VIVERE

CAPITOLO 1°


 PARTE PRIMARicordo con chiarezza come fosse ieri,  quella calda estate del 1956, una di quelle giornate roventi di Luglio, giorno in cui iniziò il travaglio della mia piccola vita.Me ne stavo affacciata al balconcino della mia casa formata da un'unica stanza dove c’era un gran lettone, un lettino più piccolo, un armadio, una credenza, un camino quasi sempre spento e un tavolo con cinque sedie.Cinque eravamo i membri della famiglia, mamma, papà, un fratello più grande di me di sei anni avuto da un precedente matrimonio di mia mamma e una sorellina di tre anni.Il tavolo era apparecchiato con una zuppiera di minestra, cinque cucchiai, un gran pezzo di pane e una bottiglia di vino.Fuori c'era un caldo insopportabile, era una giornata  di quelle che non ti lasciano respirare ed io con i miei lunghi capelli, appiccicati al viso dal sudore, li spostai da un lato con la mia manina sudicia, guardai mia madre e le chiesi:Ma quando arriva papà! Ho una fame da lupo! E' tutto il giorno che aspetto, dammi almeno un pezzetto di pane!, e nel dire ciò allungai la manina verso il tavolo.      Mamma che teneva mia sorella in braccio, la adagiò sul pavimento, mi schiaffeggiò con violenza sulla mano e aggiunse:Togliti dai piedi!  vai a giocare!  io ho altro da fare!  quando arriva tuo padre ti faccio chiamare.Mentre mia sorella urlava dal pianto, scappai fuori come un fulmine onde evitare che mamma mi prendesse per i capelli.Dopo cinque minuti avevo già dimenticato tutto, ero troppo presa ad infornare il pane di fango che le mie amichette avevano impastato.All'improvviso una vocina squillante mi chiamò urlando con tutto il fiato che aveva in gola:Candida!!!!! Corri! Corri! E' arrivato tuo padre dentro una bellissima macchina!  Smisi di giocare e corsi veloce verso casa, mille pensieri affollavano la mia mente, ero felice,    mi sentivo invidiata, possedevo una macchina!Potevo finalmente andare al mare!Nello stesso tempo però, mi chiedevo  come avesse fatto papà a comprarla visto che eravamo tanto poveri da non possedere neppure un bagno ed una cucina decente.                                I miei occhi però, brillavano di gioia, sotto quei capelli lunghi e sudici, per cui nessuno   poteva vederli, il  cuore  picchiava il mio petto come un tamburo  e quando arrivai a casa non mi chiesi neppure cosa ci facesse tutta quella gente nel mio cortile e soprattutto nella mia casa.Sfilai veloce come un’anguilla tra la folla,  penetrai nella stanza, mio padre giaceva sul letto, non capivo niente, il mio sguardo si posò con delusione  sul tavolo sparecchiato, la  minestra era sparita, mia madre piangeva, mio padre emetteva deboli gemiti di dolore, la gente urlava:Portate via la bambina! Non può rimanere qui!Quella bambina ero io, l'ho capii quando qualcuno mi  prese in braccio e mi  portò giù dalla nonna.Nessuno rispondeva alle mie domande ma poi la risposta dopo diciassette giorni arrivò comeuna lancia capace di spaccare in due anche il più duro dei cuori.Il mio papà era morto dopo diciassette giorni di agonia per una frattura interna causata dalla caduta dall'albero di noce sul quale stava lavorando.Quella disgrazia annullò quanto di buono c’era stato negli anni addietro e segnò l’inizio della mia salita verso il monte Calvario, si perché papà non sapeva che con la sua morte stava lasciando una pesante croce sulle mie piccole spalle, proprio lui che si era sottoposto ai ritmi massacranti del lavoro agricolo per non farci mancare niente, voleva perfino comprarci la televisione che solo qualche anno prima era arrivata nelle case degli italiani, ma noi non potevamo ancora permettercela e sono sicura che se avesse saputo che solo qualche anno dopo la sua morte ci sarebbe stato un Italia un radicale cambiamento economico, forse avrebbe chiesto a Dio di rimanere attaccato a questa terra ancora per un poco.La prima radice del mio cuore si era  staccata bruscamente, scivolando nella mia anima e lasciando un vuoto incolmabile,"IL MIO PAPA' NON C'ERA PIU’”.Ma quale macchina e quale mare avrebbero potuto colmare quel gran vuoto!  