Creato da m_de_pasquale il 05/10/2009
"il sapere ha potenza sul dolore" (Eschilo) ______________ "Perchè ci hai dato sguardi profondi?" (Goethe)
 

 

filosofia con i piedi

Post n°96 pubblicato il 01 Novembre 2012 da m_de_pasquale
 
 
 

il potere trascendente dell'anima

Post n°95 pubblicato il 12 Giugno 2012 da m_de_pasquale
 
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percorso: cutino Tagliata (41°45'43.68" N, 16°03'52.04" E) – piscina la Signora – Iazzo S. Michele – abbazia della Trinità – cutino Tagliata [13 km]

Anche questa montagna - l’antico monte Dodoneo consacrato al culto di Giove, poi cristianizzato con l’erezione di una chiesa dedicata alla Trinità -, come in genere ogni altura, ha una forza ierofanica (=rivelatrice del sacro) perché, come dice Eliade, “è più vicina al cielo, e questo le conferisce una doppia sacralità: da un lato partecipa al simbolismo spaziale della trascendenza (alto, verticale, supremo, ecc.), e d’altra parte il monte è per eccellenza il dominio delle ierofanie atmosferiche”. E’ l’uomo religioso, per il quale non è prevalente la visione  oggettivante della scienza, colui che è in grado di volgere uno sguardo “ingenuo” alla natura ed essere pertanto capace di coglierne la dimensione simbolica (rinviante): “Di fronte a un albero qualunque, simbolo dell’Albero del Mondo e immagine della Vita cosmica, un uomo delle società premoderne è capace di raggiungere la più alta spiritualità: comprende il simbolo, è in grado di vivere l’universale”. Aprirsi alla dimensione simbolica significa andare oltre (= trascendere) i significati ordinari e le connessioni obbligatorie e necessarie della ragione:  avere la capacità di vedere nelle acque la sostanza primordiale, fonte di vita da cui nascono tutte le forme e alle quali tornano; pensare a ciò che trascende la precarietà ed instabilità della condizione umana osservando la durezza e persistenza delle rocce; considerare la ciclicità di morte/resurrezione della vita guardando alla forza rigeneratrice degli alberi che perdono e recuperano le foglie; sentire placato nell’infinita altezza del cielo l’esperienza di pochezza dell’uomo e di angustia del suo spazio vitale; immedesimarsi nel ciclo del sole e della luna (tramonto/morte e rinascita) per superare l’angoscia della caduta nel nulla della morte. L’uomo religioso crede nella forza ierofanica della natura: ma sono gli elementi naturali effettivamente una manifestazione del sacro, o è la nostra anima che assegna un tale significato all’elemento naturale? Potrebbe essere che l’elemento naturale (montagna, acqua, roccia,…) interpreti solo un’esigenza che proviene dalla nostra anima? Che ciò che intendiamo come originario altro non sia che un incastro che completa la nostra condizione, una risposta ad una domanda? Il fascino imponente della montagna, la possente stabilità della roccia, l’oscurità misteriosa della vegetazione, non riflettono, forse, condizioni e desideri della nostra anima? E’ per questo motivo che l’immersione nella “sacralità” della natura costituisce una grande occasione per conoscere la nostra anima che rimane la grande forza trascendente capace di creare il sacro a cui appartengono gli istinti, le pulsioni, gli eccessi, i mostri, i morti, i demoni, la follia che ognuno di noi avverte dentro di sé. (camminare 16 - precedente  seguente)

 
 
 

la dislocazione rivelante

Post n°94 pubblicato il 11 Maggio 2012 da m_de_pasquale
 
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percorso: Baracconi (41°49'07.85" N, 15°59'55.74" E) - laghetto Umbra - coppa dei Prigionieri - caserma Murgia - laghetto d'Otri - caserma torre Palermo [AR 16 km]

