Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

 

Test del bismutato di sodio

Post n°413 pubblicato il 06 Ottobre 2018 da paoloalbert

Riprendendo dalla volta scorsa... "-quella mia polveraccia scura avrà la bella forza di ossidare il Mn2+ a MnO4- ?"-

La reazione sulla quale si basa questo vecchio sistema analitico (Schneider e al., 1888) per la rilevazione del manganese si basa sulla seguente reazione:

2 Mn2+ + 5 BiO3- + 14 H+ --> 2 MnO4- + 5 BiO+ + 7 H2O

ed in pratica, lavorando in ambiente nitrico

5 NaBiO3 + 2 MnSO4 + 16 HNO3 → 5 Bi(NO3)3 + 2 HMnO4 + 2 Na2SO4 + NaNO3 + 7 H2O

sfruttando l'intensissima colorazione violetta dello ione permanganico MnO4-
Il bismutato deve essere in eccesso rispetto al manganese ricercato perchè il manganese ha la singolare proprietà di interferire con la ricerca di sè stesso; infatti se gli ioni Mn2+ sono presenti in eccesso, possono reagire con il permanganato appena formatosi riducendolo a sua volta, in tal modo:

2 MnO4- + 3 Mn2+ + 2 H2O -->  4 H+ + 5 MnO2

(Provando infatti ad aggiungere qualche goccia di soluzione di permanganato ad una di MnSO4 si nota che si decolora e imbrunisce per la formazione di MnO2)

Si procede deponendo una puntina di spatola della sostanza in esame in una provetta.
Si aggiungono poi 3-4 ml di acido nitrico diluito 1:1
Si scalda gradualmente (ma la reazione avviene già a freddo) e si aggiunge un eccesso di bismutato; in presenza di Mn2+ la soluzione assume la colorazione viola tipica dello ione permanganato MnO4-

Nel mio caso ho verificato, oltre all'efficacia del metodo, a saggiarne la sensibilità preparando delle soluzioni a concentrazione decrescente di solfato di manganese (da 1 g/l a 100 mg/l).
La colorazione viola è evidente nell'immagine, utilizzando come test la soluzione più diluita di MnSO4 (100 mg/l).

 

bismutato test


Lo si sapeva già, ma per concludere (non avendo mai provato tale metodo in pratica) ho galileianamente verificato che il bismutato alcalino ossida il manganese a manganico?
Sì, verificato
.

E posso dire che la mia polveraccia bruna che assomiglia all'ossido pulce (!) contiene una accettabile quantità di bismutato di sodio NaBiO3?
Sì, credo di poterlo dire.
E per oggi tanto basta.

 
 
 

Sintesi del bismutato di sodio

Post n°412 pubblicato il 26 Settembre 2018 da paoloalbert

Nel precedente articolo sullo xeroformio (tribromofenato di bismuto), accennavo al futuro tentativo di preparare una minima quantità di quell'interessante composto analitico, o meglio ex analitico, che è il bismutato di sodio, NaBiO3.
Interessante perchè questo composto ha un potere ossidante tanto forte (qui il bismuto ha numero di ossidazione 5, pot. st. rid. E° = 1,70 V) da riuscire a ossidare lo ione manganese Mn2+ a ione permanganato MnO4-, notoriamente a sua volta uno degli ossidanti più energici.
Per battere un forte naturalmente ci deve essere uno ancora più forte!
Dopo aver preparato l'ossido di bismuto (ved.) per arroventamento del tribromofenato, ho cercato in quelle vecchie fonti insostituibili una procedura per la preparazione dei bismutati alcalini.

[Cosa faremmo noi chimici sperimentali ruspanti (categoria umana che si avvia verso l'estinzione) senza quegli storici libri come il Vogel, il Molinari, il Brauer, il Treadwell, il Gattermann... eccetera? Probabilmente non saremmo nemmeno mai esistiti. Per questo considero questi libri fonti bibliografiche di valore inestimabile].

Una possibile procedura per il NaBiO3 la si trova sul Brauer, ed è quella che ho cercato di seguire, fatte salve le diverse proporzioni.
Volevo preparare per mia curiosità solo quella minima quantità di bismutato per eseguire qualche saggio sul manganese.

Materiali occorrenti:

-ossido di bismuto, Bi2O3
-idrossido di sodio, NaOH
-bromo, Br

La procedura, coinvolgendo quanto sopra, non è certo "friendly" e presuppone di lavorare assolutamente di conseguenza... ma su questo punto non insisto più di tanto.
Come il solito si sappia bene quello che si fa, in questo caso a maggior ragione.
La reazione su cui si basa la procedura è la seguente e sfrutta l'ipobromito che si forma in situ:

Bi2O3 + 6 NaOH + 2 Br2 = 2 NaBiO3 + 4 NaBr + 3 H2O

-Sospendere 1,7 g di Bi2O3 in 15 ml di NaOH al 40% e agitando vigorosamente aggiungere goccia goccia 3 g di bromo e portare all'ebollizione.
Date le modeste quantità in gioco e la tendenza del bromo ad evaporare facilmente dall'ambiente di rezione (e a trasferirsi nell'ambiente circostante...!!) ne ho usato un eccesso, un paio di ml (d. 3,1).

bismutato 1


Si forma subito un precipitato bruno, che va filtrato e lavato con NaOH al 40% e sospeso in 30 ml di acqua.
Il Brauer dice che mescolando la sospensione e aspettando un certo tempo il colore passa dal bruno al giallo; questo da me non è successo, il precipitato è sempre rimasto bruno scuro.
Lasciar depositare il prodotto, filtrare, diluirlo in 15 ml di NaOH al 53% (chissà poi perchè proprio al 53%!) e portare a riflusso per mezz'ora.

bismutato 2

Il precipitato bruno (sempre bruno) risultante è decantato, filtrato e ancora lavato con NaOH al 50%.
Sospenderlo poi in 30 ml di acqua, mescolando; in tale fase dovrebbe riassumere colorazione giallastra, cosa che nemmeno stavolta si è verificata.
Lavare con acqua, visto che il prodotto è uno di quei rarissimi sali di sodio insolubili, ed asciugare.

bismutato 3


La resa dovrebbe essere dell'83% secondo il Brauer, nel mio caso si è fermata al 56%; lavorando così in piccolo mi ritengo comunque soddisfatto.
Il bismutato di sodio dovrebbe presentarsi come una polvere amorfa di colore dal giallastro al bruno, mediamente con 3,5 molecole di acqua di cristallizzazione.
Se il prodotto commerciale si trova all'85% di purezza, nel mio caso è sicuramente molto inferiore e si tratta di una miscela quantitativamente indefinita di Bi2O3, Bi2O4, NaBiO3 di colore bruno scuro, simile a quella sostanza che una volta era detta "ossido pulce" (che bel nome! E qui non dico cos'è!).

La prossima volta vedremo lo scopo di questa preparazione, ovvero il test col manganese, e si verificherà se la mia polveraccia scura avrà la bella forza di ossidare il Mn2+ a MnO4-

 
 
 

Arrivo!

Post n°411 pubblicato il 19 Settembre 2018 da paoloalbert

Ahi, ahi, povero blog, ti ho semiabbandonato!
Più di un mese senza un post, mi sa che se continua così vai a finir male.
Ma arrivo, arrivo, il magnete nordico mi ha rilasciato da un bel po'.
Il tempo di preparare una sintesella e ti dò una delle ultime (?) boccatine d'ossigeno almeno per la sopravvivenza.
E sì, il terribile post n.386 (chi vuole può andarselo a rivedere) vuole le sue vittime, non c'è niente da fare, e quella storia dell'onda purtroppo è inesorabile.
A fra poco!

 
 
 

Il magnete mi attira

Post n°410 pubblicato il 11 Agosto 2018 da paoloalbert

estonia

 

Sono come l'ago della bussola: il magnete mi attira.
Anche quest'anno me ne vado un po' nel profondo Nord.
Non profondo come vorrei ma quanto basta.

 
 
 

Composti d'antiquariato

Post n°409 pubblicato il 23 Luglio 2018 da paoloalbert

Sono andato qualche tempo fa, per curiosità, a vedere quel colossale mercatino dell'antiquariato che si svolge l'ultima domenica del mese a Piazzola sul Brenta.
Si tratta certamente del più grande mercatino italiano del genere, dato che le bancarelle (di ogni tipo merceologico) sono centinaia e centinaia... tutta la bella cittadina ne è invasa.
Guarda cosa ho trovato su una bancarella, assieme ad altre bottigliette:

xeroformio



Una antica confezione di Xeroformio, ovvero di Tribromofenato di bismuto!

xeroformLa formula sopra riportata è come la dice il Merk Index, tuttavia altre fonti occupano una valenza del bismuto con un ossidrile, e lo chiamerei in tal caso tribromofenato basico, (C6H2Br3O)2BiOH
Altre fonti aggiungono al bromofenato anche una molecola di ossido di bismuto, (C6H2Br3O)2BiOH.Bi2O3
Ritengo che il tutto derivi dai metodi di fabbricazione di questo vecchio composto, ed anche dalla predisposizione del bismuto a formare appena può sali basici.

Lo xeroformio è un buon antisettico, ancora usato, che si presenta come una polvere appena appena giallina con lieve odore "di disinfettante"; probabilmente il suffisso "formio" gli deriva dal più noto iodoformio e l'odore lo richiama infatti lievemente.

Arroventando il composto, la parte organica si decompone completamente (con abbondante fumata, agire in ambiente opportuno) lasciando un residuo di ossido di bismuto Bi2O3, nettamente giallo a caldo e grigio giallino a freddo.

 

ossido di bismuto

 

L'ossido di bismuto così prodotto può essere usato per produrre qualche sale di questo metallo; esso si scioglie perfettamente in HCl formando BiCl3, il quale è stabile in ambiente cloridrico ma precipita immediatamente per diluizione come ossicloruro, BiOCl.
Per diluizione sono facilmente formati e stabili gli altri ossialogenuri BiOBr e BiOI.
Composti del bismuto assai interessanti sono i bismutati alcalini (Na-, KBiO3), dal potere ossidante tanto forte da riuscire facilmente a ossidare il manganese Mn2+ a permanganato MnO4- ed usati a tale scopo come antico metodo analitico.

Sempre affascinato da queste storiche procedure, vedrò se mi sarà possibile tentare di preparare una piccola quantità di NaBiO3, riferendo poi l'esito di questi esperimenti.
Per la cronaca: vicino alla bottiglietta di xeroformio ve ne era sulla bancarella un'altra ancora più interessante, che ho però lasciato dov'era perchè il contenuto era veramente pochino: si trattava di sodio metilarseniato

sodio metilarseniato

con il diabolico fascino dell'elemento trentatre...