e soprattutto come avrebbe fatto mia madre a  sfamare  tre figli da sola?La soluzione mia madre la trovò andando a lavorare al posto di mio padre ma quando si rese conto che nessuno badava a noi  e che ben presto saremmo diventati figli della strada, fece in modo di sottrarci a quel destino  con l'inconsapevolezza che un'altro molto più crudele e devastante  era in agguato.Mio fratello fu rinchiuso nell'istituto vescovile di Aversa, io e la mia sorellina che non aveva ancora tre  anni, fummo rinchiuse in un collegio che all'apparenza aveva tutte le caratteristiche di  un albergo di lusso  ma all'interno delle sue mura era molto simile ad una prigione.Mi accorsi ben presto che nonostante non fosse un orfanotrofio, riservavano alle orfane un trattamento diverso, molto discriminatorio, per me era come l'inferno!Eppure mia madre pagava, e in più il collegio percepiva il  nostro mantenimento anche dallaAssistenza ENAOLI.In quanto a nutrizione, si mangiava bene poiché  a differenza di casa, li non mancavano mai i tre pasti caldi, non ero mai stata tanto pulita poiché tutte le sere facevamo la doccia prima di andare a letto,  nonostante tutto però avvertii con dolore che  un'altra radice si era staccata dal mio  cuore  provocando un altro vuoto, enorme e doloroso,“VENIVO PRIVATA ANCHE DELLA MAMMA”Dovevo fare io da mamma a mia  sorella,  assicurarmi che mangiasse imboccandola se necessario, lavarla poiché ne era incapace e soprattutto difenderla non solo dalle compagne più grandi ma anche e soprattutto dalle  vigilatrici che infliggevano castighi troppo duri per cose estremamente  banali, ad esempio se facevamo rumore con le posate, ci toccava  mangiare  con la scodella per  terra e con il granoturco sotto le ginocchia, ossia  peggio di un cane!Ricordo di un giorno che a dir poco fu uno dei giorni più sofferti della mia vita:Eravamo nel grande cortile dell'istituto a trascorrere la nostra  tanto attesa mezz’ora  diricreazione quotidiana e mentre noi grandi giocavamo a pallavolo, la mia sorellina, poiché troppo piccola, non potendo partecipare, se ne stava come sempre, in disparte.Era a pochi metri di distanza e quel giorno, non so perché, si tolse la scarpa e cominciò a palleggiarla imitando noi grandi.Non ci sono parole per esprimervi con che rabbia  la vigilatrice afferrò la mia sorellina e mentre la rinchiudeva nel bagno disse:-Rimarrai qui tutto il giorno, salterai il pasto e quando chiederai scusa forse ti tirerò fuori!Vi lascio immaginare il mio dolore, odiai  la mia impotenza nel non saper evitare tale violenza e mentre la mia sorellina spaventatissima urlava e graffiava la porta, un solo pensiero affiorò alla mia mente e in un baleno lo attuai.Aprii lo sportello del grande portone e scivolai fuori correndo verso casa, volevo raccontare tutto allamamma, il cuore lo sentivo in gola, i miei occhi erano appannati dalle lacrime, nella mente  mille pensieri  come ad esempio, quale castigo mi spettava per aver compiuto tale gesto.Percorsi il paese  come un cavallo in corsa mentre l’odio riempiva il mio cuore, avrei voluto essere più grande per poter affrontare quelleMonache spogliate, e gridare loro in faccia tutto il mio dolore.Soprattutto avrei voluto chiedere  come mai avessero smesso quell’abito sacro, forse perché non erano più degne di indossarlo?    Frastornata da questi  pensieri, arrivai a casa, per fortuna mamma c'era poiché pensavo anche di non trovarla,  e dopo avermi ascoltata mi riaccompagnò in collegio quasi incredula, ma si ricredette subito poiché la mia sorellina era ancora rinchiusa nel bagno e le sue urla erano deboli dalla stanchezza e dal dolore poiché  nel graffiare la porta  aveva le manine insanguinate, ce ne rendemmo conto quando, sorprese dalla presenza di  mia mamma, la tirarono fuori.Il tutto fu risolto con  una grande litigata e con minacce di denuncia,  il mio castigo fu quello di non dormire in dormitorio  bensì sul balcone nonostante il freddo quasi glaciale di febbraio.In questo scenario di violenza  dove l'amore non era mai passato, ho  trascorso i primi sette anni della mia vita, dalla seconda elementare alla terza media.Mi avevano ormai plasmata a loro piacimento, non ero più quella bambina sognatrice e ribelle bensì una piccola donnina rassegnata, pronta a farsi suora per poter espiare tutti i peccati e le colpe che durante quei sette anni aveva accumulato nel suo  cuore.Ricordo chiaramente l'ultimo giorno trascorso in collegio, ho  preparato con fretta le poche cose personali in un sacchetto di plastica e sono scesa in Chiesa ad attendere la risposta alla mia richiesta, quella  di partire per Varese e farmi suora.In Chiesa c'era Don Pasquale e quando mi vide arrivare mi invitò subito a fare l'ultima confessione, confessione che io accettai di fare con tanta gioia , volevo alleggerire il mio cuore nel caso non avessero accettata la mia richiesta, e affrontare con più serenità quel   mondo esterno che non ancora  conoscevo.