Difficilmente ci si addentra in un bosco o una foresta senza avere punti di riferimento. Ci muniamo di carta, bussola, gps per ricordare da dove partiamo, aver sempre chiaro dove vogliamo arrivare attraverso un percorso che probabilmente è stato studiato in anticipo annotandone tutti passaggi. Anche i meno avveduti marcano il punto di partenza tenendolo sempre presente nei loro giri perché è il porto sicuro a cui far ritorno. Abbiamo bisogno di certezze che ci proteggano dall’angoscia dell’imprevedibile. Siamo noi che decidiamo la geografia organizzando lo spazio e il tempo da percorrere. Ma come sarebbe il nostro camminare senza punti di riferimento? Riusciremmo a sopportare una simile condizione? Una condizione che Nietzsche esprime con interrogativi memorabili quando racconta le conseguenze dell’assassinio di Dio, personificazione delle varie certezze metafisiche, morali e religiose elaborate dall’umanità per dare un senso ed un ordine al caos della vita e del mondo: “Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?”. Insomma, riusciremmo a sopportare una condizione così sconvolgente quando, non essendoci più “il sole” di riferimento, diventa impossibile definire una meta e di conseguenza un percorso sicuro? Ma poi è così importante avere una meta? Scrive Le Breton: Che cosa importa l’esito del cammino se ciò che conta è solo il fatto di averlo percorso? Non siamo noi che facciamo il viaggio, è il viaggio che ci fa e ci disfa e ci inventa”. Se ci facciamo disfare dal viaggio ci mettiamo nella condizione di far emergere e scoprire aspetti mai considerati di noi stessi e del mondo: l’abbandono dei punti di riferimento apre lo spazio ad una nuova geografia del mondo e dell’anima. Il disorientamento ci apre alla scoperta. Heidegger usa la bella immagine dei sentieri interrotti (Holzwege) per dire di quei sentieri, all'interno di un bosco, disorientanti perchè, interrompendosi, sviano, costringendoci a girovagare senza permetterci di raggiungere la meta prefissata. Sentieri che non portando da nessuna parte, si addentrano solo nel bosco disabituandoci al pensiero della meta, alla sicurezza dei punti di riferimento. E' un'esperienza di dislocazione che ci porta a non essere più padroni del bosco, ma è il bosco che si è impadronito di noi. E’ un po’ quello che accadeva a Socrate in quei comportamenti strani che Platone ricorda, come quando dirigendosi con Aristodemo ad una cena in casa di Agatone, Socrate, sentendosi dominare da una strana forza “andava per la strada restando via via indietro … tutto rivolto a se stesso” , finchè, completamente afferrato da una strana condizione che tutto lo pervade, si toglie dalla confusione di una via “per mettersi nel portico della casa vicina dove se ne sta in piedi immobile”. Socrate, abbandonando il percorso previsto, subisce una dislocazione (atopìa) dell’anima che, indebolendo il possesso di sé, gli apre l’accesso a nuovi spazi. Forse è proprio l’abbandono del percorso tracciato la condizione per riuscire a vedere ciò che normalmente non appare.  (camminare 15 - precedente  seguente)

 
 
 

la previsione rassicurante

Post n°93 pubblicato il 16 Aprile 2012 da m_de_pasquale
 
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percorso: baia Manacore (41°56'46.37" N, 16°02'46.20" E) - torre Calalunga - torre Usmai - torre Sfinale [AR 13 km]

