Parole non dette...

Aelredo di Rievaulx e l'Amicizia Spirituale


Elredo abate di Rievaulx, monaco inglese vissuto dal 1110 al 1167, è più noto per lo stupendo dialogo intitolato L'amicizia spirituale , testo prediletto dai gruppi dei cattolici gay. Si tratta di uno sforzo per esprimere con concetti cristiani una teoria dell'amicizia che partendo dai classici latini (il De amicitia di Cicerone) arrivi al modello di amicizia espresso da Gesù stesso. È un'opera appassionante, di grande fascino, la cui lettura è raccomandabile. Tuttavia, mescolando filosofia e teologia, non è proponibile senza timori di indigestione a tutti gli stomaci... Fortunatamente è più abbordabile la digressione con cui Elredo interrompe bruscamente, a metà di una frase, il capitolo 34 dello Speculum charitatis. In essa Elredo piange con accenti strazianti la morte del monaco adolescente Simone, suo amico. Le tendenze omosessuali di Elredo oggi sono date per scontate dagli studiosi, ma credo che importi poco dei turbamenti erotici del buon abate (anche se non è mancato chi fondasse un "monastero di S. Elredo" a Manila, nelle Filippine). O se anche importasse, io credo che importi maggiormente la meravigliosa trasfigurazione che l'amore di un uomo per un altro uomo subisce sotto la penna di Elredo.  Il "compianto per l'amico Simone" è in assoluto uno dei brani più toccanti della letteratura omoerotica. Le vibrazioni mistiche che percorrono lo scritto, il riverbero e il continuo rimando fra l'amore divino e quello umano (che spesso si sovrappongono), la sapienza retorica dell'autore, ne fanno un momento di poderoso e sincero sentimento, tale da far rimpiangere tutto l'amore che per millenni noi omosessuali non siamo stati capaci di dare e di ricevere. Compianto per l'amico Simone(fra parentesi il numero del paragrafo) (98) Ma il dolore mi impedisce di proseguire, e mi costringe violentemente a piangere la recente morte del mio Simone. Da qui veniva forse quell'angoscia notturna, che agitava la mia mente. Da qui quei sogni spaventosi, che mi portavano via la necessaria quiete, perché il mio amatissimo stava per essere improvvisamente rapito dalla Terra.  Né c'è da meravigliarsi, se la mia mente presagiva per mezzo di un certo turbamento la morte di lui, della cui vita godeva con tanto piacere. Ecco infatti che il timore che si agitava in me è diventato realtà, e ciò di cui avevo paura è successo. Perché fingo? Perché taccio? Forse è per questo motivo che rimane sopra di me questa tribolazione. Giunga agli occhi, giunga alla lingua ciò che si cela nel cuore! Se solo, se solo, oh se solo il cuore di chi ha un dolore trasudasse con le goccioline delle lacrime, e con piccole stille di parole, la sofferenza raccolta nel profondo dell'animo! "Compatitemi, compatitemi se siete miei amici, perché la mano di Dio mi ha colpito" [Giobbe, XIX 21]. Stupitevi perché lacrimo, ma stupitevi maggiormente perché vivo. Chi infatti non si stupirà del fatto che Elredo viva senza Simone, se non chi non sappia quanto sia stato dolce vivere assieme, quanto sarebbe stato dolce tornare assieme in patria? Perciò sopportate con pazienza le mie lacrime, il mio gemito, il grido del mio petto. (99) E del resto tu, mio amato, introdotto alla gioia del tuo Signore, pranzi gioiosamente alla mensa di quel sommo Padre, e in quel regno del Padre ti inebrii del frutto novello della vite assieme al tuo Gesù.  Sopporta tuttavia che io ti offra le mie lacrime, che ti apra il mio affetto, che riversi su te, se ciò è possibile, tutto il mio animo. Non proibire queste lacrime che la dolce memoria tua, mio carissimo fratello, fa scorrere.  Non ti pesi questo gémito, che non è provocato dalla disperazione, ma dall'amore, e non frenare queste lacrime, causate dalla pietà, non dalla mancanza di fede. E certamente se ricordi in che luogo tu sia giunto, ciò da cui sei fuggito, dove hai lasciato quel tuo amico, vedrai senza dubbio quanto sia giusto il mio dolore, quando sia da compiangere la mia piaga. Perdonami dunque, e lasciami piangere un pochino il mio dolore. Mio, ho detto, mio; infatti non va pianta la tua morte, che è stata preceduta da una vita tanto lodevole, tanto amabile, tanto gradita a tutti. (...)  (104) Per te, mio amato fratello, per te mi compiaccio, ma per me soffro. Tu devi gioire, io sono da compiangere, perché posso vivere ancora senza Simone.  Mi meraviglio però che si possa dire che io vivo, ora che mi è stata portata via una parte tanto grande di me, un sollievo tanto dolce del mio viaggio, un sollievo così unico della mia miseria. Quasi strappate dal corpo sono le mie viscere, quasi dilaniata la mia infelice anima. E si dice che vivo? O vivere miserabile, o vivere da compatire, il vivere senza Simone. Pianse suo figlio il patriarca Giacobbe, pianse suo padre Giuseppe, pianse il santo Davide il suo carissimo Gionata. Tutte queste cose fu per me da solo Simone. Figlio per età, padre per la santità, amico per la carità. Piangi perciò, infelice, il tuo carissimo padre, piangi l'affezionatissimo tuo figlio, piangi il dolcissimo tuo amico. Cédano le chiuse della mia misera testa, versino gli occhi lacrime di giorno e di notte. Piangi, dico, non perché lui è stato rapito, ma perché tu sei stato lasciato qui. Padre mio, fratello mio, figlio mio, chi mi darà di morire assieme a te?  (...) (106) La mia anima desidera godere degli abbracci di Cristo assieme a quella sua parte, ma lo impedisce la mia debolezza, lo impedisce la mia iniquità, lo impedisce anche la divina Provvidenza. Certo, lui che era pronto entrò con lo Sposo alle nozze, ma per me miserabile finora la porta è rimasta chiusa. [Cfr. Matteo, XXV 10]. Magari, Signore Gesù, magari si aprisse un giorno! Spero tuttavia nella tua misericordia, Signore, perché infine mi sia aperta. Ho mandato avanti a me le mie primizie, ho mandato avanti il mio tesoro, ho mandato avanti una parte non piccola di me stesso. Verrà in séguito da te quel che avanza di me. "Dove è il mio tesoro, lì sia anche il mio cuore". [Cfr. Matteo, VI 21]. (...) (109) Ecco quel che ho perduto, ecco quel che ho smarrito. Dove sei andato, o esempio per la mia vita, regola dei miei costumi? Dove sei andato, per dove sei partito? E io che farò? Dove andrò? Chi mi proporrò come modello? Come sei stato strappato dai miei abbracci, sottratto ai miei baci, tolto ai miei occhi? Io ti abbracciavo, fratello amato, non con la carne, ma col cuore. Ti baciavo, non con il contatto delle labbra, ma con l'affetto della mente. Io ti ho amato, tu che fin dall'inizio della mia conversione mi hai preso come amico, che ti sei dimostrato con me intimo più di chiunque altro. (...) (112) Ma com'è stato, anima mia, che hai assistito così a lungo a quel dolce funerale senza lacrime? Com'è che hai congedato quel corpo da te amato senza baciarlo?  Soffrivo, misero, e gemevo e dal profondo dell'animo traevo lunghi sospiri, e tuttavia non piangevo. E comprendevo talmente bene che avrei dovuto piangere, da non accorgermi neppure di essere addolorato, pur essendo vivamente addolorato. Di questo mi accorsi solo più tardi. Infatti lo shock aveva talmente invaso la mia mente, che persino quando il cadavere fu denudato per essere lavato, ancora non credevo che fosse morto. Mi stupivo infatti che lui, che avevo legato a me con strette catene di un dolcissimo amore, all'improvviso fosse sfuggito dalle mani. Mi stupivo che quell'anima che era una cosa sola con la mia, potesse sciogliersi senza la mia dai legami del corpo.  Ma già ha ceduto quello stupore all'affetto, ha ceduto al dolore, ha ceduto alla compassione. Ora che fate, occhi miei, che fate? Vi prego, non abbiate riguardi, non dissimulate. Offrite come esequie del mio amato tutto ciò che avete, tutto ciò che potete.  Perché arrossisco? Sono forse il solo a piangere? Guardate quante lacrime esistono per ogni dove, quanti gemiti, quanti sospiri! E forse queste lacrime vanno rimproverate? Ma ci scusano le tue lacrime, Signore Gesù, quelle che hai sparso per la morte del tuo amico [Lazzaro. Cfr. Giovanni, XI 36], lacrime che esprimevano veramente il nostro sentimento, ma al tempo stesso lasciavano capire la tua carità.  Hai indossato, Signore, le passioni della nostra debolezza, ma solo quando hai voluto; per questo potevi anche non piangere. O quanto sono dolci le tue lacrime, quanto soavi! Che dolce gusto hanno per l'ansia della mia mente, e quanto consolano! "Ecco", dicevano, "in che modo lo amava". Ed ecco in che modo il mio Simone era amato da tutti, era abbracciato da tutti, da tutti accarezzato.  Ma forse ora alcuni giudicano sfrontate le mie lacrime, stimando eccessivamente carnale il mio amore. Le interpretino come vogliono, ma tu, Signore, vedile, guardale.  Gli altri vedono ciò che accade al di fuori, ma non fanno caso a quel che patisco dentro di me. Qui vedono i tuoi occhi, Signore.  (...) (113) Nessuno fra gli uomini sa che succeda dentro l'uomo, se non lo spirito dell'uomo che è dentro quel corpo. Il tuo occhio però, Signore, penetra fino alla divisione fra l'anima e lo spirito, ed anche fra le articolazioni e le midolla, ed è capace di distinguere i pensieri e le intenzioni del cuore. E come dice un tuo ottimo servo, "guai anche alla vita lodevole degli uomini, se sarà giudicata lontana dalla pietà". Ecco, Signore, da dove viene la mia paura, ecco da dove vengono le lacrime. Dai loro retta, o piissimo, dolcissimo, misericordiosissimo. Accoglile, o unica speranza mia, unico e solo rifugio mio, scopo della mia intenzione, Dio mio, misericordia mia.  Accoglile, Signore, sacrificio che ti offro per il mio amico amatissimo, e se fosse rimasta nel suo animo qualche macchia, ignorala, o addébitala a me. Io, io sia percosso, io sia frustato, io paghi: basta soltanto, ti prego, che non gli nasconda il tuo beato viso, che non lo privi della tua dolcezza, non ritardi a dargli la tua pia consolazione. - Elredo di Rievaulx, Speculum charitatis, testo latino nel Corpus Christianorum, vol. 1, pp. 5-161. Traduzione italiana come: Lo specchio della carità, Edizioni paoline, Milano 1999. - Aelredo di Rievaulx, L'amicizia spirituale, Edizioni Paoline, Milano 1996 (a cura di don Domenico Pezzini); - Aelredo di Rievaulx, L'amicizia spirituale, Città Nuova, Roma, 1997. (liberamente tratto da uno scritto di Giovanni Dall'Orto)