Creato da caffespeziato il 12/11/2013

CAFFE' SPEZIATO

AROMA DI PASSIONE

 

 

olocausto

Post n°67 pubblicato il 01 Marzo 2014 da caffespeziato

Il sermone del Paradiso chiudeva il corso degli esercizi spirituali per le monache, dopo la sottile analisi delle colpe recondite, la fosca descrizione del gastigo, e gli anatemi contro il peccato. La voce del predicatore adesso levavasi alta ed esultante nel sole di Pasqua che scintillava sulle dorature della vòlta. Giù in chiesa una dozzina di donnicciuole pregavano inginocchiate dinanzi all'altare della Vergine splendente di ceri. Dietro la grata del coro biancheggiavano confusamente i soggoli e i visi delle suore impalliditi nella clausura e nella penitenza; luccicavano degli occhi perduti nell'estasi di visioni luminose. La voce del missionario, grave e calda, scendeva ai toni bassi come una confidenza e una carezza, saliva trionfante come un inno, modulava i pensieri e le aspirazioni di tutte quelle vergini tentate e sbigottite dal mondo, andava a ricercare le più intime fibre di quei cuori chiusi nelle sacre bende e li faceva palpitare avidamente, aveva tutti gli slanci, le trepidazioni, come dei sospiri d'amore e d'estasi che morivano ai piedi della croce, e facevano intravvedere quasi un balenìo d'ali iridescenti, dei brividi di carni rosse di cherubini che passavano fra nuvole trasparenti, in un'aureola, in ampie distese color di cielo e color d'oro. L'uomo era tutto in quella voce, in quell'inno, in quella letizia: il viso scorgevasi appena, come trasfigurato, nell'ombra del pulpito: degli occhi luminosi, ardenti di fede, pieni di visioni celesti, il viso pallido ed ascetico, immateriale, il segno austero della tonsura sui capelli giovanili, e la mano bianca ed immacolata che accennava, essa sola in luce, fuori della nicchia scura, e pareva stendersi verso le peccatrici, per sollevarle al cielo in un amplesso di perdono e d'affetto, dopo essersi levata minacciosa a fulminare, dopo esser scesa a frugare nei cuori, dopo aver sentito palpitare la tentazione, e i fremiti e le ribellioni della carne. Ora quella mano facevasi lieve, morbida e carezzevole, al pari della voce che addolcivasi in un mormorio affettuoso e in una promessa soave, nella quale passava l'alito di carità, di pietà immensa, e si umiliava, e implorava, e facevasi complice delle povere anime turbate e derelitte, per incoraggiarle, sostenerle e attirarle a Dio.
Egli parlava rivolto al coro, quasi attratto anch'esso dalla simpatia ardente che vi destava, come indovinasse i cuori che rispondevano al suo e gli si aprivano sitibondi. Ivi pure delle teste tonsurate si chinavano, delle labbra tremavano commosse, dei veli candidi palpitavano sui seni incontaminati, sfiorati soltanto dai fremiti che sorgono nelle tenebre, nelle notti irrequiete e paurose.
Il sagrestano s'alzò d'appiè del pulpito e andò ad accendere le altre candele dell'altare - una gloria di fiammelle tremolanti, delle gocce di splendore nella mattinata limpida, nella gaiezza primaverile, nel profumo dei fiori, e dell'incenso, nel suono grave dell'organo che levavasi dalle profondità misteriose del coro - un canto alato, un inno di grazie e di gloria che irrompeva, e libravasi al cielo trionfante. Fra le monache raccolte nel coro una voce bella e fresca intuonò il Tantum ergo, una voce di donna che sembrava cantare la giovinezza, l'amore, il sogno, l'azzurro, i fiori e la vita in quell'inno religioso, una voce che aveva le lagrime, le estasi, i sorrisi, la gioventù, la bellezza, e li deponeva trepidante ai piedi dell'altare. Il frate orava in ginocchio, a capo chino. Sembrava che a quel canto si riverberassero delle sfumature rosee sulla nuca bianca d'adolescenza casta e prolungata. Egli stesso sembrava quasi immateriale fra le pieghe molli della tonaca nera che cadeva sui gradini dell'altare, simile a una veste muliebre. Poi sorse un'irradiazione abbagliante, una gloria di raggi che ecclissò, nell'aureola dell'ostensorio gemmato, l'uomo segnato dalla stola d'oro, come in una croce, sulla cotta spumante di trine al pari di un abito da sposa. Tutte le teste si prostrarono umiliate. Le campane squillarono alte in un coro festante, insieme alle note gravi e sonore dell'organo che vibravano sotto la vòlta dorata della chiesa, irrompevano dalle finestre dipinte, pel cielo azzurro, nella primavera gioconda, sotto il sole radioso, mentre il canto moriva in un'estasi sovrumana.
Suor Crocifissa era rimasta accanto all'organo, colle mani ancora erranti sulla tastiera, le labbra palpitanti dell'inno d'amore mistico, smarrita nella visione interiore di quegli splendori che alla sua anima esaltata dalla musica, dalla reclusione, dal digiuno, dal cilicio e dalla preghiera in comune recavano uno sgomento e una dolcezza nuova della vita, un turbamento degli echi e degli incitamenti che venivano a morire sotto le mura del convento colla canzone errante, coi rumori del vicinato, colla carezza della luna che entrava dall'alta inferriata a posarsi sul lettuccio verginale, e tentava il mistero pudibondo della cella solitaria, e vi destava le curiosità timide, le fantasie vagabonde, e gli scrupoli vaghi che annidavansi nell'ombra. Ella sentiva ora una bramosia calda, un desiderio quasi carnale di mondarsi l'anima e lo spirito di quelle allucinazioni peccaminose, di difendersi dal mondo, di agguerrirsi contro la tentazione, coll'aiuto di quell'uomo il quale discerneva la via della colpa coi suoi occhi luminosi e insinuavasi nei cuori colla voce soave, e scacciava il peccato colla mano fine e bianca, e parlava dell'amore eterno con accento d'innamorato. - Accostarsi a lui, essere con lui, confondersi in lui. - Avere in quell'uomo purificato dal sacramento il consigliere, il conforto, l'amico, il confidente, il perdono, la verità e la luce.
Una suora la toccò dolcemente sull'omero. Ella si scosse e la seguì vacillante, cogli occhi ardenti di fede, premendo colle mani ceree in croce sul seno il cuore che sbigottiva di passione, chinando il capo umiliato dall'umana miseria nella benda che chiudeva le trecce recise e incorniciava il viso di un'altra bianchezza fredda, sbattuta, stirata d'angoscia, illividita da vigilie tormentose, come la sua povera anima sbigottita, e chiese alla superiora il permesso di confessarsi al predicatore. L'abbadessa acconsentì, alzando la mano a benedire, leggendo forse le stesse inquietudini dolorose che avevano provato la sua giovinezza trascorsa in quelle sopracciglia lunghe e nere, e in quelle labbra dolorose, soltanto vive nel viso mortificato ed austero.

