Parole non dette...

LE NUOVE CATACOMBE


I GRUPPI DI OMOSESSUALI CREDENTI
Sono il cromosoma mancante. Né X né Y. Sono terzisti naturali, il colore neutro, il gene mutante, una pianta transgenica da estirpare e bruciare prima che si diffonda. Sì, perché si può essere omosessuali, si può essere anche checche, ma omosessuali cattolici no. Quello no. Per qualcuno sono i peccatori Doc, chi pecca sapendo di peccare. Una vergogna da nascondere, la spazzatura sotto il tappeto. Eppure esistono, ci sono, ci sono sempre stati. E sono tanti. Non sono una lobby. Anzi. Nella Chiesa ufficiale sono praticamente invisibili, ma non si nascondono. Si riuniscono, si parlano, si aiutano. Sono una vera comunità del profondo, anzi una comunità di comunità sparse sul territorio, nelle metropoli come in provincia, da Udine a Catania. L'appuntamento che li ha risvegliati dal letargo ha un luogo e una data: Centro ecumenico di Agàpe, Praly, montagne torinesi. L'anno è il 1980. Al campo estivo si parla di "Fede e omosessualità", un tabù fino a quel momento. Tutto sembra nascere da lì, come se una misteriosa energia avesse trovato la strada per salire in superficie. A dicembre, a Milano, don Domenico Pezzini ospita nella propria casa un gruppo di ragazzi omosessuali. Per parlare, ascoltare, capire. Il nome scelto per il gruppo è Il Guado, un riferimento a un passaggio della Genesi (32, 23-33), la lotta di Giacobbe con l'angelo sulla riva dello Jabbok. La lotta, la fede, l'angelo e un passaggio da una sponda all'altra: l'allegoria perfetta. Pochi mesi dopo, a Torino, nasce un'altra comunità di omosessuali cattolici, Davide e Gionata, nell'ambito del gruppo Abele di don Ciotti. Ad animarla c'è un ragazzo, Ferruccio Castellano, un insegnante gay che si toglierà la vita tre anni più tardi. Nell'82 la casa di don Pezzini diventa troppo piccola per tutti i ragazzi del cenacolo. Si cambia casa, si va nella chiesa valdese di via Francesco Sforza, sempre a Milano. Nel 1988, poi, un altro trasloco, in un freddo scantinato in via Pasteur 24, la sede di oggi. Un crocefisso di legno, qualche poltrona Ikea e alla parete una fotografia di Carlo Maria Martini con una lettera firmata. Ci sono anche due fornelli, perché non si vive solo di preghiere e parole. «E presto cambieremo sede ancora, andremo in un posto un po' più confortevole». Al Guado non serviva una sede lussuosa per diventare un punto di riferimento per le comunità di omosessuali cattolici in Italia. Al gruppo di via Pasteur fa riferimento anche il Coci, il coordinamento nazionale delle associazioni di gay credenti che ha già tenuto due assemblee annuali e nel ‘99 ha chiesto alla Cei di affrontare il tema. Nel frattempo, però, le strade del Guado e di don Pezzini si sono divise. A metà degli anni ‘80 don Domenico dà vita a un altro gruppo, sempre a Milano. Si chiama La Fonte, senza una sede fissa, ma con un'idea molto precisa di comunità. Ancora oggi al Guado parlano di don Pezzini come di un padre. I suoi libri sono una lettura irrinunciabile, così come i testi del teologo morale Leandro Rossi, scomparso nel 2003. «Ho deciso di non venire più a compromessi, ho deciso che devo dire la verità fino in fondo», scrisse in una relazione sul tema "Quale castità per gli omosessuali". Don Domenico ha una storia troppo lunga, bella e tormentata da meritare una sosta. A modo suo è un ribelle, ma di una specie particolare, di chi lavora sul confine, sulla formazione e sulla coscienza. Prete diocesano di Lodi, in realtà lavora "in esilio" a Milano: al vescovo non erano piaciute certe sue uscite. Oggi insegna Letteratura inglese all'Università di Verona, dopo un incarico a Sassari e alla Cattolica di Milano. Negli anni ha dato vita ad altri gruppi di esperienza pastorale, a