Nel XVI secolo uno dei più gravi pericoli per chi abitava in prossimità delle nostre coste era costituito dai turchi che potevano irrompere all’improvviso nei centri abitati seminando terrore e morte. Per questo motivo vennero costruite una serie di torri di avvistamento che avrebbero dovuto vedere in anticipo le navi che si avvicinavano e quindi attrezzarsi per la difesa. Una visione anticipatrice che avrebbe dovuto alleviare dall’angoscia dell’imprevisto e consentire la predisposizione delle misure di salvezza. Che la previsione sia un rimedio al dolore ce lo ricorda Platone quando parla di Prometeo (Pro-meteo = colui che vede in anticipo) il quale, rubando la sapienza tecnica agli dei e donandola agli uomini, favorisce il loro potere sulle cose. La sapienza tecnica è lo sviluppo della razionalità che si esprime anche con la capacità di cogliere i nessi consequenziali che connettono gli eventi: quando si anticipa l’evento (si prevede) è possibile stabilire un nesso consequenziale tra ciò che viene prima e ciò che viene dopo; si è in grado di operare una lettura causale degli eventi che sottrae questi ultimi alla loro enigmatica caoticità che ci angoscia. La nozione di causalità è stata una delle grandi acquisizioni del pensiero che ha contribuito a difenderci dall’angoscia dell’imprevedibile accadere degli eventi. Conoscere la causa significa prevedere l’effetto, prepararsi al suo evento, sottrarsi all’accadimento imprevisto, ridurre il timore, placare l’angoscia in un sapere che sa di sé e del corso delle cose. Questa capacità previsionale che appartiene alla nostra vita ha fornito le basi per la costruzione della previsione scientifica che, connotando di esattezza, necessità, universalità i nessi tra gli eventi stabiliti dalla nostra naturale capacità previsionale, ha preteso di ridurre gli eventi ad uno schema necessario anticipato dall’uomo. Ma quanto questo schema mentale – o, a dirla con Husserl, questo abito ideale -  rispecchia effettivamente la realtà? Come considerare la previsione scientifica? Una verità assoluta ed autonoma o solo un’evoluzione della naturale capacità previsionale che caratterizza la nostra vita?  Afferma Husserl: “Nella matematizzazione geometrica e scientifico-naturale, noi commisuriamo così al mondo-della-vita (al mondo che ci è costantemente e realmente dato nella nostra vita concreta che si svolge in esso), nell’aperta infinità di un’esperienza possibile, un ben confezionato abito ideale, quello delle cosiddette verità obiettivamente scientifiche; […] proprio così attingiamo la possibilità di una previsione degli accadimenti concreti del mondo, di quegli eventi che non sono più o non sono ancora realmente dati, degli eventi, cioè, intuitivi del mondo-della-vita, attingiamo cioè la possibilità di una previsione che supera infinitamente la portata della previsione quotidiana. […] L’abito ideale fa sì che noi prendiamo per il vero essere quello che invece è soltanto un metodo, un metodo che deve servire a migliorare mediante ‘previsioni scientifiche’ le previsioni grezze, le uniche possibili nell’ambito di ciò che è realmente esperito ed esperibile nel mondo-della-vita”. E’ successo che, con lo sviluppo della scienza, la previsione scientifica, imponendosi sulla previsione grezza del mondo-della-vita, ha fatto dell’anticipazione scientifica l’orizzonte, la chiave di lettura del mondo, affermando il primato della certezza scientifica sull’incertezza del mondo della vita. Ma questo progresso della scienza, perfezionandosi e raggiungendo gli alti livelli della razionalità tecnica attuale, non ha forse influenzato la nostra capacità previsionale?  Il progressivo sviluppo della scienza e della tecnica che ci ha portati al punto di non riuscire più a stare al passo con la nostra capacità di produzione, non ha forse ridotto la nostra capacità di prevedere?  Il dislivello prometeico che Anders definisce come “l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, una distanza che si fa ogni giorno più grande” ci mette ancora nelle condizioni di anticipare ed immaginare gli effetti ultimi del nostro fare?  (camminare 14 - precedente  seguente)

 
 
 

l'uomo è antiquato

Post n°92 pubblicato il 06 Aprile 2012 da m_de_pasquale
 
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percorso: valle dell'Inferno (41°39'35.60" N, 15°47'56.30" E) - [5 km]