Lì, attraverso la grata del confessionario che aguzzava il mistero e rincorava la coscienza trepida, aprirgli il cuore, tutto, coi suoi palpiti, colle sue angosce, coi suoi pudori. Parlare d'amore con lui, parlargli di colpa e di perdizione, dirgli quello che non avrebbe osato mormorare sottovoce, da sola ai piedi del crocifisso muto. Udire il suono delle proprie parole, colla fronte ardente su quella grata di ferro dietro alla quale lui ascolatava. Intravvedere il riflesso dei propri pensieri, delle proprie allucinazioni, dei propri terrori su quella testa china. Vedere arrossire e impallidire del pari quella fronte pura. Aver lì, sotto il proprio anelito concitato, quel sacerdote, quella coscienza, quell'intelletto, quella carità, quel turbamento, quella simpatia, quell'uomo, trasfigurato dall'abito sacro, legato dal vingolo indissolubile, segnato fra gli eletti dalla tonsura religiosa, agitato al par di lei, sbigottito come lei, palpitante come lei, mentre la sua voce velata giungeva a lei come attraverso la lapide di una tomba, per consigliare, per sorreggere, per consolare, sommessa, confidente, nel mistero, nel segreto delizioso della chiesa deserta. E vederlo trasalire sotto l'angoscia della passione di lei, vederlo arrossire al riverbero della sua vergogna, vedere il soffio infocato della sua parola che implorava aiuto, scendere sino in fondo a quell'uomo, e destare in lui le debolezze istesse perché ne sentisse la miseria e la pietà, e rifiorirgli nei brividi e nei pallori improvvisi della carne. Sentirsi ricercare nel più profondo del cuore e delle viscere da quella voce dolce e insinuante, nel più vivo, nel segreto, dove s'annidiavano e rabbrividivano pensieri, e desideri, e palpiti ch'essa stessa non avrebbe neppur sospettato - la confusione dolce, il rossore trepido, l'abbandono del pudore violentato, - e darsi tutta a lui come in uno smarrimento dei sensi. Scorgere in lui, nel consigliere, nel ministro, nel forte, la simpatia di quelle debolezze, la pietà di quei dolori; sentire nella sua voce commossa l'eco e il fascino trepido delle medesime inquietudini - con una tenerezza trepida per lui, maggiormente esposto al pericolo, votato alla lotta col peccato, solo nel mondo, nella tentazione, senza altra difesa che quell'abito che trasfigurava l'uomo, e il segno irrevocabile della tonsura come un marchio di castità sui capelli castagni - con un desiderio materno di stringersi al petto quel viso impallidito e sbattuto dalle medesime angosce, quel capo tonsurato in cui bollivano le stesse febbri, onde proteggerlo e difenderlo.
Egli ascoltava, raccolto, colla fronte velata dalla mano scarna, gli occhi vaghi e senza sguardo. Passavano dei bagliori di tanto in tanto in quegli occhi pensierosi, dei fantasmi che dileguavano dinanzi alla volontà severa, dei fremiti destati da quell'alito caldo e profumato di donna, dalla parola commossa, l'ombra di tutte le debolezze, di tutte le miserie, di tutti gli allettamenti, le effusioni, le dolcezze, gli struggimenti, le febbri, le estasi. Con lei rifaceva l'aspro cammino che avevano fatto verso la croce quei piedi delicati. Rivedeva la fanciullezza orfana, l'adolescenza precocemente mortificata, la gioventù scolorita e trista, l'agonia dello spirito e le ribellioni della carne. Fuori, il cielo azzurro, l'ampia distesa dei prati, il sole, la luce, l'aria, lontani, perduti in un mondo al quale non apparteneva più, - e la gran rinunzia di tutto ciò, per sempre! - E pensava qual eco dovesse avere fra quelle mura claustrali la voce di un uomo o il pianto di un bambino, il brivido che doveva portarvi il profumo di un fiore o un raggio di primavera. - Le fronti pallide che trasalivano, gli occhi spenti che guardavano lontano, le labbra che mormoravano inconsciamente accenti desolati. E sentiva una grande pietà, una gran tenerezza per quelle povere anime che tendevano al cielo strette ancora fra i legami della terra, per quei gemiti d'agonia che si tradivano nella parola esitante e supplichevole, per quelle mani tremanti che si stendevano verso di lui, che cercavano di aggrapparsi alla vita, al perdono, alla fede, alla costanza, e che doveva lasciarsi cadere ai piedi, insensibile e inesorabile, che doveva abbandonare dietro di sé continuando sulla terra il suo pellegrinaggio d'apostolato, e scuotendo i lembi della sua tonaca perché non si contaminasse a quella seduzione, - anch'esso solitario, legato soltanto dalla disciplina dell'ordine alla fredda famiglia religiosa, senza genitori, senza casa, senza patria, passando sulla terra cogli occhi rivolti al cielo, fallendo se inciampava, se le spine del cammino gli insanguinavano le carni, o le voci del mondo penetravano nelle sue orecchie, se la vita batteva nelle sue arterie o tumultuava nel suo cuore, se la tentazione di quell'incognita, il ricordo di quella sconosciuta che si era data a lui in ispirito, in un momento di mistico abbandono, veniva a turbare la sua fantasia o a fargli tremare la preghiera sulle labbra.
Un campanello squillò. Il prete cinse la stola fulgida che lo sollevava dalla terra, e si accinse a comunicarla. Ella genuflessa dinanzi allo sportellino aperto della grata annichilivasi nella contemplazione degli splendori celesti che apriva la sfera d'oro. Un languore soave, una calma infinita, una dolcezza ineffabile per tutto l'essere: la battaglia vinta, il cuore librantesi nella fede, il conforto, la forza, l'ardore di quell'ostia consacrata che scendeva nel suo petto e si confondeva col suo sangue - l'ostia che le posava lui stesso sulle labbra trepide, colle mani trepide, mormorando soavemente le parole sacramentali, chinando gli occhi, dolci, come velati da una visione interiore nelle occhiaie profonde e misteriose, sul viso sbattuto ed emaciato anch'esso. - Egli la vide quel momento solo, in quell'abbandono, in quella bramosia arcana, in quell'estasi, colle pupille smarrite, il viso trasfigurato, in un'irradiazione candida di veli, sporgendo le labbra avide e innamorate.
Essa chinò il capo, nell'atto di ringraziamento, in un torpore e in uno sfinimento delizioso di tutta se stessa. La chiesa tornò vuota e silenziosa come una tomba.