 
 
 

Intervallo d'estate

Post n°408 pubblicato il 21 Giugno 2018 da paoloalbert

L'Aconitum napellus non è certo una pianticella comune, ma ha una interessante particolarità: è la più velenosa della nostra flora.
Percorrendo un sentiero situato vagamente non lontano dalle "mie" montagne, ho incrociato una quantità di napelli davvero impressionante: un incontro così denso e pregno di aconitina, sparso addirittura in alcune centinaia di metri, non mi era mai capitato nelle mie peregrinazioni montane.

 

aconitum napellus

 

Va bene qualche pianticella, ma mai viste così tante, fra erbacce e lamponi selvatici!
L'aconitina è quella bella molecola qui sotto ed è uno dei veleni vegetali più potenti, con una LD50 di un paio di mg (un centinaio di volte maggiore (!) di quella del famoso "cianuro", che tutti hanno almeno sentito giornalisticamente nominare. Per cosa sia la LD50, consultare S. Google).

 

aconitina

 

Avrei voluto soffermarmi e fare qualche foto decente e ravvicinata ai begli elmetti azzurri, ma non ne ho avuto la possibilità... sarà per la prossima volta.

Intanto ieri mi sono accorto che adiacente all'orto è nata anche quest'anno la figlioletta di un vecchio stramonio (Datura stramonium) che mi rallegrava l'occhio negli anni passati con i suoi eleganti calici bianco-violacei e con quelle singolari "palle" aculeate, piene di "scopolaminici" semini.
Belle molecole anch'esse, delle quali ho già parlato.

Evviva il solstizio!
Oggi è iniziata l'estate astronomica, godiamoci questa meravigliosa stagione.

 

 
 
 

Ondina 33, Coltano...

Post n°407 pubblicato il 02 Giugno 2018 da paoloalbert

Ma cosa sono l'Ondina e Coltano? Riguarderà roba vecchia di sicuro, dirà qualcuno che capita non per la prima volta su questo blog.
Sì, roba vecchia, roba di storia.
Nei post n. 246/7/8 pubblicai, da appassionato di spedizioni polari, qualche riflessione sulla vicenda della Tenda rossa di Nobile del 1928 (link); poco tempo fa passando da La Spezia sono andato a rivedermi al Museo Tecnico Navale la radio protagonista della conclusione felice della mezza tragedia, appunto il trasmettitore Ondina 33.
(Perchè 33? 33 sono i metri di lunghezza d'onda usata da questo apparecchio nella spedizione, pari a 9090 KHz).
Vedere dal vivo un oggetto mitico (qualunque esso sia, per un appassionato ad un argomento) è sempre una gran cosa.

L'Ondina in pratica è una anonima bruttina scatolotta di legno scuro, con qualche milliamperometro e qualche manopola sul frontale, un oggetto che "se non se ne conosce la storia" non fa certo soffermare un frettoloso visitatore del bel museo.
La mia fotografia, senza illuminazione e piena di riflessi ineliminabili dal vetro di protezione, è una delle peggiori che ho mai fatto... tuttavia eccola l'Ondina originale!
Protagonista di un frammento della storia d'Italia oggi praticamente sconosciuto, ma che ai tempi di mia nonna (ricordo che ne parlava) suscitò enorme scalpore, ammirazione e apprensione internazionale.
Altri tempi.

 

ondina 1

 

[A proposito del Museo: encomiabile l'iniziativa della Marina Militare di renderne praticamente gratuita la visita, devolvendo la simbolica cifra di un euro e mezzo all'Istituto Doria che fornisce assistenza ai figli dei marinai caduti].


                                    ...°°°OOO°°°...

E Coltano? Cos'è?

Coltano è una piccola località nella pianura sud pisana, oggi conosciuta solo dai pochi che gravitano in quella zona ma un tempo centro di importanza nazionale, da cui si lanciavano reti che avviluppavano il mondo intero.
Parlo ancora di radio e le reti sono quelle onde elettromagnetiche che con opportune condizioni arrivano dovunque.
Sempre navigando nel Gran Mare si trovano anche per Coltano tutte le notizie che si vogliono (per esempio su Wiki, link) e ne parlo qui perchè, girovagando per questa parte della Toscana, ho voluto sincerarmi di persona in quale stato di vergognoso degrado versi ancora la stazione marconiana che fu il principale centro radio italiano intercontinentale degli anni '30.

Un altro cimelio storico nazionale lasciato da decenni in totale abbandono, del quale si continua a parlare di "recupero" ma che alla data di questo post la palazzina Marconi si trovava come si vede in questa tristissima foto.

 

coltano

 

Essendo abituato da una vita "ad andare un po' in giro" anche fuori d'Italia, mi rammarico ancora di più perchè vedo com'è trattato e custodito il patrimonio storico-culturale in tanti altri Paesi, che ne fanno giusto orgoglio nazionale ed anche fonte di entrata economica (e magari si tratta di cose molto più piccole delle nostre) ma salvaguardate da una politica seria.
Se si potesse dar via metà del nostro patrimonio culturale scambiandolo con altrettanto buon senso ci si guadagnerebbe, e anche parecchio.

 
 
 

Ma quanto centrifuga la mia centrifuga?

Post n°406 pubblicato il 15 Maggio 2018 da paoloalbert

Vedendo la mia centrifughina autocostruita mi è venuta nostalgia di quei bei problemi di fisica che si facevano una volta.
(Spero proprio che non abbiano fatto la fine di storia e geografia...).
Ecco l'immagine del braccetto della centrifuga, costruita in un momento quando di necessità occorreva far virtù.

 

Centrifuga 1 Centrifuga 2

 

Fare l'attrezzo in teoria è semplice, ma è pacifico che occorre, oltre alla opportuna manualità, anche una officinetta attrezzata con gli strumenti che servono; per me nulla è più impagabile (ed usato) di quel laboratorietto meccanico che sta in quella piccola costruzione incoronata da quella superba rosa rampicante come s'è visto qualche anno fa (link) e che anche adesso è fiorita così.

Quando recentemente ho dovuto centrifugare l'idrossido ferrico per separarlo dal complesso rameico mi sono chiesto a quanti G di accelerazione fosse sottoposta una particella di quel gelatinoso idrossido per essere proiettata sul fondo della provetta anzichè rimanere in eterno sospesa nel liquido.
E già che ci siamo, a che forza sono sottoposti gli anelli che reggono le provette?
Ho fatto due calcoli ed ecco il risultato:

Il braccio della centrifuga (R), dal perno all'anello portaprovette, è lungo 5 cm (0,05 m)
Il braccio dal perno a metà della provetta (simuliamo che la particella da centrifugare sia lì) è lungo 9,5 cm (0,095 m)
La massa (m) della provetta (piena di liquido) è 24 g (0,024 Kg)
La massa della ipotetica particella assumiamo che sia 0,1 mg (10-7 Kg) - Il valore assoluto non è importante
La velocità di rotazione del motore assumiamola molto verosimilmente a 1000 giri/min (f = 16,66)

La formuletta della forza centripeta (il mio attrezzo sente la forza centripeta, non quella centrifuga! Quest'ultima riguarda la particella) è la seguente:

F = 4 ∏2 f2 R m

Dunque sostituendo si ha per la particella:

F = 39,478 * 277,77 * 0,095 * 10-7 = 1,04*10-4 N pari a 10,6 mg

La particella sottoposta ad una accelerazione per oltre cento volte il suo peso, dice: meglio che mi schiacci verso il fondo!
Notare che man mano che la particella "precipita" essa si allontana dal centro di rotazione e quindi la forza che la "tira giù" va sempre più aumentando fino a raggiungere il fondo della provetta.
[La centrifuga degli astronauti arriva ad un massimo di 10 G (e mi vien male solo a pensarci).
Qui siamo a 100 G e oltre (e meno male che non sono la particella...)].


Per l'anello della centrifuga:

F = 39,478 * 277,77 * 0,05 * 0,024 = 13,16 N pari a 1342 grammi

Ecco perchè l'accrocco deve avere la giusta robustezza e soprattutto deve essere perfettamente bilanciato, altrimenti dopo un po', se qualcosa entra in risonanza, si spacca tutto!
Tenere presente che la forza centripeta varia col quadrato della frequenza quindi aumentando la velocità di rotazione si intuisce (in questo caso intuisco bene io osservando preoccupanti vibrazioni) che non è il caso di accelerare più di tanto ma semmai di aspettare un minuto in più, tanto quello che deve precipitare precipiterà.
(Aumentando a 1800 giri la forza su ogni anello portaprovette passerebbe a 4350 grammi, e il tutto in vorticosa rotazione!)
Per questo ho munito il motore della centrifuga di un semplice variatore a TRIAC che permette di partire anche da zero e poi accelerare a piacere entro limiti di sicurezza.

Naturalmente questi problemucci riguardano i lab ruspanti, chi ha LA MEGACENTRIFUGA di buona marca non si pone questi pensieri, deve solo attaccare la spina.

Ora, sarà venuta a qualche curioso (...) la voglia di quantizzare "l'asciugatura" di una foglia d'insalata nella centrifuga da cucina?

 
 
 

Un rame residuo

Post n°405 pubblicato il 02 Maggio 2018 da paoloalbert

Finalmente la lunga lezione in cinque puntate del Prof. Catullo è finita e possiamo tornare a noi.
In ogni caso abbiamo imparato in dettaglio (o almeno l'ho fatto io) quanto fosse laboriosa l'estrazione del rame da un suo minerale povero come le piriti cuprifere agordine; laboriosissima direi, in tempi tecnologicamente carenti come quelli oggetto degli scritti precedenti.
Il Prof. Catullo ci ha dimostrato che si fa presto a dire: ... arrostimento del minerale... riduzione con carbone... un po' di passaggi, tic e tac... et voilà il lingottino di rame!
Nossignori, la musica, quella PRATICA da suonare sul campo, era (è) molto diversa e decisamente difficile ad eseguirsi!

Ecco uno dei cubetti di minerale residuo di fusione che Marco mi ha mandato, con lo scopo di farmi giocare un po' con le provette... e naturalmente io l'ho preso in parola!

Imperina 1


Il campione si presenta semivetrificato, molto duro e verosimilmente dovrebbe essere composto prevalentemente da una scoria a base di silicato ferroso; ne ho pesato dei frammenti per un totale di 3 g proponendomi lo scopo di verificare grossolanamente, con i miei metodi antichi, quanto rame contenesse come residuo.
Ho posto i granellini in un eccesso di HCl con qualche goccia di HNO3 e lasciato dissolvere a caldo e a freddo; come previsto la dissoluzione è stata lenta, difficile e parziale e la quantità passata in soluzione (per differenza) è stata di 0,92 g.
Ecco la soluzione acida dopo la separazione del solido indisciolto; dalla colorazione non vi è dubbio che vi sia ferro in grande abbondanza!

