopre di una patina soffice di Al2O3, molto ben visibile.
E' ben noto che il mercurio catalizza l'ossidazione superficiale dell'alluminio in maniera molto caratteristica e spettacolare ed il metodo (nella sua formulazione più semplice) sfrutta questo principio.
 
Ho operato in questo modo:
 
- poco prima della prova preparare una piccola lamina di alluminio di una decina di cmq, perfettamente pulita.
Per far ciò ravvivare bene la superficie con carta vetrata fine e successivamente immergere qualche minuto in NaOH diluita fino ad inizio di sviluppo di idrogeno. 
In questo modo siamo sicuri che l'alluminio sarà perfettamente pulito ed esente da ossido superficiale.
Estrarre la laminetta, risciacquarla bene in acqua distillata ed immergerla immediatamente nella soluzione neutra da analizzare, collegandola come catodo ad un alimentatore di corrente.
Porre all'anodo un bastoncino di carbone; i laboratori ricchi (quindi non il mio...) useranno come ovvio un bell'elettrodo di platino.

 

Schmidt 1

 

Ho usato come test una soluzione di 20 mg di HgCl2 in 50 ml di acqua per rendere l'effetto sicuramente fotografabile.
Mi sono poi reso conto che 20 milligrammi (!) sono una camionata rispetto alla sensibilità del metodo... avrei dovuto stare molto più leggero!
La soluzione è neutra e diluitissima quindi la resistività della cella sarà molto elevata, dato che non ho voluto aggiungere alcun elettrolita di supporto.
In ogni modo alimentando la celletta anche solo a 12 V passa sufficiente corrente da far depositare quella minima quantità di mercurio che serve per essere evidenziata.
Far passare corrente per una decina di minuti, quindi levare la laminetta e porla ad asciugare all'aria in un posto tranquillo.
Dopo un quarto d'ora sarà ricoperta da una fragilissima lanugine grigia di Al2O3, come ben si vede nelle foto.

 

Schmidt 2 Schmidt 3

 

 

 

 

 

 

Se l'esperimento è ben condotto la sensibilità è elevatissima; la mia fonte bibliografica dice 1 microgrammo/litro!
Se avessi avuto più tempo e voglia avrei provato con successive diluizioni a vedere fin dove arrivavo con una procedura così "grezza".
Mi è stata segnalata anche una variante microchimica più "professionale" del metodo descritto, che sfrutta, oltre all'elettrolisi, la presenza di chinone e rosso alizarina con la conseguente formazione di una lacca di alluminio maggiormente visibile.
Condotto in tal modo, il metodo analitico (credo a cura di Feigl) permette di rivelare una frazione veramente infinitesima di microgrammi di mercurio!
Si tratta quindi di una sensibilità spaventosa, pur realizzata senza l'ausilio di quegli strumenti moderni di analisi che io chiamo affettuosamente "apparecchi con la spina".

 
 
 

Simboli

Post n°221 pubblicato il 12 Febbraio 2013 da paoloalbert

Lascio questo paleoresiduo di un post poco pertinente con lo stile del mio blog. Così rimangono anche i commenti.

 

Nero


Il nero rimane come immagine di tutto ciò che io vedo
come simboli della voracità di pochi
a danno del bisogno di molti.


 
 
 

...e "liquori" da laboratorio

Post n°220 pubblicato il 11 Febbraio 2013 da paoloalbert

Risolto felicemente, come sembra, l'intermezzo dell'acido solforico "per campana", ritorno nel mio virtuale teatrino della commedia dell'arte (chimica) per vedere se i "liquori" hanno avuto la pazienza di aspettare il turno per la loro sfilatina.

Vi ricordate di quel tal Spirito Rettore che ha lasciato il palcoscenico impregnato di un olezzo tanto antico?
Boerhaave non aveva tutti i torti a fare il suo ragionamento: ad oggi, duemilatredici, l'esatto meccanismo della percezione degli odori non è ancora risolto.
L'odorato è, fra i cinque sensi, quello che rimane decisamente più misterioso e di ardua comprensione!

---

Oltre a "spirito", anche "liquore" è un termine di indubitabile sapore alchimistico, molto in voga nel periodo storico di cui parliamo. Per liquore si intendeva un liquido di particolari caratteristiche, ma inteso in senso generale; potrebbe essere un distillato, una soluzione, una miscela.
Una definizione molto più elastica e di fantasia rispetto allo spirito; spirito evoca immediatamente qualcosa di volatile, liquore è invece più legato alla radice "liquida" del termine.