Il missionario era andato via per sempre, continuando il suo viaggio di carità, lasciando a lei la benedizione di quella pace e di quella fede. Essa lo accompagnava col pensiero per strade e per paesi sconosciuti; vedeva ancora quegli occhi dolci, quel viso emaciato, quella tonaca fluttuante dietro la sua persona esile, in altre chiese risonanti della sua parola, dinanzi ad altre monache palpitanti; lo seguiva nei rumori che giungevano dalla via, nelle notti stellate, nel cielo che stendevasi al di là delle inferriate claustrali. Era un grande sconforto, un isolamento più tristo, come un abbandono. Poi, quando la sua coscienza inquieta cominciò a ridestarsi, pregò una delle sorelle anziane che aveva sofferto e dubitato come lei d'intercedere presso l'antico confessore, il quale si rifiutava a confessarla geloso che essa gli avesse preferito una volta il predicatore di passaggio. Era un vecchio incanutito nel confessionario, con dei grandi occhi chiari e penetranti, abituati a guardare nelle tenebre dei cuori, e il pallore delle lunghe confidenze e delle attese pazienti sulle guance incavate.
- No. Io non servo di ripiego... M'ha messo da banda una volta; si cerchi un altro confessore...
- Ma essa aveva sempre la speranza...
- Speranza si chiama vossignoria. Essa chiamasi suor Crocifissa -.

 
 
 

XXXII

Post n°66 pubblicato il 01 Marzo 2014 da caffespeziato

Infine i visitatori se ne andarono a poco a poco. Alberti e l'Armandi rimasero soli, seduti l'uno accanto all'altra, e, per alcuni istanti, silenziosi.
La contessa s'alzò all'improvviso, si allontanò bruscamente da lui, diede un'occhiata incerta all'intorno, poi gli venne incontro risolutamente facendo frusciare i lembi del vestito con un sibilo di serpente irritato, e gli si piantò in faccia.
"Cosa avete? Dite infine! parlate!" esclamò corrucciata.
"Nulla, cosa volete che abbia?" rispose egli con durezza.
Le labbra della donna tremarono convulsamente, e s'agitarono due o tre volte come per parlare. Ma ad un tratto scoppiò in un accento indescrivibile, coprendosi il viso colle mani:
"Ah! come mi punite!"
Ei s'alzò, le prese le mani che gli sfuggirono, e rimase alcun tempo senza trovar parola. "Che vi ho fatto?" balbettò infine.
"Nulla m'avete fatto!" esclamò l'Armandi sdegnosamente.
Alberto le prese nuovamente la mano. Stavolta ella gliel'abbandonò senza accorgersene; teneva gli occhi fitti sul tappeto, torva, accigliata. Tutt'a un tratto gli disse con voce breve e concitata, fissandogli in faccia uno sguardo lucido e freddo come l'acciaio:
"Perché siete venuto? Cinque minuti prima di legarmi a voi mi sarei piuttosto buttata nel lago se avessi potuto immaginarlo! Ora avete il diritto di dubitarne!"
Alberto si fece rosso e pallido.
"Non mi amate?" le disse allentando la mano.
"Che cosa pensereste adesso di me se non vi amassi?" gli rispose sorridendo di un riso che faceva rilevare il labbro superiore con un'espressione d'amarezza intraducibile. "Ma non avrei voluto essere vostra amante... Ve lo giuro per mia figlia... per mia figlia!" replicò con forza, guardandolo alteramente negli occhi, e scuotendogli la mano, nell'osservare un impenetrabile movimento di lui. "Voi m'avete preferito a un'altra donna, ed io ero orgogliosa..." E chinando il capo con sarcastica e fiera rassegnazione: "Adesso vedete che non lo sono piú".
Si abbandonò sulla poltrona e nascose il viso nel fazzoletto, senza muoversi piú, senza dire una parola, cosí altera e sdegnosa che Alberto non osò scostare una punta di quel fazzoletto.
"Cosa v'ho fatto?" replicò alfine giungendo le mani "Non vedete come soffro? come vi amo? come ho sofferto per non avervi potuto vedere?... Avete letto il mio biglietto?"
"Sí... e la mia cameriera prima di me."
"Ho scritto per questo in inglese..."
"Avreste dovuto scrivere in camaldolese: sarebbe stato meno sospetto, e meno compromettente."
Ella parlava piano, con calma, con accento di rassegnazione ironica, col viso dimesso, e le mani incrociate sulle ginocchia.
"Ho avuto torto!" rispose Alberto alquanto indispettito, "perdonatemi. Vi amavo, avevo perduto la testa Non pensavo alle convenienze, al mondo, ai domestici... Avevo bisogno di pensare a voi.... di fare qualche cosa per voi... Non avevo altro da dirvi..."

