Parole non dette...

LA SESSUOFOBIA DI COSA NOSTRA


Il codice non scritto dei Palermitani e le voci sui mafiosi omosessuali
Fa già scandalo avere una sorella o una cugina «malandata», una certa fama non è mai piaciuta ai boss. Figuratevi un arrusu, uno che va con gli altri uomini. Nelle tribù criminali siciliane ufficialmente non si possono avere neanche amanti femmine, un amante maschio poi è come il mondo capovolto. Una cosa da punire. Come si merita: con la forza e con lo stupro. Come hanno fatto in carcere a Catania: "Picciotto violentato in carcere: Scrive poesie, è un omosessuale"Il sesso ha sempre fatto paura alla mafia. Se per esempio uno in famiglia ha una parente stretta che è troppo allegra e vivace, uomo d´onore non lo diventerà mai. Non lo faranno mai entrare in Cosa Nostra. E´ una macchia. Come avere un fratello o uno zio sbirro. «All´immagine noi ci abbiamo sempre tenuto», raccontava Gaspare Mutolo parlando di donne e di relazioni intime. E ricordava come i capi dei capi degli Anni Settanta chiamavano con disprezzo la «famiglia» di Porta Nuova: «La famiglia degli spazzini». C´erano due o tre uomini d´onore che avevano l´amante e non la nascondevano. «Quelli non avevano moralità e dignitudine», diceva Mutolo spiegando le regole che vigevano allora nella sua organizzazione. Non era e non è dappertutto uguale. A certe cose ci hanno tenuto sempre di più i Palermitani, i più mafiosi di tutti. Avevano un codice non scritto che tutti dovevano rispettare: non tradire la moglie, non divorziare mai, non sfruttare la prostituzione, non importunare le donne di altri uomini d´onore, non vantarsi mai di (eventuali) relazioni extraconiugali. E, naturalmente, non avere rapporti omosessuali.Tanti anni fa si vociferava a Palermo di un importante boss della Guadagna che fosse arrusu, finocchio. Ogni tanto qualcuno faceva una battuta su don... e sui suoi presunti gusti sessuali, quello però continuava tranquillamente a comandare nella sua borgata. Sempre più forte di prima, sempre più temuto di prima. Da quella stessa borgata, la Guadagna, veniva anche quel Vincenzo Scarantino che fu accusato di aver piazzato in via Mariano D´Amelio l´auto piena di esplosivo che fece saltare in aria il procuratore Borsellino. E anche di Scarantino dicevano che era omosessuale. Cominciarono a ripeterlo in aula, quando lui si pentì, gli avvocati di un paio di imputati della strage. Confessò di essere un uomo d´onore, si accusò del massacro, fece i nomi di tutti i suoi complici. Al processo tirarono fuori la storia della sua arrusaggine: «Un uomo d´onore non può essere omosessuale, Vincenzo Scarantino non è un uomo d´onore, Vincenzo Scarantino ha detto il falso». Chiamarono a testimonianza nell´aula bunker di Caltanissetta dove si celebravano i processi per le stragi dell´estate del 1992 alcuni travestiti, il primo che salì sul banco degli imputati fu Giuseppe Gagliani più nota come «Giusy la sdillabbrata». La credibilità del pentito Scarantino fu demolita con il sesso.Non si fa fuori dalla famiglia. E se si fa non si dice.Nemmeno sotto tortura. Però i tempi cambiano, anche a Palermo.E´ all´inizio del nuovo secolo che Girolamo Lo Verso, psichiatria siciliano, raccoglie i dolorosi sfoghi dei figli di alcuni collaboratori di giustizia e di alcuni orfani della grande guerra di mafia degli Anni Ottanta. Ci sono tossici. Ci sono paranoici. E ci sono ragazzini di borgata - appartenenti a «famiglie» importanti di Cosa Nostra - che non si sentono più «masculi». Confessano le loro esperienze omosessuali. Per la prima volta vedono un´altra realtà. Per loro sono scomparsi i punti di riferimento, la figura paterna - erano boss riveriti e ossequiati come padreterni - è andata in frantumi e loro all´improvviso si sono sentiti fragili, soli, confusi.Così anche i figli di mafia sono finiti sul lettino di Freud.Un´esperienza da Tony Soprano ma inimmaginabile per uno come Totò Riina. Lo «zio Totò» è sempre stato uno di quelli all´antica. Duri come la roccia. A Palermo se lo ricordano tutti ancora oggi - dopo quindici anni - quel faccia a faccia fra lui e Tommaso Buscetta nell´aula bunker dell´Ucciardone.Era il processo per i «delitti trasversali», le vendette contro i familiari dei pentiti. I due boss avrebbero dovuto parlare di omicidi fatti e subiti, di ritorsioni, di vecchi odi. Il confronto «all´americana» stava iniziando quando Totò Riina anticipò tutti: «Signor Presidente, io non parlo con chi ha una bassa moralità. Mio nonno è rimasto vedovo a quarant´anni con cinque figli e non ha cercato altre mogli. Mia madre è rimasta vedova a trentasei anni. Al nostro paese, Corleone, noi viviamo tutti di correttezza morale». Il padrino alludeva alle due mogli di don Masino, alle sue due famiglie, una in Sicilia e l´altra in Brasile. Gli rispose Tommaso Buscetta: «Da quale pulpito parla questo signore, lui, proprio lui. Mi accusa per la questione delle donne, di avere avuto più mogli, lui che è l´artefice della morte dei miei figli e dei miei cari, lui che ha fatto scannare tanti e tanti uomini innocenti». Tommaso Buscetta trattenne il fiato, guardò negli occhi Totò Riina e gli disse ancora: «E´ vero, io ho pensato alle donne mentre tu andavi a letto sempre e solo con tua moglie perché tutto il tempo tuo era solo per Cosa Nostra». (di Attilio Bolzoni da La Repubblica lunedì 04 agosto 2008)