Bologna, (In cammino) e a Roma (La Sorgente), ma a lui fanno riferimento anche i gruppi di Brescia (Il Mosaico) e Bergamo (La Creta). Un «lavoro morbido», lo definisce lui, che non ha nulla di politico, ma privilegia l'interno sull'esterno, le pieghe della coscienza alla ribalta dell'opinione pubblica. «Bisogna pure che qualcuno proponga qualche pista di azione», ha scritto don Pezzini in un articolo pubblicato sulla rivista cattolica Il Regno nel '97 «è in gioco la situazione di migliaia di persone che si sentono non capite, mal giudicate, rifiutate proprio da una "famiglia”, quella cattolica, che a livello di affermazioni proclama l'accoglienza universale». Le comunità degli omosessuali credenti sono sempre in cammino, un viaggio che ha spesso la stessa stazione di partenza. Parli con Maurizio, Gianni, Fabrizio e tutti ti raccontano la stessa storia. La scoperta dell'omosessualità durante l'adolescenza, il trauma, prima la rimozione e poi il senso di colpa. Infine, anche grazie agli incontri fortunati e all'esperienza di comunità, la lenta risalita, la cancellazione della macchia e l'accettazione di sé. Un lavoro che può durare anche tutta la vita. «Quando ero un ragazzo mi sentivo dannato o, nel migliore dei casi, un malato», racconta Maurizio, 51 anni, medico. «Solo dopo ho cominciato ad accettarmi, a non vedere problemi tra la mia fede e la mia affettività. Ho capito che è primaria la mia relazione con Dio. Ma è una ferita che non guarirà mai del tutto, che ha colpito la mia struttura psicologica di base. Poi, certo, si cresce: una pianta che può crescere storta o diritta ma cresce comunque. Spero almeno che il racconto della mia esperienza possa aiutare altri omosessuali credenti come me. Ho fatto mio il mito di Chirone: chi tocca la sua ferita guarisce». «La prima fase è negare il problema: fino alla prima giovinezza non se parla», racconta Gianni Geraci, 40 anni, instancabile animatore del Guado e presidente del Coci. «Poi si comincia a praticare la propria omosessualità con i sensi di colpa, nell'incapacità di accettare la propria identità sessuale e tanto meno di costruire una relazione». Gianni ricorda un sogno particolare di quel periodo buio. «Eravamo un gruppo di persone, stavamo aspettando qualcuno. A un certo punto è arrivato il Papa e ha chiesto a tutti quale fosse il nostro peccato. E io ho detto: “Sono stanco di raccontare sempre lo stesso peccato”. Poi mi sono svegliato e ho capito che c'era un problema». Sì, il problema c'era e basta conoscere Gianni per capire che oggi non c'è più. «Con l'età, lo scambio di esperienze con altre persone, anche sacerdoti, si entra in una nuova dimensione». Ma non è così per tutti. I casi di suicidio tra i giovani omosessuali credenti non sono così rari. «O si rimane schiacciati dal senso di colpa - spiega Maurizio - oppure la reazione è quella di allontanarsi dalla Chiesa. Tant'è che io non faccio vita di comunità in parrocchia: preferisco non creare problemi al mio parroco». Chi ce la fa è chi arriva a capire che, spiega Gianni, «il peccato fa parte dell'esperienza cristiana. Nello stesso tempo il progetto di Dio su di noi, ognuno di noi, è in sé perfetto. È tradire il Cristianesimo pensare che l'omosessuale sia chiamato a realizzare la propria vocazione cristiana nonostante la propria omosessualità e non attraverso la propria omosessualità». Gianni sfoglia il Catechismo della Chiesa. «Le persone omosessuali sono chiamate alla castità, come tutti i cristiani. Ma che cos'è la castità? Mettere la sessualità al servizio dell'amore». E due omosessuali non si possono amare? Il catechismo dice anche che la vita omosessuale è "intrinsecamente disordinata". E questo rimane uno scoglio. «Anche perché dal `75 a oggi i documenti