"Nemmeno che avreste fatto della musica colla signora Rigalli, onde non compromettervi col vostro scritto... Non è cosí?" interruppe la donna.
"Oh!"
"Perché arrossite d'avermelo rimproverato mezz'ora fa: Avevate ragione!" riprese ella colla medesima calma nella parola, nell'accento, nella fisonomia e nell'atteggiamento. "Il vostro amore è schietto, franco, e sincero. Io ho parlato dinanzi a voi di mio marito, e non ho arrossito In presenza di coloro che mi ascoltavano. Ho mentito l'indifferenza e la disinvoltura, ho mentito verso di voi, verso i miei doveri, e verso il mondo; avete il diritto di pensare che vi abbia mentito anche quando vi ho detto che vi amo! Mezz'ora fa mi avete guardata in faccia stupefatto due o tre volte, e avete arrossito per me, vi ho visto. Voi non ci avete colpa. Son moglie, son madre, ho dei doveri sociali e son la vostra amante: è impossibile conciliare tutto quello che ci è di contraddittorio nel mio stato senza mentire. Io mi sono umiliata ai vostri occhi facendo il sacrificio del mio orgoglio e della mia delicatezza dinanzi a voi, per voi. Non vi faccio un rimprovero. È colpa vostra se avete tutto per voi, la franchezza, la lealtà, la delicatezza l'onore, e, a salvaguardia di tutto ciò, la vostra spada? Voi avete tutto quello che io mi son messo sotto i piedi... per voi."
A queste ultime parole il sarcasmo scoppiò nell'accento vibrato, sibilante, nel sorriso amaro e nelle calde lagrime che ella asciugava dispettosamente prima ancora che spuntassero sull'orbita. Ciascuna di quelle parole, ciascuno di quegli accenti andavano a colpire sul viso Alberti, il quale stava zitto, immobile, arrossendo e impallidendo a vicenda come se si sentisse schiaffeggiare dalla propria coscienza.
"Perché m'avete amato?" domandò alfine con voce fremente e soffocata.
L'Armandi alzò su di lui gli occhi ardenti di lagrime e di collera, come smemorata, e non rispose.
"Perché non mi scacciate?" replicò Alberti.
Un'espressione indefinibile, un non so che di attonito, d'ansioso, d'irato, di vendicativo, d'innamorato e di pauroso, lampeggiò nello sguardo della contessa. Ella stette alcun tempo senza dir nulla; poi arrovesciò il capo all'indietro sulla spalliera della poltrona, con un movimento felino, e colle mani intrecciate dietro la nuca, colle larghe maniche cadenti per le candide braccia, rispose mollemente, guardando il soffitto:
"Avete ragione. Il meglio sarà non vederci piú."
Alberto rimase immobile, guardandola. Ad un tratto si precipitò su di lei come un leone innamorato, l'afferrò per la vita, senza dire una parola, e la sollevò sulle braccia. Ella piantò gli occhi scintillanti come armi omicide in quel viso pallido e stravolto, tenendosi discosta da lui con tutta la forza della sue braccia irrigidite, e all'improvviso gli si avventò al collo, e lo baciò rabbiosamente.

 
 
 