Il nome è azzeccato: Valle dell’inferno, per il luogo impervio e difficile da abitare. Fa un certo effetto pensare che le caverne, di cui sono costellate le pareti scoscese, siano state abitate dall’uomo preistorico, un uomo che, certamente, si muoveva in questo ambiente con maggiore facilità rispetto a quello di oggi. Sembra strano, ma l’assenza della tecnica ha favorito un maggior sviluppo delle potenzialità umane facendo sì che il primitivo potesse sopravvivere in ambienti anche molto ostili. La ragione ce la ricorda Rousseau: “Poiché il solo strumento che l’uomo selvaggio conosca è il suo corpo, lo adopera per vari usi di cui, per mancanza di esercizio, il nostro non è capace: è la nostra industriosità che ci toglie quella forza e quell’agilità che la necessità obbliga lui ad acquistare. Se avesse avuto una scure, la sua mano sarebbe riuscita a rompere rami così grossi? Se avesse avuto una fionda, il suo braccio avrebbe lanciato pietre con tanta energia? Se avesse avuto una scala si sarebbe arrampicato sugli alberi con tanta leggerezza? Se avesse avuto un cavallo, sarebbe stato così veloce nella corsa? Lasciate all’uomo civile il tempo di radunare intorno a sé tante macchine, e senza dubbio supererà facilmente il selvaggio; ma se volete vedere una gara in condizioni ancora più diseguali, metteteli l’uno davanti all’altro nudi e disarmati, e riconoscerete subito quale sia il vantaggio d’aver sempre a disposizione tutte le proprie forze, d’essere sempre pronto a ogni evento e di portare sempre se stesso, per così dire, tutto intero con sé”. Quindi l’uomo moderno, al netto della tecnica, non potrebbe competere con un primitivo in un ambiente ostile. La tecnica, nella vicenda umana, ha supplito alle mancanze dell’uomo fornendogli gli ausili per sopravvivere, anche se, nella modernità, essa è arrivata ad un punto di tale sviluppo da far vergognare l’uomo della propria arretratezza di fronte ad essa. Sembra che la nostra anima non sia stata capace di stare al passo con le trasformazioni che la tecnica imponeva come ci ricorda Anders che parla della “incapacità della nostra anima di rimanere up to date, al corrente con la nostra produzione, dunque di muoverci anche noi con quella velocità di trasformazione che imprimiamo ai nostri prodotti, e di raggiungere i nostri congegni che sono scattati avanti nel futuro (chiamato ‘presente’) e che ci sono sfuggiti di mano. La nostra illimitata libertà prometeica di creare sempre cose nuove ci ha portati a creare un tale disordine in noi stessi, esseri limitati nel tempo, che ormai proseguiamo lentamente la nostra via, seguendo di lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto e proiettato in avanti, con la cattiva coscienza di essere antiquati, oppure ci aggiriamo semplicemente tra i nostri congegni come sconvolti animali preistorici”. L’uomo moderno rimane soccombente sia nei confronti del primitivo che nei riguardi della produzione tecnica.  (camminare 13 - precedente  seguente)

 
 
 

homo homini lupus

Post n°90 pubblicato il 16 Marzo 2012 da m_de_pasquale
 
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percorso: san Matteo (41°42'44.50" N, 15°39'37.07" E) - canale Fajarama - caserma Cutinelli - base scout - san Matteo [6 km]

Nella misura in cui il nostro camminare nei boschi è rispettoso del luogo, abbiamo la possibilità d’incontrare per brevi attimi degli animali: può essere una esperienza piacevole come quando si scorge un piccolo di volpe che riposa in mezzo ad un sentiero o un’esperienza più preoccupante come quando si sente lo scalpitio di un cinghiale. Comunque gli animali, a meno che non si sentano in pericolo per la nostra presenza, scappano: sanno bene che siamo noi gli animali più pericolosi! C’è però un animale, il cane, che – proprio perché conosce bene l’uomo per un rapporto di familiarità che da sempre intrattiene con lui – non ha paura e di conseguenza azzarda decidendo addirittura di minacciarlo ed attaccarlo. Non è un’esperienza piacevole, come è avvenuto in questa camminata, essere attaccato da una dozzina di cani inselvatichiti. La prima reazione è la paura che per qualche istante paralizza il corpo, ma poi scatta subito la reazione e con urla, sassate e minaccia del bastone si riesce a tenerli lontano. Ma durante il confronto ravvicinato che dura vari minuti durante i quali i cani continuano ad abbaiare minacciosi digrignando i denti, si ha la possibilità di sperimentare quella condizione infelice in cui probabilmente si sono venuti a trovare i nostri progenitori quando, in assenza di una legge e di un potere comune, sentivano minacciata la loro vita da altri individui che, “volevano godere per sé l’uso di cose che sono in comune”. Infatti, spiega Hobbes: “Se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla, diventano nemici, e sulla via del loro fine (che è principalmente la loro propria conservazione, e talvolta solamente il loro diletto) si sforzano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro. Onde accade che dove un aggressore non ha più da temere che il potere singolo di un altro uomo, se uno pianta, semina, costruisce o possiede un fondo conveniente, ci si può probabilmente aspettare che altri, preparatisi con forze riunite, vengano per spossessarlo e privarlo non solo del frutto della sua fatica, ma anche della sua vita o della libertà. E l’aggressore è di nuovo in un pericolo simile a quello in cui era l’altro”. E’ la condizione dello stato di natura che Hobbes definisce “la guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo”. E’ uno stato in cui gli individui sono dominati dalle pulsioni fondamentali che li portano a vivere, a detta di Spinoza, “secondo il solo impulso dell’appetito, dato che la natura non ha dato loro nient’altro e ha loro negato la potenza attuale di vivere secondo la retta ragione, e non sono perciò tenuti a vivere secondo le leggi della mente retta più di quanto non sia tenuto il gatto a vivere secondo le leggi della natura leonina”. Per Freud la civiltà (in tedesco kultur = cultura) ci ha emancipato dalla condizione dello stato di natura disciplinando gli istinti fondamentali della sessualità e dell’aggressività, regolando le relazioni reciproche con la nascita del diritto che è il potere della comunità sul singolo: in altri termini “l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”. Ma sebbene emancipati, la nostra origine non può essere dimenticata. Infatti in quei cani rabbiosi c’è lo specchio di ciò che potremmo sempre diventare se i motivi dell’aggressività che Hobbes elenca sono questi: “Nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la competizione, in secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo a gloria. La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza, e la terza per reputazione. Nel primo caso gli uomini usano violenza per rendersi padroni delle persone di altri uomini, delle loro donne,dei loro figli, del loro bestiame; nel secondo caso per difenderli; nel terzo caso per delle inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione differente, e qualunque altro segno di scarsa valutazione, o direttamente nei riguardi delle loro persone, o di riflesso nei riguardi della loro parentela, dei loro amici,della loro nazione, della loro professione o del loro nome”.  (camminare 12 - precedente  seguente)