 

Imperina 2

 

Per separare il ferro dal rame ho parzialmente evaporato (non arrivando a secco) per eliminare la maggior parte degli acidi residui, poi diluito opportunamente e ripreso alla fine con un eccesso di ammoniaca.
In tal modo il ferro precipita tutto come idrossido ed il rame viene complessato come Cu(NH3)4(OH)2
Ecco il prodotto dopo il trattamento con ammoniaca:

 

Imperina 3



Ora occorre separare la soluzione rameica (ammesso che ci sia, finora certamente non si vede) da tutto quell'idrossido gelatinoso e questo è indispensabile farlo per centrifugazione perchè per semplice filtrazione sarebbe impossibile.

Ho pertanto messo in azione la mia centrifugaccia autocostruita dividendo la sospensione in più porzioni fino a separare perfettamente l'idrossido dal liquido ammoniacale limpido. Eccolo, ed è apparso anche il colore azzurro del complesso.
Il rame c'è!


Imperina 4



Ho riunito tutti i centrifugati e posto in capsulina ad evaporare a caldo, per eliminare l'ammoniaca e trasformare il complesso in ossido rameico secondo la reazione:

Cu(NH3)4(OH)2 + 2 NH4OH --> CuO + 6 NH3 + 3 H2O

Ecco il risultato:

Imperina 6


La crosticina di ossido di rame si vede bene in foto, ma in pratica è risultata una patina sottilissima, impossibile da staccare ed imponderabile, almeno per i miei mezzi.
Qualche milligrammo inchiodato alla capsulina, non di più.
(Lo so che si poteva far meglio: in crogiolino, pesando prima e dopo, eccetera)
Ho sciolto pertanto il residuo con un po' di HCl, ottenendo una bella soluzione verde (conferma del complesso tetraclorocuprato CuCl42-) che è passata ad incolore per diluizione con qualche ml di acqua data la minima quantità di rame presente.
Ho neutralizzato con poco NaOH fino a incipiente precipitazione di Cu(OH)2 e con qualche goccia di acido acetico ho portato il pH appena appena acido, per eseguire il test con l'etilxantato.

Ho già parlato di questo bellissimo saggio per il rame (link) ed l'ho voluto usare sia per la sua sensibilità sia perchè mi è particolarmente simpatico.

Le quattro provette seguenti contengono da sinistra rispettivamente due soluzioni con qualche goccia di soluzione da esaminare, la soluzione di etilxantato di potassio (CH3-CH2-CS-SK) e la soluzione con quel poco di CuCl2 derivante dal minerale.

 

Imperina 5


Le due immagini seguenti mostrano la conferma del rame come intorbidamento giallo aggiungendo il reattivo; la seconda foto mostra il precipitato formatosi dopo cinque minuti.
Le reazioni con l'etilxantato non sono specifiche (molti metalli colorano con il reattivo, ved. link sopra) ma nel nostro caso era presente (a parte tracce di ferro) solo rame quindi il test lo considero del tutto puntato sul rame.



Imperina 7 Imperina 8


E cosa si evince da tutto quanto sopra?

1- Che mi sono divertito a fare questa analisi, con l'accuratezza non certo da lab istituzionale ma sufficiente per i miei scopi

2- Che il rame è effettivamente presente nel residuo di fusione di Marco, ma che è in quantità minima, segno che la maggior parte (come volevasi!) è passata a suo tempo nella "metallina" e quindi non è finita nella scoria.

Ovvio, si dirà. Ovvio, certo. Ma ho voluto verificarlo, altrimenti chi sporca più provette di questi tempi?

 
 
 

Capitolo di metallurgia - Parte quinta

Post n°404 pubblicato il 25 Aprile 2018 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

 

Capitolo di metallurgia, tratto da un manoscritto sulle miniere della Provincia Bellunese…

(Parte quinta e ultima– Ved. Post precedente)

 

Par. VI – Terza fondita

 I kretz staccati dalla manica, dopo compita la seconda fusione, vengono uniti agli stoni rifusi calcinati, e dalla fondita di tali sostanze si conseguisce lo ston sottile, o metallina.

Il prodotto che fornisce questa operazione è di tinta grigia, offre il brillante del piombo, ma più appannato, e presenta una frattura composta di piccoli cannelini, dentro i quali si vedono i fili di rame metallico.

I pezzi sono assai fragili, ed hanno due linee circa di grossezza.

 

Par. VII – 4° Torrefazione

La metallina non si abbrustolisce che una sola volta; e a fronte del poco tempo che rimane esposta al fuoco delle roste, si formano nulla meno sopra di essa la malachite ed il rame ossidulato, la cui tinta risalta molto più di vaghezza che l’altra, che distingue le due specie illustrate nel quinto paragrafo, e si mantiene per un tempo assai più lungo.

Da questa operazione si ottengono dei pezzi che hanno la forma di grosse concrezioni tubercolose, le quali conservano tutta l’apparenza del rame metallico, sebbene alquanto sudicio.

 

Par. VIII – Quarta fondita

Con la metallina calcinata, si fondono le deposizioni raccolte nel bagno acqueo, dove s’immerge il rame rosetta per raffreddarlo; lo spolvero (rame sublimato in globetti) del camino annesso al forno di raffinazione, ed i kretz della fondita antecedente.

Il prodotto che si ritrae da questa operazione, è una massa compatta del colore del tartaro che si cava dalle botti, e porta il nome di rame nero.

Talvolta si ottiene il rame nero dalla fondita degli stoni rifusi calcinati; ma in questo caso conviene passarlo alla rosta, prima di assoggettarlo all’ultima fusione.

 

Par. IX – Ultima torrefazione

Il rame nero si estrae dal bacino sotto forma di dischi del diametro di due piedi, e della grossezza di quattro o cinque linee; e dopo di averlo raffreddato nel bagno, lo si adagia sul terreno, e si ricopre di legna e di carbone polverizzato.

Appiccatovi il fuoco, si cerca di regolare l’operazione in modo che il metallo non abbia a soffrire alcun principio di fusione; poi si levano i dischi metallici, e con mazze di ferro si percuote la loro superficie, onde separarne le scaglie ferruginose, che sopra vi aderiscono.

 

Par. X – Ultima fondita

Detersa che sia la superficie dei dischi dalle scaglie ferruginose, si traporta il metallo nel forno di raffinazione, e lo si fonde, affine di ossidare o scorificare il resto del ferro che lo rende impuro.

Il prodotto che ci somministra quest’ultima fusione presenta tutti i caratteri del rame metallico puro.

Tali sono le operazioni che si eseguiscono in Agordo sopra la pirite cuprea, onde ottenere il rame nello stato di purità.

 

                               …°°°OOO°°°…

 

Qui termina il capitolo del manoscritto di Tomaso Antonio Catullo sulla miniera Agordina, dal quale voglio trarre solo un paio di conclusioni sostanziali:

- quanto fossero lunghissime, laboriose e dispendiose le operazioni per estrarre il metallo dal minerale;

- quanto il buon esito di tutto il lavoro fosse soggetto alla capacità personale dei mastri minerari e metallurgisti.

Essi dovevano decidere quasi tutto in base alla loro esperienza, dalla quale in definitiva dipendeva il rendimento economico della miniera.

Senza contare il dispendio energetico umano, allora di poco conto (c’erano anche tanti teneri e vispi fanciulli che collaboravano!, oltre al durissimo lavoro del minatore), il dispendio energetico in termini di combustibile (legna e carbone) era evidentemente enorme, ed a farne le spese erano, nel caso in oggetto, le foreste bellunesi, apparentemente inesauribile fonte vegetale sia per gli interminabili fuochi necessari per l’estrazione mineraria del Doge sia per il legno delle sue navi.

Dal punto di vista puramente tecnico ricordo un particolare fondamentale del testo del Prof. Catullo ma che può sfuggire ad una lettura affrettata: il medesimo sottolinea l’importanza (ved. parte terza) dell’aggiunta dello schisto argilloso durante il processo di fusione, auspicandone anzi l’integrazione con minerale quarzoso, al fine di separare il più possibile il ferro dal rame sotto forma di scoria.

Tale processo è infatti fondamentale nel caso di minerali ferro-cupriferi,  secondo la reazione che semplificando al massimo può essere riassunta:

FeO + SiO2 = FeO.SiO2      silicato ferroso

che combina selettivamente il ferro (ossidato nei processi di torrefazione) a formare un silicato facilmente fusibile e separabile; il rame, più pesante, si concentra sul fondo del forno ed il silicato, portandosi via il ferro, galleggia come scoria e viene separato.

I campioncini di Marco di cui parlavo all’inizio dovrebbero essere proprio di questa natura; vedremo in seguito se un po’ di rame ne sarà rimasto inglobato.

 

 

 
 
 

Capitolo di metallurgia - Parte quarta

Post n°403 pubblicato il 19 Aprile 2018 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

 

Capitolo di metallurgia, tratto da un manoscritto sulle miniere della Provincia Bellunese…

(Parte quarta/5 – Ved. Post precedente)

 

Par. V – Torrefazione

 

Gli stoni rifusi si recano nei luoghi destinati per le arrostiture, dove si collocano di bel nuovo sopra i carboni per torrefarli.

Tale operazione viene replicata cinque o sei volte di seguito, prima di sottomettere gli stoni ad una nuova fondita; e con queste ripetute arrostiture si separano le ultime porzioni dello zolfo, e si facilita sempre più la concentrazione del rame.

Durante questo processo si possono vedere sulla superficie dei pezzi che si abbrustoliscono, i più bei saggi di rame ossidulato rosso, e di rame carbonato verde, ambedue sotto forma di concrezioni fungiformi, leggierissime, e facilmente polverizzabili.

L’azione del fuoco ha dunque potuto operare la conversione dei fili di rame, in rame ossidulato, il cui aspetto è poco o nulla dissimile da quello che distingue il rame rosso di Cornovaglia analizzato dal Chevenix; e l’azione combinata del fuoco, del carbonio, e dell’aria ha dato origine alla malachite.

Per avere una conoscenza esatta della natura di quest’ultima specie, non mi sono accontentato dell’effervescenza che vi suscitò l’acido nitrico versato a gocce sulla medesima, ma vi volli far passare nell’acqua di calce il gas acido che da essa si dipartiva, per osservarne gli effetti.

L’intorbidamento dell’acqua mi raffermò nell’opinione che io aveva intorno all’indole del minerale.

Questo interessante fenomeno avvalora l’idea concepita dal Breislak sull’origine della calcaria primitiva; il Sig. Breislak difende la fluidità ignea della terra, e crede, che allorquando la materia andavasi raffreddando, l’ossigeno si sia unito al carbonio, ed abbia generato l’acido carbonico, il quale, combinandosi con la calce elementare, diede formazione ai monti calcarei primitivi.

Anzi se vogliamo ben esaminare le circostanze che concorrono alla genesi del carbonato di Agordo, si troverà che l’opinione di questo celebre geologo viene appoggiata direttamente dalla mia osservazione, che dalle esperienze dell’Hall, e dal Bucholz, sopra cui egli fonda la sua ipotesi.