la contessa di prato

Post n°65 pubblicato il 01 Marzo 2014 da caffespeziato

Dirò come mi sia pervenuta questa storia, che convenienze particolari mi obbligano a velare sotto la forma del romanzo.
Verso la metà di novembre avevamo progettato una partita di campagna con Consoli e Pietro Abate.
Il 14, con una bella giornata, noi eravamo sulla strada di Aci.
Verso Cannizzaro un elegante calesse signorile oltrepassò la nostra modesta carrozza da nolo. Giammai si è tanto umiliati dal contrasto come in simili casi. Consoli, ch'era forse il più matto della compagnia, gridò al cocchiere:
"Dieci lire se passi quel calesse!".
Il cocchiere frustò a sangue le rozze, che cominciarono a correre disperatamente, facendoci sbalzare in modo da esser sicuri di ribaltare; e siccome le povere bestie non correvano come egli voleva, Consoli salì in piedi sul sedile dinanzi per togliere le redini e la frusta dalle mani del cocchiere.
Allora cominciò un alterco fra quegli che non voleva cederle e Consoli che le voleva ad ogni costo, mentre il legno correva alla meglio.
Tutt'a un tratto i cavalli si arrestarono; Abate ed io, sorpresi di vederci fermati sì bruscamente, domandammo che c'era.
"Un morto": fu la risposta laconica del cocchiere.
Un convoglio funebre attraversava lentamente lo stradone; esso era semplicissimo: un prete, un sagrestano che portava la croce, un ragazzo che recava l'acqua benedetta, e tre o quattro pescatori; il feretro, coperto di raso bianco e velato di nero, era portato da quattro domestici abbrunati, e una carrozza signorile, in gran lutto, lo seguiva.
Quando la carrozza fu a paro della nostra, una testa scoperta si affacciò allo sportello sollevando la tendina di seta nera, e noi riconoscemmo uno dei nostri amici d'Università, Raimondo Angiolini, laureato in medicina da quasi due anni.
Domandammo chi era morto ad un domestico in lutto che seguiva, anch'egli a piedi, il convoglio, e ci fu risposto: "La contessa di Prato".
"Ella!", esclamammo tutti ad una voce, come se fosse stato impossibile che la morte avesse potuto colpire quella fata, che aveva fatto il fascino di tutti.
Non sapevamo spiegarci per quali circostanze la contessa fosse morta in quel luogo e Angiolini ne accompagnasse il feretro; per un movimento istintivo ed unanime scendemmo da carrozza, e, a capo scoperto, seguimmo il mortorio sino alla chiesetta.
Raimondo Angiolini entrando in chiesa venne a stringerci la mano; i nostri occhi soltanto l'interrogavano, poiché egli rispose tristemente le stesse parole che ci erano state dette:
"La contessa di Prato".
"Ella!", fu ripetuto di nuovo.
Raimondo abbassò il capo tristemente.
"Morta... la contessa!... morta qui!", esclamò Abate.
"Sì, ieri l'altro, alle due del mattino... una morte orribile."
Rimanemmo un pezzo in silenzio: giammai questo spaventoso mistero del nulla avea colpito siffattamente le noncuranti immaginazioni dei nostri 23 anni.
"Sembra un sogno!", mormorò Consoli, "saranno appena due mesi ch'io la vidi al teatro."
"La sua malattia fu brevissima"; rispose Raimondo, "è morta per Pietro Brusio."
"Per Brusio! ella!... la contessa!..."
Anche Brusio era uno dei nostri compagni d'Università, buon giovanotto, alquanto discolo; ma, per quanto ci torturassimo il cervello, non arrivammo a comprendere come la Prato, questa Margherita dell'aristocrazia, fosse giunta ad amarlo, e, quel ch'è più, a morire d'amore per lui. Siccome i nostri volti al certo esprimevano tal dubbio, Angiolini riprese:
"Nessuno, fuori di me e dell'amico mio Brusio, e forse egli meno di me, potrà mai arrivare a conoscere per qual concorso straordinario di circostanze questi due esseri" (Angiolini nella sua qualità di medico diceva esseri) "si sono incontrati ed hanno finito per assorbire l'uno la vitalità dell'altro. Sono di quei misteri, che sembrano troppo reconditi ma troppo ben tracciati nel loro sviluppo per essere casuali, e che fanno supporre quello che il coltello anatomico non ci ha potuto far trovare nelle fibre del cuore umano".
"Vogliamo saperlo allora!", saltò su a dire Consoli, "siamo tutti amici di Brusio."
Angiolini, malgrado il suo scetticismo di medico, volse uno sguardo alla bara, posta fra quattro ceri, nel mezzo della chiesa, mentre il prete celebrava la messa.
"Comprendete benissimo, amici miei, che questo non è il luogo, né l'ora."
Ricondotti a quella triste meditazione tutti fissammo a lungo e in silenzio quella cassa coperta di raso e velata di nero, su cui il più allegro sole d'inverno, che scintillava sui vetri della modesta chiesuola, mandava a posare uno dei suoi raggi.
Io non so come ciò avvenga, ma nessuno di noi tre, in quel punto, quando quel bel sole invernale animava quelle spiagge ridenti, con quel mare immenso che si vedeva luccicare attraverso la porta, fra tutto quel sorriso di cielo e la vita che sentivamo rigogliosa, fidente, espansiva, con il canto allegro dei pescatori che lavoravano sul lido e il cinguettare dei passeri sul tetto della chiesa, a cui faceva un triste contrapposto il silenzio funereo di quel recinto, interrotto solo dal mormorare del prete che officiava, e la luce velata della chiesetta colle pallide fiammelle di quelle torce, nessuno di noi tre, dicevo, poteva credere intieramente che quelle quattro tavole racchiudessero quel corpo, meraviglia di grazia e di eleganza, che, pochi giorni innanzi, quando si vedeva passare al trotto del suo brillante equipaggio, faceva voltare tante teste.
Lo ripeto: giammai la morte ci era sembrata più imponente e più possibile nello stesso tempo prima d'allora.
Quando uscimmo di chiesa dissi a Raimondo:
"Hai bisogno di noi?".
"No, grazie."
"E Brusio?", domandò Abate.
"È là"; rispose Angiolini additandoci una graziosa casina.
A quelle sole parole scorgemmo tutto l'abisso che dovea separare Brusio dalla società, in quel momento in cui lo immaginammo solo e annientato in quelle camere ancora profumate da lei, ancora stillanti di quell'amore che inebriandoli aveva ucciso il più fragile dei due esseri; ora solo, perduto nell'immensità di quel dolore profondo che sbalordisce come il fulmine.
Sentimmo che nulla potevamo fare per lui in quel momento.
"Addio!", dissi ad Angiolini stendendogli la mano.
"Ci vedremo?", aggiunse Abate.
"Chi sa?... fra un mese o due forse..."
"E ci narrerai questa storia?", disse Consoli.
"Tu la scriverai?", rispose Raimondo rivolto a me.
"Forse."
"In tal caso bisogna che Pietro me ne dia prima il permesso. Addio."
Tre mesi dopo rividi Angiolini al Caffè di Sicilia. Gli domandai di Brusio: era ritornato a Siracusa, sua patria; gli rammentai la promessa, ed egli mi narrò le parti principali di quella storia di cui noi avevamo assistito alla triste catastrofe; però pei dettagli mi promise di comunicarmeli minuziosi e precisi, dopo che avrebbe consultato certe lettere che aveva ricevuto da Brusio e dalla contessa.
Un mese più tardi ricevei dalla Posta un grosso plico col bollo di Napoli; vi erano i dettagli e le lettere che mi aveva promesso Angiolini, due o tre fotografie rappresentanti diverse località di una casa abitata in Napoli da Pietro Brusio, e finalmente la preghiera, che Raimondo mi faceva, se mai mi decidessi un giorno a pubblicare questa storia dell'amore onnipotente, di salvare rigorosamente le apparenze, in modo che neanche gli amici di Brusio potessero penetrarne il segreto.
Dal canto mio non ho fatto che coordinare i fatti, cambiando i nomi qualche volta, ed anche contentandomi di accennare le iniziali, quando, anche conosciuto il nome, le circostanze per le quali è ricordato non sono compromettenti; rapportandomi spesso alla nuda narrazione di Angiolini e alle lettere che questi mi rimise; aggiungendovi del mio soltanto la tinta uniforme, che può chiamarsi la vernice del romanzo.