 
 
 

il bello della natura

Post n°89 pubblicato il 01 Marzo 2012 da m_de_pasquale
 
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percorso: Mergoli (41°45'08.69" N, 16°09'00.97" E) - Vignanotica [AR 4 km]

La facoltà che entra in gioco quando si cammina in un paesaggio naturale non è prioritariamente quella dell’intelletto interessato alla spiegazione meccanica delle cose - tipica della conoscenza delle scienze che formula un giudizio determinante, secondo la definizione kantiana -, ma quella del sentimento che tende ad oltrepassare la riduzione oggettivante della conoscenza scientifica senza abbandonare l’orizzonte fenomenico in cui essa si svolge. Questo rapporto sentimentale col mondo è ciò che Kant definisce giudizio riflettente perché riflette sulla natura per comprenderla attraverso le nostre esigenze di finalità ed armonia. Una “riflessione” che si sviluppa sempre in una sensazione di piacere soggettivo. Non tutti i piaceri sono uguali. Esistono, ad esempio, quelli interessati che nascono dal possesso di qualcosa, e proprio perché dipendono dal possesso non favoriscono un’esperienza di libertà nel soggetto che prova piacere. Ma quando il piacere è indifferente all’esistenza dell’oggetto perché gode unicamente della sua immagine, allora la sua caratteristica è il disinteresse. Questa caratteristica costituisce il nucleo del piacere del bello che, come scrive Kant, è “disinteressato e libero perché in esso l’approvazione non è imposta da alcun interesse, né dai sensi, né dalla ragione”. Non solo disinteressato, ma anche universale nel senso che è universale la soggettività del sentimento del bello (si tratta di un’universalità completamente diversa da quella caratterizzante i giudizi conoscitivi della scienza). Si tratta di un piacere definito da Kantun sentimento di qualità superiore perché è possibile goderne senza provare sazietà o stanchezza; oppure perché presuppone una sensibilità dell’anima che le consente di provare commozioni virtuose; un sentimento raffinato che si distingue in due specie: il sentimento del sublime e il sentimento del bello. Ambedue provocano nell’animo una deliziosa commozione, ma in modo completamente diverso. La visione di un monte le cui cime innevate si levano sopra le nubi, la descrizione d’infuriare di una tempesta, suscitano piacere misto a terrore; invece, l’occhio che spazia su prati in fiore, valli percorse da rivi serpeggianti, disseminate di greggi al pascolo, procurano anch’esse sensazioni deliziose, però liete ed aperte al sorriso. Per far sì che le impressioni del primo tipo possano verificarsi in noi con la dovuta intensità, dobbiamo avere un sentimento del sublime; per godere quelle del secondo tipo in modo adeguato, un sentimento del bello. Alte querce e ombre solitarie in un bosco sacro sono sublimi, le aiole fiorite, le siepi basse, gli alberi potati a figura sono belli; sublime è la notte, bello il giorno. I temperamenti che possiedono un sentimento del sublime, vengono, dal calmo silenzio di una sera d’estate, quando la luce tremolante delle stelle fende le ombre brune della notte e la luna solitaria posa all’orizzonte, portati gradatamente ad un eccelso senso d’amicizia, di disprezzo del mondo, di eternità. Lo splendore del giorno ispira alacrità solerte e sentimenti gioiosi. Il sublime commuove, il bello attrae”. Rimaniamo affascinati dalla universalità del sentimento del bello: ci chiediamo come sia possibile che tutti concordino nel definire qualcosa “bello”. Forse perché abbiamo la fortuna d’incontrare cose “oggettivamente” belle nel senso che la bellezza è una loro proprietà costitutiva? O, piuttosto, è vero quanto dice Kant e cioè che la bellezza non risiede nelle cose, ma in un’esperienza tutta interna al soggetto conoscente? In altri termini non è la natura ad esser bella oggettivamente, ma il piacere del bello sarebbe il frutto dell’accordo tra il nostro sentimento e la finalità e l’armonia con cui pensiamo soggettivamente la natura. Se le cose stanno così, l’esperienza della bellezza dovrebbe risolversi in una celebrazione della potenza creatrice e trascendente della nostra mente e, pertanto, a dirla con Kant, non si tratta di un favore che la natura fa a noi, bensì di un favore che noi facciamo ad essa, innalzandola al livello della nostra umanità: “siamo noi che accogliamo la natura con favore, non è essa che offre un favore a noi”. (camminare - 11  precedente  seguente)