Il Sig. Hall, mediante la compressione ed il calore, convertì le polveri della calcaria in una pietra effervescente negli acidi, dura, e di una grana analoga a quella dei marmi salini: ed il Bucholz, spingendo ad un fuoco violento la creta polverizzata, ottenne, senza la compressione, una massa dura, solida, semifusa, e d’un bianco giallastro, che inclinava alcun poco al rossastro.

Si vede che i due chimici hanno sperimentato sopra la calce unita all’acido carbonico, mentre negli stoni di Agordo, questo acido non preesisteva alla formazione della malachite, ma si è invece generato nel progresso della combustione; come appunto il Breislak immaginò essere accaduto, nell’epoca in cui si sono formate le gran masse di calcaria primitiva.

Non mi venne mai di adocchiare, fra le specie minerali generate dal fuoco, nella terza arrostitura, il rame bleu, sebbene, sulle cognizioni che abbiamo sulla di lui natura, non mancassero i materiali necessarj alla produzione di questo sale.

Sono entrato perciò nel sospetto, che la varietà del colore dei due sali di rame, non provenga dallo stato nel quale si trovano le loro basi, e conseguentemente non si abbia ancora potuto assegnare la vera cagione della differenza che passa tra un carbonato e l’altro.

Pelletier si studiò d’indagare la causa che produceva questa diversità di colore nelle specie in discorso, e credè di trovarla nella minore o maggiore quantità di ossigeno di cui erano provvedute le basi metalliche..

Quindi la tinta verde della malachite fu dal Pelletier attribuita al perossido di rame, perché tale era lo stato del metallo in questa specie, laddove il rame bleu conteneva in assai minor dose l’ossigeno.

Ma in questo mezzo comparve l’analisi del Klaproth, che mostrò tutto il contrario; per lo chè hanno dovuto i mineralogisti modificare le loro idee sulla costituzione chimica delle due specie.

Noi potremmo tuttavia muover dubbio sulla legittimità delle conseguenze che si vollero dedurre dalle analisi, imperocchè, se la differenza di colore nei due minerali derivasse dalle varie dosi d’ossigeno contenute nelle loro basi, si avrebbe dovuto trovare, fra gli stoni di Agordo, il rame bleu, giacchè i due ossidi di questo metallo si possono ravvisare tanto sulle maggiori superficie dei pezzi arrostiti, che sulle cellule di cui è sparsa la loro frattura.

L’osservazione mi ha fatto conoscere che il rame verde si forma costantemente sulla parte esteriore degli stoni, ch’è la più ossidata, come lo indica la sua tinta bruno carica; mentre nei vani della spezzatura, vi ho sempre incontrato l’ossido minore di rame, o rame rosso, di cui si è fatto parola più sopra.

L’acido carbonico, col quale si trovano sempre al contatto i due ossidi, diede origine alla malachite; ed avrebbe potuto generare anco il rame bleu, se la mancanza di un qualche mezzo, che noi ignoriamo, non avesse arrestata la sua formazione.

Sembra dunque che il processo seguito dalla natura, nell’imprimere nei due sali un colore diverso, sia più recondito di quello che si è finora immaginato (Klaproth ha ricavato meno ossigeno dal rame contenuto nella malachite che dall’altro separato dal rame bleu).

Fine quarta parte

 

 
 
 

Capitolo di metallurgia - Parte terza

Post n°402 pubblicato il 14 Aprile 2018 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

 

Capitolo di metallurgia, tratto da un manoscritto sulle miniere della Provincia Bellunese…

(Parte terza/5 – Ved. Post precedente)

 

Abbiamo veduto più sopra, che lo schisto è il fondente impiegato in questa operazione; e qui aggiungeremo essere due le varietà di tal pietra, che si antepongono alle altre; lo schisto steatitico cioè, e lo schisto nero, rocce che formano quasi la totalità delle montagne poste a nord della miniera.

Sulla pietra arrostita come fondente, parmi possa aver luogo una discussione metallurgica, imperciocchè, se con unanime accordo i metallurgisti hanno surrogato a molti altri fondenti terrosi la calce, a che perseverare nell’antica costumanza di usare lo schisto?

Al bravo e zelante Sig. Zanchi Direttore dei lavori, non deve essere ignota l’efficacia con la quale opera la calce sulle miniere d’indole piritacea (la calce non agisce solamente come flusso, ma serve a neutralizzare tutto l’acido che si forma durante la liquefazione della miniera); e perciò io credo ch’egli preferisca a questa lo schisto, onde ottenere gli stoni meno carichi di ferro, ed evitare ad un’ora alcuni altri inconvenienti, che sogliono accompagnare la fondita.
S’ella è così, vediamo adesso quali sieno i materiali dello schisto da riputarsi utili alla fondita, e se questi possano cooperare con tutta quella energia che si ricerca; ovvero si abbia ad escludere lo schisto come poco proficuo, e sostituire ad esso dei fondenti migliori.

Per avere una precisa notizia sulle varietà di schisto dell’Agordino, ho cercato di segregare con l’analisi le terre che entrano nella loro composizione, e trovai che la varietà nera contiene 54 parti di silice, 20 di allumina, 9 di calce, 5 di magnesia, 4 di ferro, e 8 di perdita: e che lo schisto steatitico somministra 47 di silice, 20 di magnesia, 18 di allumina, 6 di calce, 1 di ferro e 7 di perdita.

Da ciò chiaramente apparisce, che codesti schisti non s’impiegano per ottenere gli effetti che suol produrre la calce; né tampoco per trarre profitto dall’allumina, e dalla magnesia; imperciocchè, la prima di queste terre, vi esiste in dose assai modica per riescire vantaggiosa; e le altre due si considerano poco utili al buon esito dell’operazione.
E’ dunque disvelato, che gli schisti vengono preferiti agli altri fondenti, in virtù della silice, che vi predomina nella loro composizione; la quale, secondo le testimonianze dell’Orschall, è un ingrediente necessario alla riduzione del rame piritoso.

L’uso della silice era conosciuto dall’Agricola, e dal Biringuccio (De Re metallica… - Pirotecnia…) ma non era egualmente nota la maniera di agire di questa terra sopra la vena esposta all’azione del fuoco colliquativo; per il chè, volle Mr. Gueniveau, in questi ultimi tempi riconoscere la ragione che induceva il metallurgo a trattare la pirite di rame con le polveri al quarzo.

A tal fine si recò egli alle miniere di rame piritoso poste a S.Bell; e dopo aver istituite sul luogo molte esperienze sintetiche, e fatta l’analisi di tutti i prodotti che si ottengono da ciscuna operazione, ebbe a concludere, che il ferro della pirite, appena trasmutato in ossido, si combina alla silice, e forma con essa un vetro assai fusibile; mentre il rame si concentra nella metallina (ston sottile), dalla quale, col mezzo di ulteriori torrefazioni, si elimina il resto dello zolfo; e l’ossido di ferro, che ancora contiene la medesima, si separa mediante il ministero della silice, che vi si unisce di nuovo, prima di sottoporla ad una novella fondita.

Ora, ritornando alla preminenza che si dà allo schisto, in causa della silice che contiene, io trovo che questa terra, essendo combinata chimicamente all’allumina, alla magnesia, e ad altre sostanze straniere alla sua natura, non può contribuire alla separazione del ferro con tutta quella efficacia che si desidera; e perciò io insinuo di sperimentare il quarzo polverizzato in luogo dello schisto, e di mescolare ad esso un terzo di carbone calcario, o meglio ancora, di calce viva, escludendo la pirite, che si adopera per salificare gli ossidi di ferro, a spese dell’acido che somministra.

Credo di aver addotto bastanti ragioni onde provare l’utilità che trarre si potrebbe dalla silice e dalla calce, qualora di volesse surrogarle allo schisto e alla pirite; tanto più che l’aggiunta di quest’ultima non è generalmente adottata; imperciocchè, se dall’un canto favorisce la fondita, dall’altro rende più complicate le operazioni, o almeno più lunghe dell’ordinario; e ciò principalmente in causa d’una maggiore quantità di ferro, di cui si caricano gli stoni.


Par. III – 2° Torrefazione


La torrefazione degli stoni crudi si eseguisce in un’aja circondata da una muraglia di mediocre altezza, che dicesi Rosta, nella quale si colloca lo ston, frapponendovi di spazio in spazio uno strato di legna, ed uno di carbone.

Non è di necessità in questa operazione di coprire il minerale con la solita terra ocracea, essendo bastanti le muraglie per impedire all’aria di insinuarsi con forza attraverso i lati della rosta, e sturbarne quindi la combustione.

Dopo alcuni giorni di fuoco, si estraggono gli stoni arrostiti, e si trasportano al forno per assoggettarli ad una seconda fondita.

Terminata l’arrostitura, si osserva, che gli stoni hanno assunto caratteri diversi da quelli che manifestavano prima di essere calcinati.

I pezzi si convertono in una massa concrezionata, di color bruno lucente, nei cui vani si scorgono di sovente alcune laminette di rame metallico.

 

Par. IV - Seconda fondita


Agli stoni calcinati si uniscono le grassure (fu imposto il nome di grassure all’ossido di rame conseguito dalla scomposizione del solfato di questo metallo, col mezzo della ghisa, o ferro impuro di ossigeno), i kretz della fondita precedente, e quelli cavati dal bacino del forno di raffinazione, onde sottoporre il tutto alla fusione.

A questi prodotti si sogliono aggiungere anche quei frammenti che si staccano dal rame nero mentre resta nel bagno acqueo per raffreddarsi; i quali si raccolgono sul fondo della fossa dopo avervi estratto il metallo.

Nel corso di questa operazione nulla v’ha di osservabile, o di nuovo, perché viene eseguita con le medesime regole della prima, e in un forno analogo a quello in cui si sono ottenuti gli stoni crudi.

Il materiale che si ricava da questa fondita dicesi ston rifuso, e corrisponde a ciò che i tedeschi chiamano spurstein.

E’ desso di color grigio all’esterno, ma rubiginoso nella frattura; e qualche volta di una lucentezza che molto assomiglia a quella dell’argento rosso dei mineralogisti.

Il suo interno è inegualmente seminato di piccole cellule dentro alle quali si vede il rame metallico, disposto in finissime e corte spille riunite in fascetti, e aggomitolate fra loro.

Molti di questi saggi sono stati spacciati dai mercanti diminerali per rame nativo.

Fine terza parte

 

 
 
 

Capitolo di metallurgia - Parte seconda

Post n°401 pubblicato il 09 Aprile 2018 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

 

Capitolo di metallurgia, tratto da un manoscritto sulle miniere della Provincia Bellunese…

 (Parte seconda/5 - Ved. post precedente)

 

Torna qui in acconcio entrare in qualche disquisizione sopra un fenomeno, che offrono i pezzi dopo l’arrostitura, i quali anziché contenere il rame equabilmente sparso in tutta la loro massa, come allora che dalla miniera vengono estratti, lo contengono in assai maggior dose nel nucleo; e la crosta rimane impoverita, come il Brocchi ha voluto assicurarsene coll’analisi.