 
 
 

eva

Post n°64 pubblicato il 01 Marzo 2014 da caffespeziato

Eccovi una narrazione - sogno o storia poco importa - ma vera, com'è stata e come potrebbe essere, senza retorica e senza ipocrisie. Voi ci troverete qualcosa di voi, che vi appartiene, che è frutto delle vostre passioni, e se sentite di dover chiudere il libro allorché si avvicina vostra figlia - voi che non osate scoprirvi il seno dinanzi a lei se non alla presenza di duemila spettatori e alla luce del gas, o voi che, pur lacerando i guanti nell'applaudire le ballerine, avete il buon senso di supporre che ella non scorga scintillare l'ardore dei vostri desideri nelle lenti del vostro occhialetto - tanto meglio per voi, che rispettate ancora qualche cosa.
Però non maledite l'arte che è la manifestazione dei vostri gusti. I greci innamorati ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il "cancan" litografato sugli scatolini dei fiammiferi. Non discutiamo nemmeno sulle proporzioni; l'arte allora era una civiltà, oggi è un lusso: anzi, un lusso da scioperati. La civiltà è il benessere; ed in fondo ad esso, quand'è esclusivo come oggi, non ci troverete altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la logica, che il godimento materiale. In tutta la serietà di cui siamo invasi, e nell'antipatia per tutto ciò che non è positivo - mettiamo pure l'arte scioperata - non c'è infine che la tavola e la donna. Viviamo in un'atmosfera di Banche e di Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è la esuberanza di tal vita.
Non accusate l'arte, che ha il solo torto di avere più cuore di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create, - voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l'onore là dove voi non lasciate che la borsa, - voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivalini inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l'arte raccoglie e che vi getta in faccia.