 
 
 

l'occhio della terra

Post n°88 pubblicato il 21 Febbraio 2012 da m_de_pasquale
 
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percorso: ponte 13 archi (41°32'14.76" N, 14°56'47.87" E) - riva orientale lago di Occhito - diga [A 18 km]

Il filosofo americano Thoreau, ad un certo punto della sua vita, decide di andare a vivere da solo in riva al lago di Walden. Il lago diventa, così, non solo il luogo fisico della sua permanenza, ma anche la possibilità di un’esperienza interiore: “Il lago è il tratto più bello ed espressivo del paesaggio. E’ l’occhio della terra, a guardare nel quale l’osservatore misura la profondità della propria natura. La sua superficie sembra vetro fuso, raffreddato ma non ancora coagulatosi, un’acqua liscia ed oscura, separata dal resto come da un’invisibile ragnatela, boa delle ninfee acquatiche che vi si riposano. Sopra questa grande distesa non c’è alcun tumulto, perchè essa è così presto e dolcemente lisciata e mitigata e, come in un vaso d’acqua che sia stato scosso, i cerchi tremanti cercano la riva, e tutto è liscio nuovamente. Non un pesce può saltare, non un insetto può cadere, sul lago, senza che il fatto non venga così riferito da cerchi e increspamenti, con linee aggraziate, quasi fossero il costante zampillare della sua fonte, il dolce pulsare della sua vita, il sollevarsi del suo petto. I brividi di gioia e i brividi di dolore si assomigliano. Quanto pacifico è il fenomeno del lago! … Nulla di tanto bello, puro e insieme tanto ampio, come un lago, forse, giace sulla terra”. Thoreau gode della bellezza, ovvero dell’esperienza soggettiva dell’armonia provocata dall’ordine e dalla proporzione dell’immagine che si presenta ai suoi occhi: i boschi e le montagne che si riflettono nel lago, il silenzio e la calma dell’acqua, la sonnolenta immobilità della superficie. Ma l’armonia è una qualità che appartiene alle cose, o è un’esperienza interiore del soggetto che “inconsapevolmente” viene proiettata sull’oggetto? Se noi vediamo nello specchio d’acqua ciò che proiettiamo, cosa c’è, allora, oltre lo specchio? Racconta Eliade che nelle culture antiche l’acqua è sempre stata considerata il “ricettacolo di tutti i germi, la sostanza primordiale da cui nascono tutte le forme e alle quali tornano, fons ed origo, matrice di tutte le possibilità di esistenza”. Se oltre l’apparente immobilità dell’acqua si nasconde, allora, la vitalità germinativa di tutte le possibilità, non dovremmo considerare le nostre immagini solo una costruzione depurata dagli elementi di disordine e caos che caratterizzano, invece, la nostra esperienza? Il velo dietro cui si nasconde la realtà? E’ vero che ricerchiamo il godimento del bello e che abbiamo bisogno dell’armonia per vivere, ma possiamo vivere continuando ad ignorare volutamente che la realtà è più dell’immagine? Quando ci specchiamo nel lago, fino a che punto l’immagine che ci viene restituita ci rappresenta? Non dovremmo andare oltre il riflesso per capire quello che siamo? Probabilmente Thoreau voleva fornirci questa indicazione quando definiva il lago “l’occhio della terra, nel quale l’osservatore misura la profondità della propria natura”. (camminare - 10  precedente  seguente)

