Pensieri sparsiVisioni del mondo |
La morte introdotta nel XX secolo non è soltanto quella delle decine di milioni di morti delle due guerre mondiali e dei campi di sterminio nazisti e sovietici, è anche quella delle due nuove potenze di morte.
La prima è la possibilità della morte globale di tutta l'umanità per mezzo dell'arma nucleare...
La seconda è la possiblità della morte ecologica...
La potenzialità di autoannientamento accompagna ormai la marcia dell'umanità.
Edgar Morin
Doppiaggio in italiano.
La Storia delle cose Pt. 1
La Storia delle cose Pt. 2
La Storia delle cose Pt. 3
Il successo sta in un Circuito
Troppo brillante per la nostra malferma Delizia
La superba sorpresa della Verità
Come un Fulmine ai Bambini chiarito
Con tenere spiegazioni
La Verità deve abbagliare gradualmente
O tutti sarebbero ciechi -
Emily Dickinson
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BERLINO - La conferenza stampa fu convocata a sorpresa in tutta fretta, quel bel mattino primaverile del 2 maggio 1989. "I giornalisti ungheresi e stranieri sono invitati a Hegyeshalom, al confine con l'Austria, per un incontro con il vicecomandante della Guardia di frontiera, colonnello Balazs Novaki". L'ufficiale spese poche parole, e il segnale della svolta investì il mondo. "Oggi cominceremo a smantellare reticolati e sistemi d'allarme tra Est e Ovest del continente".
Cominciò così, sotto gli occhi di noi occidentali scettici e a tratti increduli, la fine della Cortina di ferro. Con l'assenso del Cremlino di Mikhail Gorbaciov, i comunisti riformatori allora al potere avevano deciso di aprire la prima breccia nel Muro di Berlino. "Il sistema d'allarme e i reticolati sono diventati superati, sia tecnicamente, sia da un punto di vista morale e politico. E' una giornata storica, l'inizio di una nuova èra nei rapporti tra l'Ungheria e l'Occidente", disse ancora Novaki.
Poi inviati e corrispondenti furono condotti sulla linea di confine a vedere il lavoro delle squadre speciali. Furono mobilitati centinaia di soldati della Hatàroerség, la guardia di frontiera temuta dai fuggiaschi fino a ieri. Arrivarono con trattori, bulldozer e i loro verdi camion Zil russi, impugnarono le cesoie tagliareticolati, e cominciarono zelanti il loro lavoro. Ostentavano soddisfazione, sorridevano alle telecamere, scambiavano battute con i giornalisti.
Per 260 chilometri scorreva il tratto ungherese della Cortina di ferro.
Cioè il confine blindato con cui Stalin, nel dopoguerra, tagliò in due il Vecchio Continente, tra l'Ovest e le "democrazie popolari" nei territori controllati dall'Armata rossa. Il termine lo inventò Winston Churchill, nel suo memorabile discorso di Fulton: "Dal Baltico ai Balcani, da Stettino a Trieste, una cortina di ferro è scesa sull'Europa". Per decenni pochi o nessuno, salvo pochi dissidenti irriducibili a Varsavia, Budapest o Praga, pensò che un giorno sarebbe caduta.
In diversi punti del confine, a Hegyeshalom come a Koeszeg, a Szentgotthard come a Sopron, le guardie di frontiera lavoravano spedite. Prima con le cesoie, poi con trattori muniti di lame speciali, recisero quei fili spinati alti due metri e mezzo che per quasi mezzo secolo avevano isolato il paese. Su tredicimila tentativi di fuga attraverso quel confine, ne erano riusciti appena quattrocento.
Poi vennero carri-gru che divelsero i pali, "guardate, li estraggono come denti marci", scherzò un militare. A novanta chilometri da Hegyeshalom, un altro ufficiale della Hatàroerség, il colonnello Istvan Frankò, avviava nella caserma di Sopron la trattativa tecnica concreta con i colleghi austriaci. "Verrete anche in uniforme a far la spesa da noi", disse scherzando al direttore della Sicurezza del Burgenland, Johann Schoretits.
La decisione era stata presa dal Politburo ungherese in una riunione a porte chiuse, il 28 febbraio. L'anziano numero uno Janos Kadar era stato rovesciato l'anno prima da un putsch al congresso del Pc. Una pattuglia di giovani gorbacioviani (Imre Pozsgay, Miklos Németh, Gyula Horn e altri) lo aveva spodestato, e avviato riforme in ogni campo, dal mercato alla stampa. Dopo il consulto segreto del Politburo, il premier Miklos Németh andò a Mosca a informare Gorbaciov, e ne ebbe il consenso.
Regnava un clima sospeso tra speranze e paure, nella Budapest di allora come nella Varsavia del dialogo tra Solidarnosc e i generali. Al Forum o all'Atrium, gli alberghi più frequentati dai giornalisti occidentali, i big del regime riformatore e i capi del dissenso si mescolavano, venendo a comprare il Financial Times o la Frankfurter, o i giornali pro-perestrojka sovietici censurati a Berlino est o a Praga, a concedere interviste o a bere un aperitivo.
Gli ottimisti speravano nell'onda lunga della perestrojka, i pessimisti temevano un colpo di coda dei falchi, a Mosca o nelle capitali alleate. "Spero che questa sia la prima e l'ultima conferenza stampa con i nostri confini come tema", disse un altro portavoce militare, Andras Kovari, poi soldati ungheresi e guardie austriache festeggiarono grigliando salsicce.
Invece, di briefing sul confine magiaro ne vennero altri. A settembre, Budapest investita da migliaia di tedeschi dell'est in fuga abrogò il trattato con la dittatura di Honecker sull'obbligo di riconsegnare i fuggiaschi. In quella frontiera senza più fili spinati, il popolo in fuga dal Muro trovò il primo varco. Honecker e il tiranno romeno Ceausescu chiesero invano a Gorbaciov d'invadere l'Ungheria. Il loro potere sarebbe sopravvissuto solo poche settimane (a Berlino est) e fino a fine anno a Bucarest, alla breccia nel Muro, aperta con le cesoie dai soldatini magiari, quel 2 maggio di vent'anni fa.
ANDREA TARQUINI
(3 maggio 2009)
Fonte: La Repubblica
INFO
Ogni essere, anche il più chiuso nella più banale delle vite, costituisce in se stesso un cosmo...Ciascuno contiene in se galassie di sogni e di fantasmi, slanci inappagati di desideri e di amori, abissi di infelicità, immensità di glaciale indifferenza, conflagrazioni di astri in fiamme, irruzioni di odio, smarrimenti stupidi, lampi di lucidità, burrasche dementi...Se scopriamo che siamo tutti esseri fallibili, insufficienti, carenzati, allora possiamo scoprire di avere tutti un reciproco bisogno di comprensione.
Edgar Morin
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