ufficiali del Magistero della Chiesa sono stati un continuo ripensamento all'indietro. Negli anni ‘70 i gay andavano dai preti per sentirsi capiti. Negli anni ‘90 avviene il contrario. Non dimentichiamo che l'Arcigay è stata fondata da un sacerdote. Io stesso ho organizzato incontri di preghiera all'Arcigay di Varese». Anche con l'Arcigay si sono dovuti superare molti steccati. Il Guado, che accoglie credenti e non, oggi fa parte della rete di movimenti che organizza il Gay Pride a Milano. «Fino ai primi anni ‘90 anche quelli dell'Arcigay ci discriminavano», racconta Maurizio, insegnante di 52 anni, del gruppo Terrabattuta di Reggio Emilia, «per loro o eri omosessuale o eri cattolico. Non capivano. Noi, invece, rivendicavamo la nostra dignità e appartenenza. Noi volevamo mediare il paradosso». La dimensione pubblica e la vicinanza al movimento dei diritti dei gay è uno degli elementi che separano esperienze come quelle del Guado dalle comunità vicine alla Fonte di don Pezzini. Al Guado si parla anche di diritti; alla Fonte si prega, si legge, si discute. «Il Guado è un luogo che assume fisionomie diverse a seconda di chi lo frequenta», racconta Gianni. «Fino a metà degli anni ‘90 era pieno di santini, anche troppi; oggi sono stati messi nei cassetti. Fino a dieci anni fa si celebrava anche la Messa. Oggi ci si riunisce, si parla, si fa anche attività culturale, ma ci consideriamo un'associazione di laici e ci rivolgiamo a tutti, senza chiedere preventivamente un consenso su un cammino prestabilito di preghiera». Sulla scia del Guado sono nati il gruppo Nuova Proposta a Roma (uno dei più importanti), La Parola di Vicenza, Emmanuele di Padova, Kairos di Trieste, la Goccia di Cremona, Kairos di Firenze, Narciso e Boccadoro a Rimini (con un lavoro che copre tutta la costa adriatica, fin quasi in Puglia), Ponti Sospesi a Napoli, Terrabattuta a Reggio Emilia. «Abbiamo tra noi anche molti anziani. E per un omosessuale invecchiare è spesso un'esperienza di solitudine. Non si ha famiglia e il legame con gli amici diventa l'unico contatto col mondo. Due anni fa uno di noi si è ammalato. Era solo. Abbiamo capito che ci chiedeva una cosa sola: di non morire squallidamente. Abbiamo capito che su quella storia ci giocavamo la nostra credibilità e, a turno, gli siamo stati vicini». Un ex "discepolo" del Guado è Fabrizio, un insegnante di 46 anni, oggi responsabile dell'associazione Arco di Parma, una delle tante che stanno nascendo sul territorio quasi per gemmazione spontanea. «Non facciamo figli ma facciamo gruppi».L'esplosione dei gruppi di omosessuali cattolici è un fenomeno degli ultimi anni («lo spirito soffia dove vuole», dice Maurizio), tanto che in alcuni casi la singola diocesi incarica propri "emissari" per parlare, confrontarsi, capire. Sempre meno per "redimere". Le resistenze ufficiali rimangono, ma la Chiesa sembra aver scrostato vecchie diffidenze per scendere a patti con un fenomeno sotterraneo ma in espansione, un fiume carsico che ha iniziato a fecondare il terreno circostante. Forse perché la conoscenza passata al setaccio dalla sofferenza può sprigionare un'energia insospettabile. Tanto che oggi molti non credenti sono disposti ad ammettere che l'avanguardia culturale del movimento gay sia rappresentata proprio dai credenti. Come il Guado, l'Arco di Parma accoglie credenti e non. «È un gruppo atipico: partecipano anche due mamme dell'Agedo, l'associazione delle mamme di persone omosessuali». L'Arco alterna attività ludico-culturale (molto cinema, non solo Pasolini e Visconti, e naturalmente Giovanni Testori) alla lettura critica delle Sacre Scritture, magari con traduzioni meno tradizionali. L'Arco ha fatto anche scelte di rottura. Come alcuni mesi fa, quando ha inviato a