I "liquori", dal punto di vista strettamente chimico, non sono molti; quelli che ho potuto recuperare sono i seguenti:

- "Liquor fumante di Cadet".  E' ossido di cacodile, la prima sostanza metallorganica. Si ottiene scaldando un acetato alcalino con anidride arseniosa. Naturalmente è tremendamente puzzolente e velenoso, di formula (CH3)2=As-O-As=(CH3)2
Affascinante! Amo questi composti forti, gotici come la nebbia e i fanali a gaz della Londra che fu

- "Liquor anodino minerale dell'Hofmann": l'abbiamo già incontrato nella precedente sfilata degli spiriti e si è intrufolato anche qui: si tratta di etere, più o meno mescolato con alcol

- "Liquor di sal di tartaro"; si pensa immediatamente al tartrato acido di potassio. Niente da fare, si trattava invece di una soluzione di carbonato di potassio. (Anche perchè il tartrato è pochissimo solubile!)

- "Liquor di selce". Ma come è possibile pensare di fare una soluzione di biossido di silicio? Semplice: lo si trasforma in silicato di potassio...

- "Liquor fumante di arsenico". L'abbiamo appena visto sopra. Dal suo modo di preparazione era detto anche "acetito" di arsenico!

- "Liquor fumante di Boyle"; beh, ho difficoltà a spiegarmi l'aggettivo. Era il solfuro di ammonio. Spero in un suggerimento.

- "Liquor pellegrini". A cosa servisse 'sto pellegrino non ne ho la più pallida idea, dato che con questo nome si intendeva una soluzione di acido solforico e cloruro di antimonio

- "Liquor salino volatile"... sic et simpliciter: acetato d'ammonio (forse il dottor Menderero era ancora studente...).

- "Liquor vomico eterno". Un nome così ci fa ripiombare alla grande nel pieno periodo degli atanor! Tuttavia il termine è sopravvissuto anche fino al periodo illuminista per indicare il re degli elementi alchemici: il mercurio

- "Liquor arsenicale". Adesso ci si tiene bene alla larga... ma una volta il feeling tra la medicina e l'arsenito di potassio (e l'elemento 33 in generale) era assi più stretto... con i risultati che possiamo facilmente immaginare!

- "Liquor saturato della parte colorante dell'azzurro di Berlino": dalla lunghezza del nome sembra il titolo di un film della Wertmuller. Ci si può immaginare un liquido blù, e invece è appena appena giallino: si tratta di una soluzione di ferrocianuro di potassio

---

Anche se gli alchimisti son finiti da tempo, ancora ai primi dell'ottocento sopravvivono spiriti e liquori... e non solo: resiste pure la "terra muriatica di Kirwan" (MgCO3), l' "aria pezzente" (H2S!), eccetera...

Ma ancora per poco, pochissimo: la chimica, quella vera, ha già bussato alla porta, prepotentemente.
Spiriti, liquori, terre, arie, nomi fantasiosi... addio per sempre!

E la scena sfuma... giù il sipario, non pensiamoci più e tornimo ai giorni nostri!

 
 
 

Uno spiraglio nella campana

Post n°219 pubblicato il 07 Febbraio 2013 da paoloalbert

Voglio battere il ferro finchè è caldo.

Chi ha seguito fin qui la faccenda della produzione storica dell'acido solforico, ha visto che ho voluto sottolineare con forza come non mi convincesse affatto la semplice combustione dello zolfo come origine di anidride solforica in quantità tali da poter essere sfruttata industrialmente.
E sicuramente non ero il solo ad avere questa convinzione.
Infatti se bruciamo zolfo all'aria, anche con l'ausilio di ossidanti, si sviluppa in prevalenza anidride solforosa, con la SO3 che rimane in grandissimo subordine.
Ho constatato ciò in una infinità di passate esperienze ed è facilissimo verificare.
D'altro canto c'è l'evidenza storica: l'acido solforico si produceva NEL MODO DETTO... alla faccia di tutte le nostre convinzioni!

Allora dov'è la novità? Per il caso che ho lasciato aperto alla fine del post precedente si può ipotizzarne una soluzione ragionevole? Ora sono del tutto convinto di sì!

Mi permetto di riportare il riassunto di un paio di interessanti conversazioni che ho avuto con una persona che gode della mia massima stima e fiducia.

                             ---°°°OOO°°°---

Ecco in sostanza quanto l'amico Franc mi dice:

- Nelle ordinarie combustioni di sostanze in cui è presente lo zolfo, il rapporto SO3/SO2 si mantiene circa pari all'1% in volume. Tale valore può aumentare fino a 10 volte in presenza di catalizzatori metallici o agenti ossidanti, ma può anche diminuire dello stesso fattore se l'ossigeno non è costantemente in eccesso perchè la gran parte va a formare primariamente solo SO2.
Se si tenta di bruciare il solo S in solo O2, niente SO3 sarà prodotta, perchè, una volta prodotta la SO2, la T che si raggiunge nell'ulteriore ossidazione è troppo elevata e spinge l'equilibrio verso sinistra:

2 SO2 + O2 --> 2 SO3 + calore

è per quello che nei processi industriali (fin dalle vecchie camere a Pb) si usa l'aria, così gran parte del calore va a scaldare l'azoto; i grandi volumi d'aria facilitano il controllo della T fungendo da volano termico, quindi sui piccoli volumi casalinghi l'operazione è più difficile.
Ma anche a T relativamente basse, il sistema SO2 + O2 si mantiene cineticamente stabile pur in presenza di NOx o altri ossidanti se l'ambiente è secco.
Guarda caso, nell'industria si alimenta il sistema con tanta aria molto umida.
Ciò significa che l'acqua non serve solo a trasformare SO3 in H2SO4, ma è al pari degli NOx, un forte catalizzatore per l'ossidazione della SO2 ad SO3 da parte dell'O2.
Una resa decente in SO3 si ha solo mantenendo il sistema gassoso vicino ad una specifica T di compromesso che concili le opposte necessità cinetiche e di spontaneità della reazione.
L'utilità della parte di NaNO3, sta a mio avviso nella reazione di decomposizione che lo coivolge:

2 NaNO3 --> 2 NaNO2 + O2

2 NaNO2 --> Na2O + NO2 + NO


con gli NOx che agiscono da catalizzatori per la conversione della SO2.
Senza questi, l'O2 dell'aria avrebbe probabilmente bisogno di giorni per essere efficace.
Se a dispetto di ciò che riportano gli avi, nella pratica amatoriale sembra non si riesca ad ottenere neanche una traccia di H2SO4 col semplice sistema descritto, probabilmente la colpa è il mancato controllo delle adatte condizioni (temperatura, tempo, umidità) all'interno della (piccolissima) "campana".

Nella nostra storica produzione, dopo qualche tempo (?) e qualche carica (?), nel sistema gassoso si realizzerebbe sicuramente l'equilibrio SO2/NOx/vap. H2O ad una T sostanzialmente intermedia a quella di ebollizione dell'acqua e di combustione della carica (che genera solo SO2); allora il problema è legato ad un'attesa più o meno lunga (che dipende proprio da quanto è alta la T intermedia).
Ammettendo che sia vero quanto sopra, non è difficile credere che si possa arrivare ad ottenere dell' H2SO4 anche con un sistema rudimentale, tipo quello che hai descritto nel tuo articolo-

                               ---°°°OOO°°°---

Visto ora così, il suggerimento SEMBRA banale, ma Franc è stato il primo a proporlo nel suo insieme in maniera ben articolata, ed è giusto dare a Cesare quel ch'è di Cesare.
Ragionandoci su, sono giunto alla conclusione che il meccanismo di reazioni che avvenivano nella "campana" (intesa come grande camera di reazione) sia effettivamente corretto come suggeritomi, almeno in linea di principio.
Il catalizzatore mancante, quello delle future camere a piombo (NOx), in realtà c'era anche nella campana... bastava cercarlo!

Caso risolto quindi? Per quanto mi riguarda, e fino a prova contraria, direi di sì.
Ora, più rilassato, posso finalmente andarmene nel solito vecchio teatrino in cerca dei "liquori"...

 
 
 

La copiosa Repubblica degli Acidi...

Post n°218 pubblicato il 04 Febbraio 2013 da paoloalbert

Già che siamo in tema strorico, che è inverno, che il lab è inagibile... prendo al volo la palla lanciata da Marco riguardo "l'olio vitriolico" (ved. commento al post precedente), riportando integralmente la fabbricazione dell'acido solforico come avveniva realmente ai primi dell'ottocento, secondo la suggestiva descrizione che ne fa Felice Ambrosioni nel 1823.
Ho pertanto seguito il consiglio e riesumato il prezioso "Manuale per i Droghieri" del farmacista pavese, del quale ogni tanto mi servo.

                                  ---°°°OOO°°°---


ACIDO SOLFORICO

La copiosa Repubblica degli Acidi non ne ha uno che stia di fronte all'acido solforico tanto pei lavori e le ricerche dedicate al medesimo da quasi tutti i Chimici, quanto per gli usi numerosi ai quali viene destinato nelle officine e nelle arti.
La scoperta si fa rimontare al quinto decimo secolo da Basilio Valentino, il quale lo chiamò olio di vetriolo perchè lo ottenne la prima volta dalla distillazione del solfato di ferro, ossia vetriolo verde del commercio.
Le fatiche dei curiosi della natura ebbero in appresso un esito più felice perchè si trovò un altro metodo per ottenerlo più in grande e con spesa minore, metodo che venne perfezionato dall'instancabile ed illustre chimico francese Chaptal.
A Marsiglia, a Lione, ad Orleans, ed in varie altre parti della Francia vi sono fabbriche di olio di vetriolo; in Italia ne conosciamo due reputatissime, una in Milano eretta molti anni sono dal Sig. Michele Folcioni, l'altra a Torino di più recente data presso li Sigg. Sclopis e Garignani. Anche la Germania e l'Olanda hanno i suoi fabbricatori.