Avevo incontrato due volte quella donna - non era più bella di tutte le altre, né più elegante, ma non somigliava a nessun'altra. - Nei suoi occhi c'erano sguardi affascinanti, come il corruscare di un'esistenza procellosa che era piena di attrattive. - Tutti gli abissi hanno funeste attrazioni, e quelle voragini che ingoiano la giovinezza, il cuore, l'onore, si maledicono facilmente, ahimè! quando arriva la filosofia dei capelli bianchi. - Era bionda, delicata, alquanto pallida, di quel pallore diafano che lascia scorgere le vene sulle tempie e ai lati del mento come sfumature azzurrine; aveva gli occhi cerulei, grandi, a volte limpidi, quando non saettavano uno di quegli sguardi che riempiono le notti di acri sogni; aveva un sorriso che non si poteva definire - sorriso di vergine in cui lampeggiava l'imagine di un bacio. Ecco che cosa era quella donna, quale si rivelava in un baleno, fuggendovi dinanzi nella sua carrozza come una leggiadra visione, raggiante di giovinezza, di sorriso e di beltà. - In tutta la sua presenza c'era qualcosa come una confidenza fatta al vostro orecchio con labbra tiepide e palpitanti, che vi rendeva possibile il sognare le sue carezze, e farci su mille castelli in aria. Non era soltanto una bella donna - certe altezze non attraggono appunto perché sono inaccessibili. - L'ammirazione che ella destava assumeva la forma di un desiderio; c'era nei suoi occhi qualche cosa come un sorriso e una promessa che faceva discendere la dea dal suo cocchio superbo - o piuttosto vi metteva accanto a lei, e faceva correre il vostro pensiero alle cortine della sua alcova, e ai viali più ombreggiati del suo giardino.
Si chiamava Eva, o almeno si faceva chiamare così, e quel nome era forse un epigramma. Tutti conoscevano la sua vita un po' più in là del palcoscenico della Pergola, e, forse meglio di tutti, le dame del gran mondo che parlavano di lei celandosi dietro il ventaglio. Nessuno ne sapeva più di un altro. Era l'apparizione di un astro in mezzo alla splendida società fiorentina, una febbre di giovanotto fatta donna.
L'avevo incontrata due volte, e non mi era sembrata la stessa donna, forse per le diverse disposizioni d'animo in cui mi ero trovato; e forse anche per ciò che era rimasta in me più viva e profonda l'impressione di lei. La prima volta la vidi pel Lungarno, in un elegante legnetto, e guidava una bella pariglia di cavalli inglesi; aveva il sorriso negli occhi più che nelle labbra, ed era una cert'aria graziosa ed ardita in tutta la sua persona che vedendola faceva sorridere di piacere. Io ero triste, senza saperne il perché, forse per non avere meglio da fare, e macchinalmente la seguii cogli occhi e col pensiero - e il pensiero corse lontano verso tutte le ridenti follie del cuore. Un'altra volta la incontrai alle Cascine, in uno di quei viali che nessuno frequenta. Quel mattino il mio cuore faceva festa - domeniche gioconde dei venticinque anni che non tornano più! - Il sole splendeva, ed il sorriso brillava negli occhi di Vittorina - larva di un di quei giorni in cui si prodiga tanta parte di cuore come se non dovessero tramontare giammai - fantasma di un'ora felice che si dimentica prima ancora che sia trascorsa, - nello stesso modo che ella avrà dimenticato persino il mio nome, o lo rammenterà come io adesso mi rammento del suo, a proposito di qualche cosa che allora ci passò sotto gli occhi senza che ce ne avvedessimo. Il viale era deserto, gli uccelli cinguettavano fra gli alberi, e i rami sussurravano lieve lieve, intrecciando mollemente le loro ombre in bizzarri disegni sulla ghiaia del viale. Noi non si parlava certamente dell'ultimo fascicolo dell'Antologia. Vittorina era allegra, cantava, rideva e il riso la faceva bella. Io guardavo ed ascoltavo. Quando il nostro fiacre passò accanto ad un bellissimo legno, che stava fermo in mezzo al viale, vidi, attraverso il cristallo scintillante, una testolina bionda, come una rosea visione, incorniciata dall'imbottitura di seta della carrozza. Ella ci volse uno sguardo, un solo sguardo limpido come l'azzurro dei suoi occhi, ma disattento, anzi noncurante, uno di quegli sguardi che vi affissano in volto senza vedervi, e tornò a chinare gli occhi sul libro.
Vittorina chinò il capo e ammutolì, come se quella bionda e leggiadra visione fosse sempre lì, fra di noi, seduta sui cuscini della nostra carrozza.

 
 
 