Questo fenomeno fu allegato dal Breislak, onde vi è meglio appoggiare la di lui teoria sull’origine delle miniere; pensando egli, che i depositi metalliferi, allorchè le montagne erano ancora in uno stato fluido, o pastoso, si sieno formati in virtù dell’affinità, che gli elementi omogenei esercitano tra di loro; e per conseguenza, le molecole integranti del minerale, abbiano potuto attrarsi, e segregarsi dalle altre, che vi erano frapposte.

Tutto che l’ipotesi del nostro cel. Breislak sia la più ragionevole, e la meno intralciata di quante sieno state proposte finora per ispiegare l’origine dei filoni; pure col sussidio di essa non si possono assegnare le cagioni che hanno obbligato il materiale metallico a rimanere sparpagliato nella roccia, senza obbedire agli impulsi delle reciproche attrazioni.

L’osservazione ci istruisce, che molti minerali metallici trovansi disposti in piccoli grani sparsi nella massa pietrosa delle montagne; e molti formano parte integrante delle rocce omogenee.

Questo fatto è così comune nella natura, che non si potrebbe, se non a torto, attribuirlo a cause accidentali, occorse soltanto in alcuni terreni; ne tampoco ripeterlo dall’indebolimento delle forze attrattive; imperocchè codesti grani si trovano spesso nicchiati dentro a rocce antichissime, formate cioè in un tempo, in cui le affinità chimiche dovevano agire con la massima energia.

Del resto, gli esempi d’una manifesta attrazione, che tra loro esercitano le molecole del rame, sebbene frammiste a quelle dello zolfo e del ferro, non si adocchiano solamente nei cumuli di torrefazione, ma sono inoltre frequenti in tutti i prodotti delle molteplici operazioni cui si assoggetta il tazzone, per ricavarne il rame rosetta.

Il metallurgista che giunge alla miniera di Agordo, vede a primo colpo d’occhio, che il processo di riduzione colà introdotto, altro non è che una successiva e graduata separazione delle molecole raminose, le quali, abbandonando la superficie, si vanno a radunare nella parte centrale dei pezzi che si cimentano.

In conformazione di ciò basta osservare la spezzatura dello ston, ch'è il prodotto della fondita del tazzone, e si scorgerà nel centro di esso dei piccoli fili ed alcune laminette di rame metallico; le quali cose si possono anche vedere nell’interno dei pezzi che si sottopongono ad ulteriori torrefazioni, non nel tazzone, come è stato annunziato da altri.

Prima di compiere questo paragrafo, è giusto dar merito a quelli che hanno ideata la maniera di torrefare la pirite nel modo che abbiamo indicato, poiché le fatte modificazioni hanno così mirabilmente tolti di mezzo gli inconvenienti che derivano dall’antico metodo, che sarebbe impresa di non facile esecuzione, e forse inutile, voler adesso introdurre dei nuovi cambiamenti, onde il processo avesse a tornare più proficuo all’amministrazione.

S’è poi vero, che settant’anni addietro, il processo d’arrostitura fosse portato al grado di perfezione che si osserva oggigiorno, come sono inclinati a credere coloro che lavorano intorno ai cumuli, di maggior laude sarebbero condegni gli innovatori, imperciocchè apprendiamo dai metallurgisti tedeschi, come in quell’epoca fosse appo loro imperfettissimo il metodo di torrefare la pirite di rame.

Henkel, parlando delle operazioni metallurgiche ch’erano in vigore a suo tempo nelle miniere di Rammelsberg, si spiega, riguardo la torrefazione, nel modo seguente.

-Ridotta la pirite in piccoli pezzi, si formano con essa dei mucchi di tre piedi di altezza, e venti piedi circa di lunghezza e larghezza.

Tutta la parte superiore si copre di legna ben secche e stivate, finchè il mucchio arriva all’altezza di sei piedi.

Sopra questa legna si colloca dell’altro minerale, e quando il mucchio arriva all’altezza di nove piedi si ricoprono i suoi lati con i frammenti più minuti della miniera.

Nel mezzo del mucchio vi sono delle altre legna, che dal fondo emergono fino alla cima; e sopra di queste si getta una quantità di scorie roventi per accenderle-

Ai molti inconvenienti che fluire dovevano dall’esposto processo, si aggiunge lo svantaggio che recava alla miniera l’inutile consumo del combustibile.

°°°°°

 

Par. II – Prima fondita

Il tazzone non è il solo materiale che si destina per la prima fondita, ma a questo si uniscono i prodotti di molte altre operazioni.

Tali sono i brunini (un ossido di rame impuro di ossido di ferro, che si consegue lavando le grassure ottenute nel processo di cementazione), i frammenti di stop calcinato, che si rinvengono sul fondo del terreno dopo compiute le arrostiture, i krets (quell’incrostazione che si forma sulle pareti interne nella manica del forno) ottenuti tanto per via secca che per via umida; le loppe grasse, che si ritraggono dalle varie fondite, alle quali si associano per ultimo la pirite cruda e lo schisto argilloso.

E’ chiaro, che le ultime due sostanze si aggiungono alla mistura per determinare più sollecitamente la liquefazione delle parti metalliche, e per facilitare la separazione del rame, a cui si crede comparta energia l’addizione della pirite.

Per ispiegare gli effetti che derivano dall’unione della pirite cruda durante la fusione, io suppongo che una gran parte del ferro, di cui è ricco il tazzone, venga salificata dall’acido dello zolfo contenuto nella pirite; e ridotta che sia in una specie di colcotar, si gonfi, si vetrifichi, e si trasformi in loppe; laddove le molecole del rame, che hanno potuto svincolarsi dalle altre sostanze eterogenee, si assemblano fra di loro; e divengono specificamente più gravi, si precipitano, unitamente al ferro degli stoni, nelle parti più basse del recipiente, o bacino scavato ai piedi del forno.

L’acido dello zolfo non attacca solamente il ferro, ma entra in combinazione con tutte le terre salificabili, che conteneva la miniera, e con quelle ancora che si uniscono alla vena, onde favorirne la fusione.

Codeste terre, allorchè si sono trasmutate in Sali, assumono un aspetto vetrino, si combinano al sale di ferro, e formano con esso quella massa porosa e leggiera, che soprannuota nel bacino, e che dicesi loppe.

Caricato che sia il forno delle materie suaccennate, e del carbone, si procede alla fondita.

Quello a cui spetta il regolamento di questa operazione, esamina attentamente tutte le parti esteriori del forno, onde assicurarsi della loro solidità; poi ordina ai Braschini di accendere il forno, e di regolare le cariche del combustibile a norma del bisogno.

In capo a cinque o sei ore il minerale passa allo stato di compiuta fluidità; e si giudica che la fondita possa riescire bene, quando le parti metalliche, e le altre materie messe in fusione, escono pel foro uniformemente, e senza intermittenza.

Succede spesse volte, che una gran porzione del minerale, forse per non essere ricoperta a dovere dal carbone, s’impadrnisce dell’ossigeno, si conglutina, e forma degli ammassi di mole così grandiosa, che la manica, non essendo più capace di contenerli, si spezza in vari luoghi, e mette fuori di stato gli operai di più oltre progredire nel lavoro.

Questi ammassi altro non sono, che ferro mal fuso mescolato a poco rame; essi estraggonsi a stento dal forno, e ricevono da quelle genti il nome di ferro lovo, volendo alludere, con tale denominazione, ai guasti che producono nella manica simili ingorgamenti.

I forni di Agordo sono muniti di un foro praticato verso il loro fondo, e di un bacino destinato a ricevere la massa fluida che sgorga dal foro, composta del materiale dello ston mescolato a quello delle scorie.

Gli strati che galleggiano alla superficie del bacino, si raffreddano mediante l’influenza dell’aria esterna, e vengono levati di mano in mano che compariscono, finchè si arriva a trovare gli strati dello ston, che come più pesanti, sono sempre coperti da quelli che formano le scorie.

Lo ston, che si raccoglie sul fondo del bacino, è alquanto fragile; di aspetto semivetroso, e di colore bruno cupo.

Si ottiene in pezzi di forma circolare, grossi mezzo pollice, e anche più, nel cui interno si ravvisano dei fili di rame metallico.

Da questa operazione si conseguiscono i prodotti qui sotto segnati.

1-     Le loppe o scorie, la cui qualità serve d’indizio per argomentare se l’operazione succede a dovere.

2-     Gli stoni crudi (Rohstein).

3-     Le incrostazioni (Kretz) che si levano dalla manica interna del forno, dopo compiuta la fondita.

 

Fine seconda parte

 

 
 
 

Capitolo di metallurgia - Parte prima

Post n°400 pubblicato il 04 Aprile 2018 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

 

Capitolo di metallurgia, tratto da un manoscritto sulle miniere della Provincia Bellunese…

Di Tommaso Antonio Catullo, Professore di Tecnologia e Storia Naturale nel Liceo di Verona

(Parte prima/5 - Ved. post precedente)

 

Le varie operazioni metallurgiche, a cui si fa soggiacere una particolare varietà di rame piritoso, che da due secoli fu scoperta nelle montagne dell’Agordino, e che rese famosa la miniera donde si ritrae, meritavano, per mio avviso, di essere conosciute dai Professori di tecnologia, e da tutti quelli che si sono istruiti nell’arte di trattare in grande i metalli.

I primi troveranno nella descrizione dei prodotti, e nel metodo che s’impiega per conseguirli, nuove cose da aggiungere alle loro lezioni; ed i secondi stupiranno che il minerale si assoggetti ad un così lungo giro di operazioni, prima di ottenere il rame nello stato di purità; mentre i processi che vengono altrove praticati, sono molto più semplici e meno dispendiosi.

Ma l’indole della pirite di Agordo è tale, che cimentata in mille guise dal laborioso e zelante Sig. Zanchi, direttore dei lavori, fu trovato ch’essa rifugge da qualunque altro trattamento, e per conseguenza riuscirono finora frustranee le modificazioni indicate dai metallurgisti che visitarono la miniera, onde perfezionarne l’antico metodo.

Niuno peraltro si è avvisato d’insinuare l’uso della silice, in sostituzione dello schisto, che ancora s’impiega nella riduzione della pirite; e perciò mi sono studiato, nel secondo paragrafo, di far conoscere i vantaggi che trarre si potrebbero da questa terra, appoggiando i miei ragionamenti su quanto è stato osservato da un celebre chimico della Francia.

Io doveva far precedere a questi capitoli la descrizione della miniera, ed aggiungere un qualche cenno sulla costituzione geologica dell’Agordino; ma per non oltrepassare i limiti d’una memoria, mi sono riserbato di supplire a questa mancanza in altra occasione.

Processo di riduzione, o trattamento a secco della pirite per ricavarne il rame rosetta

Par. I – Prima torrefazione

La pirite, tradotta che sia alla luce del giorno, è destinata per l’arrostitura, ma prima la si mette in più tenui volumi; e quest’ultimo lavoro viene eseguito da un numero più o meno grande di fanciulli, dai nove ai dodici anni di età.