Il metodo comune per ottenerlo è il seguente.
Entro stanze più o meno grandi composte di tante lamine di piombo saldate le une con le altre, ed isolate e sospese ad una apposita armatura, si pone un miscuglio di otto parti di solfo ed una di nitro sopra una padella di ferro fuso, la quale poggia sopra un fornello che traversa il fondo della stanza, senza che la sua gola abbia comunicazione con la medesima.
Si copre quindi il pavimento di acqua e si accende gradatamente il fuoco nel fornello.
Presto lo solfo abbrucia, empie la stanza di vapore che viene di mano in mano assorbito dall'acqua.
Finita la combustione si leva la padella, e se ne aggiunge un'altra contenente la stessa dose di solfo e nitro, quindi si rimette il fuoco.
Queste combustioni si fanno ripetutamente non senza rinnovare ogni volta la corrente d'aria necessaria alla combustione del solfo, sino a tanto che il liquido segni 40 gradi circa sull'aerometro di Baumè.
L'acido che si è ottenuto in questo modo non è di quel grado di concentrazione che vuolsi dal commercio, ed è molto impuro, pertanto si concentra e si depura passabilmente trasportandolo in caldaje di piombo dove si fa riscaldare fino a tanto che la sua concentrazione sia portata alli 55 gradi dell'indicato aerometro, quindi si introduce in storte di vetro lutate, o di gres, ed in fornelli adattati si passa alla distillazione di una nuova quantità d'acqua di acido solforoso e di acido nitrico.
Questa nuova operazione dura fino a tanto che l'acido si concentri da segnare i gradi 66; in allora si leva dalle storte e si ripone in damigiane di vetro bianco o nero, e di varia grandezza.
L'olio di vetriolo del commercio non è mai perfettamente puro, per le arti però è abbastanza adattato; i Chimici per alcune operazioni delicate lo distillano ad una temperatura assai elevata.

Si conosce nel commercio un'altra qualità di acido solforico che si denomina olio di vetriolo fumante, perchè nel versarlo da un vaso all'altro tramanda un leggiere fumo.
Questi è l'acido che si ottiene dalla distillazione del vetriolo verde, generalmente ha un colore oscuro, è molto più concentrato dell'ordinario, ed esala qualche vapore in dipendenza di alcune porzioni di acido solforoso che contiene.
L'acido solforico che abbiamo dalle fabbriche delli Signori Scolpis e Garignani, e dal Sig. Folcioni è un liquido bianco trasparente, inodoro e di una consistenza oleosa; quello di Francia, che ci perviene in damigiane di vetro nero del peso di libb. 300 circa cadauna, per l'ordinario è un po' colorito, ma per il resto è identico agli altri due.
Fatta astrazione all'acqua che lo tiene in istato liquido è composto da 100 parti di solfo e 98 di ossigeno; allorchè ha la concentrazione di 66 gradi pesa il doppio dell'acqua.

E' uno dei caustici più violenti, la sua azione pertanto sulle sostanze animali e vegetabili è pronta, distrugge il loro organismo, e qualche volta gli fa cambiar natura; due parti di quest'acido e una di acqua insieme unite elevano la temperatura al di là dei cento gradi.
Numerosissimi sono gli usi dell'acido solforico.
L'orefice, ed il lavoratore del rame lo adoperano per pulire la superficie dei metalli, il confettore per gonfiare le pelli nella concia, il tintore per disciogliere l'endaco, il veterinario per cauterizzare le piaghe gangrenose, finalmente gli speziali lo destinano ad usi innumerevoli.
La sua vendita non pare compresa in alcun divisamento Governativo, quindi è libera.

                                ---°°°OOO°°°---

Così parlò l'Ambrosioni, facedondoci rimanere, come previsto, al punto di partenza!

Sto cominciando a convincermi, seppur con enorme fatica e visto che non ho trovato nessuno che smentisca l'evidenza storica dei fatti, che bruciando "solfo" ne risulti "per forza" anche una non trascurabile quantità di anidride solforica.

L'aggiunta di acido nitrico citata nel testo (il quale potrebbe esser preso come "l'ossidante mancante") avviene come si è visto solo nella seconda fase della preparazione, quando il nostro H2SO4 aveva già la notevole concentrazione di 55 gradi Beaumè.
Il caso resta quindi più aperto che mai.

 
 
 

ULTIME VISITE AL BLOG

graziaciottiguitarplaychiara92_bsergintdony686p_noragigrobrossigiulianoRamses670amorino11matteo_amatomaurograndi0loretolollosyamam12ps12
 
 

I MIEI LINK PREFERITI

AREA PERSONALE

 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963