x Eros

Post n°63 pubblicato il 01 Marzo 2014 da caffespeziato

Allora fu recato in villa un invito pel ballo della contessa Armandi.
Andarono in una magnifica sera d'autunno. Le siepi fiorite esalavano vigorosi profumi; le sonagliere dei cavalli avevano un non so che di festoso; le fruste dei postiglioni scoppiettavano allegramente; l'ultima squilla dell'avemaria moriva in lontananza, coll'ultimo raggio di sole che colorava di tinte opaline uno strappo di cielo. Poi venne la notte, tacita, stellata.
Il giardino della villa Armandi era illuminato, la scala adorna di fiori, tutte le finestre brillavano come le lenti di una lanterna magica. - Alberto guardava avidamente attraverso un'iride di tappezzerie, di colori, di dorature e di specchi, vedevasi un via vai di gente in festa; nelle sale olezzavano profumi soavi, brillavano gemme superbe ed occhi vellutati, c'era una carezza di musica, di frasi leggiadre e di raso che frusciava - e in mezzo a tutto questo una donna più bella, più elegante di tutte le altre, che si chiamava la contessa Armandi.
Era una delicata bellezza: l'occhio nero, superbo, profondamente e voluttuosamente solcato, l'andatura, la voce ed il gesto molli, gli omeri candidi e profumati come le foglie di magnolia, ondulati in linee pure, carezzate dalle trecce nere ed elastiche, il seno squisitamente modellato nell'avorio, marmorizzato da sfumature azzurrine, vaporoso pei veli ricamati, lo strascico della veste sussurrante in modo carezzevole dietro di lei, la punta dello scarpino di raso che luccicava di tanto in tanto come una lingua serpentina, la fronte altera e il sorriso affascinante. - Ella aveva quarant'anni.
Allorché si trovarono faccia a faccia con Velleda, codeste due donne leggiadre in modo diverso, scambiarono un'occhiata che avrebbe potuto dirsi il luccicare di due spade da duellanti, mentre s'inchinavano graziosamente. - La contessa sorrise all'Adele, al signor Forlani, e si voltò a guardarlo mentr'egli si allontanava.
Tutti gli sguardi seguivano la signorina Manfredini; sembrava infatti che le grazie della sua persona sorridessero trovandosi nel proprio elemento; nella sua elegante disinvoltura c'era un che d'impaziente, di avido, di febbrile, che luccicava nei suoi occhi, e dilatavasi colle rosse narici, mentre ella agitava il ventaglio cinese. Anche Alberto sorprese sé stesso a seguire la direzione di tutti gli sguardi, e fissava lungamente la contessina - poscia, inquieto, cercò cogli occhi l'Adele
Velleda stava presso il pianoforte circondata dai più eleganti giovanotti, come una cerbiatta attorniata da una muta di cani; ma la cerbiatta teneva testa da tutte le parti, col brio, col sorriso, con una parola, con un gesto, spiritosa, caustica, leggiadra e impertinente. Due o tre volte volse a caso gli occhi su di Alberto, e ad un tratto gli fece segno col ventaglio di avvicinarsi; prese il braccio di lui e si allontanò.
"Non ne potevo più!" disse ridendo.
Il povero giovane si sentì tutto sossopra.
"È naturale che tutti le facciano la corte..." balbettò.
"Vorrebbe farmela anche lei?" diss'ella con un accento e un sorriso singolari.
Alberto ammutolì, e a lei il sorriso morì sulle labbra.
Passeggiarono lentamente per le sale, ella battendo col ventaglio il tempo di un valzer che suonavano.
"Com'è bello!" esclamò Alberto.
"È Strauss," rispose ella distratta.
"O perché non si balla un giro?"
"A proposito della corte?" diss'ella sorridendo.
Alberto volle sorridere colla medesima disinvoltura, ma ci riuscì assai male.
"Ebbene..." disse "sì!"
"No!" rispose ella col medesimo tono, ma un po' più recisamente.
Il giovane insistette con insolito calore; ella diveniva più capricciosa e più ostinata, scuoteva il capo con certa grazia risoluta, e mordevasi le labbra con certo sorrisetto malizioso, appoggiando le spalle allo stipite di una finestra e stringendo il ventaglio nelle mani. Di tanto in tanto, quasi non se ne avvedesse, raggi seduttori le scappavano dagli occhi. Ad un tratto, senza dir nulla, mentre sembrava pù ferma nel rifiuto, appoggiò mollemente il braccio alla spalla di lui, e si lasciò andare.
Essa ballava in modo singolare, un po' diritta, col capo alto, e il braccio disteso. Di tanto in tanto gli diceva qualche parola senza importanza, o scuoteva con grazia inimitabile la sua bionda testolina. Si fermò all'improvviso, un po' rossa, un po' smarrita, svincolò con impazienza impercettibile la mano che ancora egli le teneva, gli lanciò a bruciapelo uno sguardo singolare, viso contro viso, e impallidì leggermente.
"Non ballo più" gli disse "sono stanca."
La contessa Armandi era lí presso ed esclamò:
"Che bella coppia!"
Velleda rispose con un grazioso inchino. Alberto, passando accanto a uno specchio, vi gettò uno sguardo e poscia arrossì di averlo fatto; ma nello specchio sorprese due grandi occhi che lo seguivano amorosamente dal fondo di un canapè. Andò verso la povera Adelina, la quale se ne stava modestamente rannicchiata fra due mamme, e sembrò rianimarsi come lo vide venire e gli sorrise cogli occhi.
"Non balli?" domandò il cugino, allorché furono soli.
"Non mi hai invitato a ballare!" rispose Adele timidamente carezzevole.
"Ci son tanti giovanotti...!"
"Non voglio ballare cogli altri..."
"Perché?"
"Perché... perché... perché non voglio."
Ei chinò il capo, tuttora bollente del soffio che Velleda vi aveva gettato, e si allontanò sopra pensiero. Stava da qualche tempo nel vano di una finestra, colla fronte sui vetri, guardando nel buio, allorquando udí un fruscio di vesti vicino a lui, e si trovò accanto la contessa Armandi.
"Non balla il cotillon?..." gli domandò.
"No, contessa."
Ella sembrò volere aggiungere qualche altra parola, ma gli fece un segno col ventaglio, sorrise e si allontanò. Ei seguiva macchinalmente cogli occhi il turbinio di quella danza in mezzo alla quale la contessa stava come una regina, di cui tutti si contendevano un sorriso o un giro di valzer. Improvvisamente quella regina andò diritto verso di lui, gli gettò come una sultana il suo fazzoletto ricamato, gli mise sulla spalla la mano splendida di gemme, e fra le braccia la vita sinuosa ed elastica - poi, quando ebbe finito di ballare, lo ringraziò con un sorriso.
"Voglio conoscerla meglio:" gli disse "facciamo un giro."
Tutti gli sguardi si volsero su quell'uomo fortunato e quell'altera beltà che passavano. Egli pensava al giorno in cui l'aveva vista mollemente distesa nella sua carrozza, fra una nuvola di polvere e di veli.
Entrarono nella stufa, profumata, silenziosa, oscura. La contessa sedette. Il discorso andava a sbalzi, scucito con certa bizzarria capricciosa che ella sapeva dargli, strisciando in tutti i zig-zag serpentini pei quali ella voleva farlo passare, brioso, civettuolo, elegante come lei. Poi ella non disse più una sola parola, appoggiò il mento sulla mano, e guardò qua e là con occhi distratti; il fisciù alitava lieve lieve, e gettava una certa dolce ombra livida sul seno d'alabastro: ella apriva e chiudeva macchinalmente il suo ventaglio, e faceva scrosciare le stecche fra di loro. Tutt'a un tratto piantò in volto ad Alberto uno sguardo e un sorriso singolari, e gli disse:
"Ma noi ci compromettiamo orribilmente, mio caro!"
Si alzò ridendo e si allontanò.
Allorché gli ospiti di villa Forlani lasciarono la festa erano le due del mattino. La notte era buia, il cielo senza stelle, la campagna paurosa. Di quando in quando il vento mugolava fra le gole lontane. Adele un po' melanconica stava nel fondo della carrozza, avviluppata nel suo mantello. Velleda teneva il viso allo sportello. Alberto respirava a pieni polmoni.
"Che bella sera!" esclamò. Velleda gli rivolse una rapida occhiata.
I sogni di quella notte! popolati di tutte le larve dell'amore, di tutte le febbri della giovinezza, di tutte le lusinghe delle vanità, di tutte le ebbrezze dei piaceri! Povera Adele, se avesse potuto indovinarli!

 
 
 

 

 

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