A tal fine, questi teneri e vispi operai, adoperano un piccolo martello, il cui manico, lungo due piedi, od in quel torno, dev’essere costruito d’un legno alquanto flessibile, all’oggetto di frangere più facilmente la pirite, e ridurla in pezzi, che d’ordinario non eccedono la gossezza d’un pugno.

Preparata la vena per l’arrostitura, viene trasportata con carrette nei luoghi esclusivamente destinati a questa operazione; e là si formano con essa dei cumuli quadrati, assettando i pezzi in maniera, che non abbiano a rimanere dei vani, e possa lo zolfo bruciare uniformemente, e svilupparsi per gradi dal minerale.

I cumuli arrivano all’altezza d’un uomo, ed hanno quindici o venti piedi di lunghezza, ed otto o dieci piedi di larghezza, talvolta più, se la superficie del luogo è ampia e piana; giacchè queste varie dimensioni dei cumuli, sono sempre proporzionate all’estensione del terreno sul quale vengono eretti.

Onde evitare possibilmente la dispersione dello zolfo, e fare che il calore vieppiù si concentri, e più regolarmente agisca su tutta la massa, si copre il cumulo con terra inumidita, di colore epatico, abbondante in què siti, e con minuzzoli della vena medesima; indi si appicca il fuoco alle legna preventivamente adagiate dentro a quattro grandi aperture, che si vedono nel fondo degli angoli di ciaschedun cumulo.

Nel breve giro di dieci ore tutte le legna si consumano, e la pirite continua ad ardere per quattro o cinque mesi.

Quando la materia, di cui sono ricoperti i cumuli, comincia a indurire, si escavano nella parte superiore di essi delle piccole buche, o bacini, che poi vengono intonacati con terra rossa impastata con argilla comune, ed anche con una specie di grauwake caduta in disfacimento.

Dentro a questi bacini vi cola porzione dello zolfo; mentre altra porzione si deposita sui lati, e sulla superficie stessa dei cumuli, dove si sono scavate le buche; e siccome per difendere l’apparato di torrefazione dalle piogge e dalle nevi, si accostuma coprirlo con una tettoia di legno, così un’altra parte dello zolfo si gazifica e si sublima sotto alle tettoie stesse, sgombrandosi di quelle sostanze straniere, di cui non ha potuto spogliarsi totalmente lo zolfo che si raccoglie nei bacini.

Lo zolfo sublimato, o in fiori, si stacca mediante un rastiatoio dalle tavole, poiché è compiuta la torrefazione; e l’altro dei bacini si estrare a quando a quando con grandi cucchiai di ferro, e si getta in appositi stampi.

Incombe agli operai, che presiedono al buon esito dell’arrostitura, di regolare il fuoco in maniera, che il calore debba essere lento e moderato, e lo zolfo possa eliminarsi dalla pirite, senza che questa abbia a soffrire un principio di vetrificazione.

Ad onta però di tutte le precauzioni messe in pratica, onde impedire che la pirite di soverchio si abbrustolisca, occorre il più delle volte di trovare varj pezzi di vena semifusi, o vetrificati; i quali vengono separati con diligenza dagli altri, e si gettano via come inutili, e come nocevoli alla fonduta del tazzone (viene così chiamato il prodotto della prima torrefazione).

Terminata la torrefazione si levano a mano a mano i pezzi, e si assembrano in tanti mucchi, per essere da un’altra compagnia di fanciulli trattati a norma delle istruzioni ricevute dai capi che dirigono i lavori.

L’incombenza loro consiste nello scegliere la pirite meglio torrefatta, ed ispogliarla col martello da una crosta screpolata e porosa che investe il tazzone, e che si forma durante l’arrostitura.

La crosta, separata che sia dal nucleo, si serba pel processo di cementazione; e la parte centrale si trasporta alle fucine per sottoporla alla prima fondita.

L’involucro che ricopre il tazzone, è di color rosso avvinato; si lascia facilmente sgretolare dalle dita; esposto per alcun tempo all’aria ne attrae l’umidità, e manifesta un sapore vitriolico, più gagliardo di quello che appalesa alla lingua, allora che viene tratto dal cumulo.

Il nucleo, ch’è tuttora piritoso, assume un colore azzurrognolo screziato, oppure conserva la tinta naturale della vena, sebbene vieppiù rinforzata dal calore della torrefazione.

Fine prima parte

 

 
 
 

Rame per il Doge

Post n°399 pubblicato il 25 Marzo 2018 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

L'amico Marco, sapendo che ho un debole per le vecchie miniere, mi ha mandato fra l'altro un piccolo campione di residui di fusione di quel minerale che si lavorava un tempo nel giacimento della Val Imperina (Agordo), luoghi a lui famigliari.
La miniera della Val Imperina fornì per secoli del rame alla Repubblica di Venezia e sopravvisse arrancando faticosamente (come gran parte delle miniere italiane) fino agli anni sessanta; il minerale era principalmente pirite cuprifera, con tenore in rame di qualche unità percentuale.
Il minerale si trovava (e se ne troverebbe ancora un poco laggiù, molto in fondo...) in vene immerse in scisti quarzosi metamorfici contigui a dolomie, e di più non aggiungo perchè basta qualche click per trovare notizie su questo ex importante sito minerario.
("Butterò nell'acido" un frammento di quel campione per vedere se in mezzo ad una montagna di ferro sia rimasta traccia di quel po' di rame che in origine c'era nel minerale prima di una fase di lavorazione e dell'esito ne dirò in seguito).
Per inciso noto con piacere che vi sono ora molto più che in passato alcuni amministratori intelligenti che si curano di valorizzare questi storici siti minerari con interventi di recupero e salvaguardia, in vista di un sicuro ritorno turistico-economico nelle aree in cui sono localizzati.

Il campione di Marco mi ha sollevato una curiosità soprattutto tecnologica: come si estraeva IN PRATICA il rame dalla pirite cuprifera (tanto ferro... poco rame) ai tempi della Serenissima?
Con un po' di fortuna sono riuscito a reperire una interessante pubblicazione del 1812, con le sue pagine tagliate grossolanamente in una spessa cellulosa ingiallita; nella consapevolezza, visto l'argomento, che probabilmente stavo sfogliando ciò che assai di rado era stato sfogliato negli ultimi due secoli, me le sono lette con ancor maggiore piacere e soddisfazione e ho deciso di riportarle integralmente, ricopiandone il testo esattamente come è scritto.
La lingua è primo-ottocentesca, quindi molto più semplice e vicina a noi rispetto a quella di Biringuccio, e la si legge unendo anche stavolta alla curiosità scientifica quella glottologica.
L'autore del saggio è un professore di Tecnologia nei Licei di Belluno, Verona e Vicenza e poi di Scienze naturali presso l'Università di Padova.

Il saggio sulla miniera di Agordo è molto lungo rispetto agli standard degli articoli del web e lo devo spezzare in più parti; correrò il forte (fortissimo?) rischio che risulti noioso appunto perchè lungo, ma siccome questo blog è eminentemente un mio diario personale, i pochi che passando da queste parti troveranno modi e argomenti per loro anacronistici salteranno dove vorranno con un colpetto di mouse.
Chi invece lo volesse leggere integralmente lo troverà in cinque puntate.
La prossima volta comincerò pubblicando la prima parte del lavoro e alla fine dovremmo saperne di più: come da un sasso ferroso contenente un pochino di rame si ricavasse nei secoli scorsi quel prezioso metallo tanto caro alla Serenissima.
Magari per farci una coniata di bagattini, un bronzo da cannone per la difesa di Candia o per rivestire la cupola di San Simeon Piccolo.
Fate voi.

 
 
 

Scommetto 50 zecchini d'oro che... - Seconda parte

Post n°398 pubblicato il 16 Marzo 2018 da paoloalbert

SCENA II - Al Caffè Pedrocchi di Padova


Caffè Pedrocchi


A Padova intanto l'esimio Conte Carburi, naturalmente a conoscenza come tutto il mondo scientifico nazionale della faccenda di Molfetta, nutre qualche dubbio: ma quello del Pulo deve considerarsi un luogo come tanti altri (anche se indubbiamente più grande e ricco) dove il nitro generato da esalazioni organiche azotate si trova depositato su delle superfici calcaree o deve veramente considerarsi come una miniera a tutti gli effetti?
Trova il coraggio e l'ardire di chiedere un parere nientemeno che a Lavoisier, il quale risponde che da parte sua è convinto che anche in quel sito, come in tutti quelli nei quali si nota la presenza del nitro, la presenza stessa sia dovuta ad una azione superficiale dell'aria su materie organiche e vegetali.
Insomma, niente miniera di KNO3 nemmeno per il più illustre chimico francese e il Conte trova in pratica confermato quello che già suppone.

Il 15 luglio 1789 (il giorno dopo della presa della Bastiglia. A proposito, caro Lavoisier: dovresti cominciare a pensare più al tuo collo che alla chimica...) il Carburi e l'Abate Fortis si trovano al Caffè Pedrocchi di Padova in erudita conversazione e per farla breve cominciano a bisticciare; uno (il Fortis) continua a sostenere che a Molfetta lui ha trovato una vera e propria "miniera" di nitro, l'altro (il Carburi) ammette senz'altro che il nitro c'è ma che le miniere di nitro (KNO3, insisto) non esistono.
Ognuno è sicuro di aver ragione e difende caparbiamente le proprie convinzioni, finche l'Abate non ne può più, si spazientisce e lancia la sfida:

-Scommetto cinquanta zecchini! Wallerio (un autorevole naturalista svedese, Johan Wallerius) e l'Accademia Reale delle Scienze mi daranno ragione: a Molfetta si tratta di nitro di miniera"-


SCENA III - Al Pulo di Molfetta

Il materiale nitroso del Pulo viene inviato per essere analizzato sia a Napoli che al famosissimo chimico Martin Heinrich Klaproth (lo scopritore dell'uranio e dello zirconio): tutti i responsi sono però sfavorevoli al Fortis, che è sempre più depresso, si lamenta anche con l'amico Lazzaro Spallanzani e si sente quasi vittiMa di una congiura.
(Caro Abate, mi vien da dire, se la "miniera" è fallimentare e butta solo una miseria di nitro...fattene una ragione!)
Molti anni dopo nel 1808 (e nel Pulo le pecore avevano ripreso a pascolare) finalmente parte da Napoli l'Ispettore Generale delle Nitriere il Cav. Pietro Pulli per la Puglia Puecezia (la terra di Bari), con l'intenzione di chiarire e riferire una volta per tutte cosa ci sia in quel gran buco.