 
 
 

fantasticherie del passeggiatore solitario

Post n°87 pubblicato il 08 Febbraio 2012 da m_de_pasquale
 
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percorso: Cassano (41°43'22.14" N, 15°52'34.79" E) – monte Titolone – cima di Summo – bosco Manfredonia – piscina s. Maria – coppa del Giglio – bosco Quarto – Cassano [12 km]

Capita quando si cammina che, una volta che le gambe hanno preso il loro autonomo ritmo di marcia, la mente inizi a vagare per conto suo. Infatti ad un certo punto il corpo, i piedi, procedono da soli, non hanno più bisogno dell’ordine della mente; a quel punto è come se la testa si fosse liberata di un vincolo, anzi la marcia concilia la sua attività (come quando il movimento ritmico del treno o un piacevole rumore di sottofondo concilia il sonno). I nostri pensieri vagano liberamente, non più costretti dalla necessità di produrre qualcosa secondo determinate regole. E’ quella condizione che Rousseau così ben descrive: “Talvolta mi sono dedicato a pensare a fondo, ma raramente con piacere, quasi sempre contro il mio gusto e come per forza; fantasticare mi riposa e mi diverte, riflettere mi stanca e rattrista: pensare è sempre stata per me un’occupazione penosa e senza attrattiva. Talvolta le mie fantasticherie finiscono nella meditazione, ma più spesso le meditazioni finiscono nel sogno, e durante questi vagabondaggi, la mia anima erra e vola nell’universo sulle ali dell’immaginazione, in estasi che sorpassano ogni altro godimento”. Si dice che la filosofia sia nata nel momento in cui il pensiero si è disciplinato con precise regole di funzionamento. Parmenide definendo il sentiero della verità come quello secondo cui “se una cosa è non è possibile che non sia”, ha inaugurato il principio di non contraddizione, strumento fondamentale della logica, la disciplina che sovrintende al corretto funzionamento del pensiero. Su queste basi Platone ha descritto la conoscenza discorsiva (dianoia), quel procedimento, cioè, che deriva conclusioni da premesse attraverso successivi e concatenati passaggi di pensiero. Anche l’altro tipo di conoscenza, di cui parla Platone, ovvero la conoscenza noetica, l’intuizione intellettiva immediata che sembrerebbe sottrarsi al principio di non contraddizione, ha addirittura la funzione di raggiungere il punto di partenza su cui poggerà la conoscenza dianoetica. Le fantasticherie di Rousseau sono tutt’altro che un pensiero calcolante come quello della scienza che trasforma le qualità in quantità o dell’economia che misura i profitti; nulla a che fare col pensiero della tecnica piegato alle esigenze dell’efficienza e dell’utilità. Infatti egli immerso nella natura che “offre all’uomo, nell’armonia dei tre regni, uno spettacolo pieno di vita, di interesse e di fascino, il solo spettacolo al mondo di cui occhi e cuore non si stancano mai”, uno spettacolo che è “ricreazione degli occhi … per gli odori soavi, i colori vivi, le forme più eleganti”, stigmatizza un approccio finalizzato all’utilità criticando il comportamento di chi cerca nella natura solo il suo interesse che si manifesta “nel cercar nelle piante droghe e rimedi … per guarire la rogna dei bambini, la scabbia degli uomini o il cimurro dei cavalli”. Insomma la ricerca dell’utilità e dell’interesse esclude quell’estasi che sorpassa ogni altro godimento: “Questi modi di pensare che sempre riconducono tutto al nostro interesse materiale, che cercano ovunque un profitto o dei rimedi, e che finirebbe col far guardare con indifferenza la natura se si stesse sempre bene in salute, non sono mai stati i miei. A questo proposito mi sento diversissimo dagli altri uomini; tutto quello che ha relazione coi miei bisogni, rattrista, sciupa i miei pensieri, e non ho mai trovato così affascinanti i piaceri dello spirito come quando ho perso affatto di vista l’interesse del corpo”. Le fantasticherie di Rousseau introducono alla follia del pensiero, ad un pensiero non costretto dalla logica che è escludente (A = A, A / B), ma ad un pensiero ambivalente (A = A, A = B) tipico della logica simbolica (syn-ballein / dia-ballein) dove una cosa è allo stesso tempo questo ed altro. Per certi versi è come il pensiero dei nostri sogni governato da quelle che Freud chiama libere associazioni. Un pensiero non solo riproduttivo, ma creatore. Un pensiero che proprio perché si allontana dalle regole ordinarie può essere capace di pensare l’impensabile. Ma per molti un pensiero del genere è inutile come è stata tacciata di inutilità la filosofia se fin dalle origini è circolato l’aneddoto riguardante Talete che un bel giorno proprio perchè assorto nelle sue fantasticherie, è caduto in un pozzo provocando le risate di una servetta, ovvero della logica che, invece, conosce molto bene le regole per non cadere. E’ difficile introdursi ad un pensiero del genere? Occorre raggiungere dimensioni così lontane da quelle che solitamente percorriamo? O esso è a portata di mano? Illuminante una considerazione di Rousseau, il quale racconta che un giorno avventurandosi in una escursione, raggiunse “un posto così nascosto, che in vita mia non ho visto mai un luogo più selvaggio”; addirittura pensava: “senza dubbio sono il primo uomo che è penetrato fin qui”. Ma mentre “mi pavoneggiavo in questa idea, sentii poco lontano da me un certo tintinnio che mi parve riconoscere; mi metto in ascolto: lo stesso rumore si ripete e si moltiplica. Sorpreso e curioso, m’alzo, attraverso un folto di cespugli donde veniva il rumore, e in un valloncello, a venti passi dal luogo dove credevo d’essere giunto per primo, scopro una manifattura di calze”. Il frutto più avanzato del pensiero scientifico, tecnico, economico (la manifattura di calze) a “venti passi” dal “luogo più selvaggio”!.  (camminare - 9  precedente  seguente)