tutti i sacerdoti della città il numero monografico della rivista Credere Oggi di Padova dedicato alle persone omosessuali. «Era un modo per dire: “noi esistiamo”. Purtroppo hanno risposto solo in due. Se si va allo scontro ognuno si irrigidisce sulle proprie posizioni, anche perché molti sacerdoti rischiano se prendono posizioni pubbliche sull'argomento. Quindi spesso preferiscono agire nel segreto e nell'anonimato». Chi non agisce sotto anonimato è don Pezzini. Il suo approccio è dichiaratamente pastorale: fissa un tema e lo sviluppa con il gruppo durante l'anno. Lo scopo è quello di «formare dei cristiani adulti». Come Marco, 34 anni, nella Fonte da otto, che è anche educatore scout. «Siamo un gruppo di persone che si propone di trovare un'integrazione feconda tra condizione omosessuale e fede. Alla base della nostra attività c'è un cammino condiviso: ci ritroviamo una domenica pomeriggio ogni tre settimane in una parrocchia di Milano e tre volte all'anno per il ritiro spirituale». Gli “allievi” di don Pezzini vanno dai 20 ai 60 anni, ma la media è tra i 30 e i 40. «Quando ero un ragazzino pensavo di essere l'unico omosessuale al mondo: quello che vivi e provi ti sembra così grave che non puoi parlarne con nessuno. Io all'esterno cercavo di essere normale quasi per compensazione, anzi cercavo di essere un modello di comportamento. L'incontro con don Pezzini ha rappresentato il grande spartiacque della mia vita. E ho scoperto che potevo vivere da cristiano anche da omosessuale». Anche la Fonte è una comunità aperta. Sergio, un impiegato di 37 anni, l'ha scoperta l'estate scorsa su Internet e oggi racconta: «La mia vita, come quella di tutti coloro che si ritrovano ad avere il dono dell'omosessualità (non è un refuso) è stata costellata da mille difficoltà, dapprima legate all'autoconoscenza, poi all'autoaccettazione, poi allo scontro con una realtà che spesso è subdolamente ostica se non apertamente ostile nei confronti dell'omosessuale». Sergio entra in seminario, poi incontra un ragazzo e s'innamora. «Con Gigi arrivai all'ultimo passo: accogliere la mia sessualità come Grazia. Impercettibilmente, senza che me ne accorgessi, ero arrivato a ringraziare il Padre per avermi fatto omosessuale. Quella che era stata una croce era divenuta una grazia, un grandissimo dono». Ma la strada è ancora lunga. La notte del 24 dicembre 2002, alla Messa della vigilia di Natale, don Fabrizio Longhi, il parroco di un piccolo paese pugliese ha chiamato sull'altare un ragazzo omosessuale perché raccontasse la sua storia. «Sono un gay credente, sono venuto in questa chiesa per parlare di omosessualità: non spaventatevi». Nel giugno del 2003 il vescovo di San Severo ha "licenziato" don Longhi. «Se la società riconosce e "desidera” riconoscere sempre più spazio "civile" ai cristiani, è nella chiesa che diventa sempre più difficile abitare», scrive lo storico Alberto Melloni in Chiesa madre, chiesa matrigna (Einaudi, 2004). «In ambito cattolico questo è un fenomeno vistoso: certo le opportunità di essere albergati in un gruppo di propri "simili" non mancano e i pedaggi per il transito fra le zone della Chiesa sono abbastanza bassi. Ma l'esperienza della Chiesa come madre attiva - la Chiesa dalla quale si viene accolti, si viene accompagnati nelle stagioni della vita, si viene iniziati alla vita interiore - è sempre più rara: non si resta privi della giustificazione, della grazia, del perdono, ma si dubita che la Chiesa possa esserne custode e dispensatrice». Sono passati sette anni da quando Alfredo Ormando, un ragazzo siciliano di 39 anni, si diede fuoco in piazza San Pietro di fronte al presepe. Era il 13 gennaio 1998 e Alfredo era omosessuale. di Giovanni Cocconi, da Communitas, n.1, 11 febbraio 2005