Scende e visita accuratamente le grotte Ferdinando e Carolina ed in sostanza ecco le sue parole:

 

Libro Pulli

Pulli


Trova che tutto attorno al Pulo e nel fondo vi sono tracce inequivocabili di coltivazioni agricole e allevamenti animali (pecore) che probabilmente datano dalla notte dei tempi e che tutto ciò giustifica, viste le condizioni geomorfologiche della cavità, la presenza di materiale nitroso.
Pur tuttavia conferma che la presenza è scarsa sia di quello buono (di potassio) e ormai anche di quello cattivo (di calcio).
Aggiunge che il credere che la sostanza sia di origine fossile "non è da ammettersi" e che in pratica è inutile cercare una "miniera" che non esiste.
Visita per bene anche le installazioni fatte costruire dal Fortis: fornaci, caldaie, tettoie, vasche, ormai quasi tutto abbandonato e diroccato.

Trova anche che il pozzo da quale si attingeva l'acqua per le operazioni di lisciviazione dimostra di fornire acqua ricca di "muriato di soda e di magnesia", quindi addirittura salmastra!
Il Cav. Pulli si permette in conclusione di dare uno spassionato consiglio al Governo francese di Napoli: perchè non sfruttare il suolo del Pulo per coltivare olivi, vendere l'olio e utilizzare il capitale per costruire una vera nitriera?
Consiglio davvero pregevole, soprattutto per la (poco) velata ironia.

E questa fu la pietra tombale sulla miniera di salnitro del povero Abate Fortis.
Dico povero perchè aveva dovuto pagare i cinquanta zecchini al Conte Caluri?
Purtroppo questo fondamentale dilemma, sul quale si basa tutta la commediola, è destinato a rimanere insoluto.
Non ho idea se la scommessa sia stata onorata (ma credo di no).

 
 
 

Scommetto 50 zecchini d'oro che... - Prima parte

Post n°397 pubblicato il 07 Marzo 2018 da paoloalbert

Ho seguito qualche tempo fa una piacevolissima conferenza storica avente per tema "Le nitriere artificiali secondo il Conte Gazzola".
Mi è rimasta, alla fine, la voglia di approfondire un po' una amena e curiosa questione, collaterale alle nitriere settecentesche e che con quelle del Gazzola non ha nulla a che fare, ma che è significativa per il periodo: la disputa fra l'Abate Fortis e il Conte Carburi e l'ultima pietra posta sulla questione da parte di Pietro Pulli.
E' evidente che a questo punto devo dare un volto agli attori della commedia di oggi, altrimenti rimarrebbero solo emeriti sconosciuti sepolti dall'oblio di un paio di secoli e oltre.
Siamo ai tre quarti del diciottesimo secolo, la Rivoluzione francese incalza.

Il Conte Gazzola rappresenta solo il pretesto per iniziare il mio discorso, poi non avrà più parte.
Giovanni Battista Gazzola (Verona 1757-1834) era un colto naturalista di quel periodo illuminato, oltre che grande collezionista dei già famosi fossili di Bolca con i quali aveva allestito un ricco museo; la sua importante collezione gli fu confiscata seduta stante nel 1797 appena mise piede nella città scaligera quel geniale condottiero (e ancor più gran ladrone) che fa rima con Napoleone e la raccolta si trova da allora al Museo di Storia Naturale di Parigi.
Ma questo non c'entra; ecco invece gli

 

ATTORI DELLA COMMEDIOLA DI OGGI:

L'Abate Alberto Fortis (Padova 1741–Bologna 1803).
Letterato, geologo e naturalista, ebbe il merito fra gli altri di scoprire ed esplorare, durante un suo soggiorno in Puglia un fenomeno naturale e "geologicamente" interessante che poi vedremo; si comprenderà anche perchè ho messo le virgolette.

Il Conte Marco Carburi (Cefalonia 1731-Padova 1808).
Medico dedicatosi prevalentemente alla chimica, per la quale aveva gran passione e competenza, e docente della materia presso la prestigiosa università patavina.
Una piccola curiosità: fu il primo a isolare l'anidride solforica (SO3) cristallizzata, ritengo sicuramente prodotta da una efficace quanto tosta distillazione dell'H2SO4 fumante. Tanto di cappello.

Il Cavaliere Pietro Pulli (Terlizzi 1771-Parigi 1842).
Fra una chilometrica lista di titoli professionali e accademici si trova anche ad essere Ispettore Generale delle Nitriere e Polveriere del Regno di Napoli.
La borbonica lista di titoli fornisce fiducia nell'attendibilità delle sue considerazioni in merito alla questione di cui si parlerà.

LUOGHI DELLA COMMEDIA:

- il Caffè Pedrocchi di Padova ed il Pulo di Molfetta.

Il Pulo di Molfetta è una grande cavità di crollo di origine carsica, come tante ve ne sono in quel territorio.
Ha un diametro di oltre 150 metri ed una profondità di una trentina.
Sicuramente un bel buco da visitare anche oggi (link).

pulo

 

SCENA I - ANTEFATTO NEL PULO DI MOLFETTA

Il Canonico Giuseppe Giovene e l'erudito Minervini, naturalisti di Molfetta, invitano l'Abate Fortis nel 1783 a continuare in maniera scientifica l'esplorazione sistematica del Pulo, già da loro iniziata.
Ciò che subito desta interesse al nostro Abate sono le abbondanti efflorescenze che ricoprono parecchie zone delle pareti della dolina di crollo, che sembrano essere ciò che comunemente si riteneva (e che purtroppo erroneamente si ritiene tutt'ora) salnitro, ovvero KNO3.
I rilevamenti del Fortis fanno scalpore e subito si diffonde la notizia di una "miniera" di salnitro a Molfetta.
Le autorità militari borboniche ovviamente non si fanno sfuggire la ghiotta occasione di impiantare immediatamente (già nel 1784! ...quando si dice la proverbiale efficienza borbonica!) una Reale Nitriera nel fondo del Pulo, per estrarre convenientemente i nitrati che la natura sembra fornire quasi con nessuna fatica, senza dover ricorrere alle laboriosissime procedure che le nitriere artificiali richiedono.

[Nota - L'antica industria del nitro era assai più complessa di quello che si crede. Ne ho parlato la prima volta [link post 290 e seg.] riportando il sistema di fabbricazione di Biringuccio, che praticamente è rimasto quasi immutato per secoli].

Il Re di Napoli manda un chimico e un ingegnere, tecnici della Commissione del Real Salnitro in sopralluogo ed i due esperti sono categorici: il nitro del Pulo ha origini minerali ed è abbondantissimo! Una bella miniera a cielo aperto insomma. Cosa vuoi di più?
E l'impianto viene realizzato sui due piedi con la consulenza del Fortis, senza ulteriori approfondite indagini scientifiche.
Consiste in un sistema di fornaci e vasche di decantazione ed evaporazione delle acque di dilavamento delle terre nitrose estratte dalle grotte laterali della dolina (subito ossequiosamente chiamate Grotta Ferdinando e Grotta Carolina: rispettivamente il Re e la consorte), di caldaie per la concentrazione del carbonato di potassio estratto dalla cenere di legna e di recipienti di cristallizzazione e conservazione finale del nitrato.
L'industria sembra partire bene e suscita notevole interesse, al punto che l'impianto viene visitato da molti illustri naturalisti provenienti da ogni parte del Regno e dall'estero, tant'è che arriva a Molfetta fra gli altri perfino Tancrède de Dolomieu (quello che ha dato il nome alle Dolomiti!).
Dopo le iniziali promettenti escavazioni però la resa in salnitro si riduce progressivamente e inesorabilmente.
Si dà la colpa agli operai, all'acqua salmastra, al caldo, eccetera, ma di salnitro ne viene sempre meno.
Fortis è assai amareggiato ma persiste ad aver ancora fiducia nella sua "miniera".


INTERVALLO E COMMENTO

Perchè prima ho messo "geologicamente" e "miniera" tra virgolette?
Semplicemente perchè non esistono miniere di nitrato di potassio di origine geologica.
Esistono giacimenti di nitrati di origine evaporitica (come quelli famosissimi del Cile) ma si tratta di nitrato di sodio, non di potassio, e sono resi possibili solo dalle condizioni estremamente ed eccezionalmente aride delle località in cui si trovano.
Non sarebbero possibili evaporiti superficiali di tale tipo in un clima europeo, e non sarebbero comunque a base di KNO3.
Da dove derivava allora quel salnitro che l'Abate Fortis ed i chimici avevano indubbiamente trovato nel Pulo?
Da una specie di nitriera naturale formatasi nel corso dei secoli.
Il suolo sovrastante la dolina (ed anche il terreno del fondo) contiene materiale organico azotato di origine animale e vegetale in decomposizione che viene lentamente permeato dall'acqua piovana e percola pian piano verso il basso attraversando rocce fessurate e porose contenenti una certa (poca) quantità di potassio, quest'ultimo di origine minerale o vegetale.
Per la sostanza organica penso per esempio (oltre all'humus) a quante generazioni di pecore hanno nei secoli pascolato e deiezionato attorno e dentro quel buco; certo hanno aiutato significativamente a farne una nitriera quasi naturale, alla quale non può venir attribuita una genesi geologica.
I batteri nitrificanti (come nelle nitriere artificiali) si occupano di ossidare l'azoto ad azoto nitrico (NO3-) il quale in contatto con la roccia calcarea dà origine a (scarse) patine cristalline di KNO3 e molto più abbondanti di nitrato di calcio, Ca(NO3)2.
Ma col nitrato di calcio non si fa la polvere da sparo e occorre convertirlo in potassico con l'aiuto della cenere di legna, che contiene K2CO3, e di laboriosi passaggi di concentrazione, precipitazione, separazione, cristallizzazione.
Intanto dopo la Gran Rivoluzione il Regno di Napoli traballa, va a finire in mano francese e intanto il Pulo declina sempre più.

E dove sta la scommessa da 50 zecchini?
Quella verrà nella prossima puntata.

 
 
 

Lo strano "teorema di Kohn"

Post n°396 pubblicato il 26 Febbraio 2018 da paoloalbert

L'ho trovato non ricordo dove nella Grande Palude, gettando l'amo per chissà cosa.
Anzichè la solita scarpa delle barzellette è venuto a galla questo singolare oggetto matematico.
Non so nulla della genesi e storia di questo "teorema" (forse figlio del grande fisico-chimico-matematico Walter Kohn?) se non i suoi strani effetti sui numeri, effetti che ho trovato intriganti e curiosi.
La matematica è piena di queste stranezze, che per i veri matematici ovviamente sono solo stranezze apparenti.
E' un po' macchinoso da enunciare, ma in sostanza si presenta così:

- Dato un qualsiasi numero se ne faccia il cubo di ogni cifra;

- si sommino poi tutti i cubi fra di loro ottenendo un altro numero;

- anche di questo si faccia il cubo di ogni cifra e poi si sommino;

- si continui in questo modo finchè dopo poco tutto termina...

- con uno di questi numeri:
  
153, 370, 371, 407

- oppure con una di queste sequenze:
  
136-244, 919-1459, 133-55-250, 160-217-352

Strano vero? Provare con qualsiasi cifra, grande o piccola, dopo un paio di passaggi il numero ottenuto si riduce immediatamente a 3-4 cifre e poi con qualche successiva iterazione si ricade inesorabilmente in quella manciata di risultati.

Esempio #1:

-numero pensato 2018
- i cubi sono 8, 0, 1, 512
- la loro somma è 521
- i cubi ora sono 125, 8, 1
- la loro somma è 134
- i cubi ora sono 1, 27, 64
- la loro somma è 92
- i cubi ora sono 729, 8
- la loro somma è 737
- i cubi ora sono 343, 27, 343
- la loro somma è 713
- i cubi ora sono 343, 1, 27
- la loro somma è 371
- i cubi ora sono 27, 343, 1
- e possiamo continuare all'infinito, la loro somma è sempre 371

Esempio #2:

-numero pensato 4
- cubo 64
- cubi cifre 216, 64
- somma 280
- cubi cifre 8, 512, 0
- somma 520
- cubi 125, 8, 0
- somma 133
- cubi 1, 27, 27
- somma 55
- cubi 125, 125
- somma 250
- cubi 8, 125, 0
- somma 133
- e così via all'infinito, la sequenza 133, 55, 250 rimane inchiodata.

E' inutile illudersi, se si fanno bene i calcoli torna sempre uno di quei quattro numeri o una di quelle quattro sequenze.
Per le potenze diverse dalla terza le cose si complicano molto, funzionano bene solo i cubi.
Perchè? Non ne ho la più pallida idea.
Magari un matematico di quelli con i controfiocchi (e di cui il mondo è pieno, vero?) avrà la risposta e pure la dimostrazione, mentre io mi sono accontentato di giocherellare con la calcolatrice.
Cosucce matematiche apparentemente inutili, ma che possono nascondere (forse) profondità concettuali insondabili.
Chissà.

 
 
 

Lo STAGNO secondo Biringuccio - Seconda parte

Post n°395 pubblicato il 17 Febbraio 2018 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Lasciamo che Biringuccio dalla Repubblica di Siena (1540) continui con il suo discorso sullo STAGNO:

 

...LA MINIERA sua anchor ehlo non la vedesse mai, perchè in pochi luochi pare che se ne generi.
Pur sechondo che da alcuni pratici sentito il più e il megliore che nelle provintie d'Europa si trovi, è quello che si cava in Inghilterra, e ancho ho sentito dire trovarsene in certi luochi de la Fiandra, e in Boemia, e nel ducato di Baviera, ma che per la stranezza de nomi e luochi apponto non vi fo recitare.
Ma questo pocho importa, a voi basta sapere che la miniera sua si genera con l'ordine de l'altre in monti asprissimi in certa pietra biancha.
Et anchor dicono in alcune altre pietre alquanto pendenti in giallo, e in alcuna altra di color bigia scuro, e dicono anchora trovarsene in un'altra pietra tutta srongiossa (sic) e quasi simile a quella di chè si genera il piombo, ma il sasso più tenero e tutto pien di vene rosse e bige, non s'istrae de la terrestità de la sua miniera altrimenti secondo che intendo che si facci il piombo, cioè a forno aperto.
Et come di sopra v'ho detto questo è un metallo di natura che corrompe gli altri metalli quando con essi s'incorpora.
Tal che chi una parte sola ne mette infra 100 di rame, di ferro o d'argento, o d'oro gli muove del suo colore, e altera la lor trattabil dolcezza.
Et è vero anchor quel che dichino alcuni che non ha suono per sè.
Ma come l'indurire gli altri metalli, gli fa sonori, anzi non altrimenti che vi mettesse lo spirito e vi ulficasse (sic) le sustantie facendoli per tal mescolamento di due corpi flexibili la creation d'un terzo che non è nè l'un nè l'altro, anzi è al tutto vario e frangibile e duro più assai che prima non era ciascun d'essi.
Il che forse adviene perchè le parti de lo stagno rompeno e snervano le parti del rame e con quella per la diversità de la natura de preditti metalli non bene si uniscono le parti de lo stagno come prima erano le loro unite, e similmente quella del rame fra loro moltiplicato l'umido con l'umido, ol fieho (sic) al frigido de l'altri, la bianchezza che ne metalli introduce lo stagno, e perchè come cosa aquea o suttile in questo effetto si dilata, e vincendo spegne la rossezza che ha il rame, o quella giallezza che ha l'oro, di rosso o giallo facendolo bianchissimo di forte tale che demostra assai più bianchezza che non è quella che mostrava prima lo stagno proprio, la quale anchora che la demostri a me non par però che la sia.
Ma per aver preso l'uno e l'altro per tal mescolamento durezza, credo che la demostri maggiore per aver maggiore lucidità e resplendentia, qual si causa da la politezza maggiore che riceve la maggior durezza.
Et la durezza che piglia il terzo corpo nasce per chi si distempera e si rompe la qualità ollegina e viscosa che fa il nervo alli metalli, e li fa obedienti e trattabili all'opere delli artifici, e queste son le ragioni che secondo il parer mio dare a tali effetti si possano.

                                 ...°°°OOO°°°...

Questa seconda parte, pur comprensibile nell'insieme, è più contorta della prima, ma Vannoccio così scriveva nel XVI secolo e così ce lo teniamo.
Sono sicuro che se uno che non sapeva nulla dello stagno e ha letto con attenzione fra le righe tutto il testo, ora avrà le idee più chiare nelle proprietà fondamentali di questo metallo.
Fra le altre, bella la considerazione di un corpo atono di per sè (se percosso, lo stagno di certo non risuona) ma capace di mettere "lo spirito" ai compagni e di farli "sonori", ed il bronzo delle campane è l'esempio più eclatante.
Stiamo parlando dei tempi di Carlo V, quello che ci tiene a farci sapere che nel suo impero non tramonta mai il sole.
Direi che Biringuccio ci ha detto tutto quello che a quei tempi era sufficiente conoscere.

 
 
 

Lo STAGNO secondo Biringuccio - Prima parte

Post n°394 pubblicato il 11 Febbraio 2018 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Ho già avuto occasione di parlare in passato di Vannoccio Biringuccio e del suo celebre libro "De la pirotechnia" (link)
Si trattava allora di alcune mie considerazioni circa il salnitro, alle quali avevo fatto poi seguire le ponderose riflessioni cinquecentesche di Vannoccio sulla antica preparazione di questo sale, fondamentalissimo per chichessia volesse in quei tempi guerreggiare.
Oggi mi sono riletto pazientemente (è proprio il caso di dire!) un altro brano della Pirotechnia, che tratta stavolta dello stagno.
Biringuccio era un campione in tema di miniere e minerali, e ne ripropongo qui un brano per quei temerari lettori che avessero il coraggio di affrontare un testo di non proprio semplice lettura per i termini ed il linguaggio.
Spesso i periodi sono quanto mai lunghi e contorti e soprattutto manca la razionalità nella punteggiatura (secondo il nostro punto di vista, naturalmente).

Ho tenuto comunque il testo il più fedele possibile all'originale, concedendomi solo qualche minimo espediente per facilitare un po' la lettura: ho messo soprattutto gli apostrofi e sistemati gli spazi fra le parole; qualche altra intromissione è del tutto irrilevante.
Notare, nell'italiano del tempo, la frequente presenza della "acca" dopo la "c": anchora per ancora, mescholato per mescolato, biancho per bianco, ecc.
Divido il capitolo in due parti, per non perdere per strada anche il lettore temerario di cui sopra: meglio poche righe e arrivare fino in fondo che piantar lì tutto perchè la fine del discorso si vede troppo lontana.

LO STAGNO (siamo nel 1540)

Chi sol con l'aspetto degli occhi pigliasse causa di considerare lo stagno e la sua bianchezza, al certo argento purissimo crederebbe chel fusse, over cosa che molto a la sua natura s'accosta.
E tanto più quanto maneggiandolo fusse trovato esser metallo di più durezza chel piombo con il quale si può dire che habbi maggior e più accostante somiglianza.
Ma chi con la vera isperientia il ricercha cognosce che men di lui nissuno degli altri metalli e che se li confaccia, atteso che l'argento si mescola con ogni metallo, e così loro, che se unificano insieme l'un con l'altro, e così gli altri anchora, e da colori in fuore pocho alterano le loro nature.
Ma questo dove el si trova non altrimenti che un veleno possente li avvelena e corrompe.
Et questo non solo il fa con gran quantità di lui, ma con ogni picchola, anzi basta all'argento e l'oro, l'odore solo dove lui sia stato fuso, e così ancho al ferro, e al rame facendoli frangibili, e così quanto con maggior quantità in qual dessi si trova tanto maggiormante fa gli effetti sui.
Questi speculatori delle cause naturali dicano tal cosa procedere dalla sua molta aquosità suttile e mal decotta, e quasi simile a quella dell'argento vivo con la quale mediante la sua suttilità che con essi si congiunge, le infunde in quella materia untuosa e viscosa che fa i metalli flessibili e gli snerva e corrompe di tal forte che quasi li converte in un'altra natura dal piombo in fuore, il quale anchora che s'alteri non si vede che in lui operi tanto per haver con esso quasi un consimile e proportionata convenientia di natura per il chè dal alchimici è chiamato piombo biancho.
Et come sapete è metallo molto noto, perchè molto se ne serve in far lavori uso humano.
Perchè dove si genera se ne trova assai, e ancho perchè facilmente si lavora fondendosi ad ogni fuocho e con pocha fatiga.
Questo puro e ancho mescholato con piombo regge benissimo a martello, tal che volendo si rende più sutil che carta, fassi desso comunemente digitto vasi da mangiare dentro, o da conservarvi cose liquide, e ben che habbi in sè alquanto odore metallico, pur non il lassa tanto, che il alcuna cosa che in quello si ponga mescolato sentir si possa, nè per l'odorare, nè per il gustare cognoscesti questo tanto esser più puro, quanto più mostra la sua bianchezza, o che rotto e come l'acciaro per dentro mostra granoso, over piegandolo in qualche parte suttile, o col dente strengendolo si sente un natural suo stridore come fa l'acqua dal freddo gelata...

Beh, non è poi tanto difficile, vero? Il senso generale si capisce benissimo. Riassumendo:

- lo stagno è assai simile all'argento nell'aspetto
- è tenero e la sua durezza assomiglia a quella del piombo
- forma facilmente leghe con gli altri metalli
- anche in piccole quantità, altera molto le proprietà dei metalli a cui si lega
- è un metallo molto noto (fin dall'antichità) e utile
- fonde a bassa temperatura
- è malleabile (può formare lamine molto sottili)
- è utile per fabbricare utensili e recipienti da cucina
- quando puro e viene piegato, genera il famoso "grido dello stagno"

Finora tutto giusto. Bravo Biringuccio! Continuo e finisco la prossima volta

 
 
 

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