 
 
 

la vita vissuta nella trascendenza immanente

Post n°86 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da m_de_pasquale
 
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Come cambia la vita se viene vissuta nella dimensione dell’essere? Se viene vissuta come una e-sistenza nella costante polarità con l’essere e quindi in quella dimensione che abbiamo definito della trascendenza immanente? Una vita che lasci spazio alla fede filosofica, la possibilità che ci consente di coniugare l’immanenza con la trascendenza? Di sicuro sarebbe una vita coerente con la sua natura più propria (che è quella dell’oltrepassamento = ek-sistenza) e proprio per questo felice se è vero come ci ricorda Aristotele che la felicità coincide con la realizzazione dell’autentica natura dell’uomo. Cosa sarebbe la nostra vita interiore se non mantenesse costantemente la polarità con la trascendenza? Si appiattirebbe sulla maschera imposta dalla cultura, dalla società rimuovendo componenti della nostra interiorità verso le quali ci è impedito l’accesso. Accesso che coincide col processo d’individuazione, secondo la definizione junghiana, vale a dire la possibilità della trascendenza: solo andando oltre la mia parte conosciuta diventa possibile instaurare una relazione con la parte nascosta del mio io che contribuisce a vivificare la mia anima. Una delle esperienze – o, forse, l’esperienza - qualificanti la nostra vita è l’amore che quando è vissuto nella chiusura dell’immanenza si riduce a possesso, gelosia, godimento, sessualità ridotta a commercio di carne e quando si alimenta della pura trascendenza vive dell’idealizzazione astratta, impedendosi la possibilità dell’apertura dell’immanenza sulla trascendenza come avviene nella seduzione che col gioco vedere/non vedere apre uno spiraglio su un’ulteriorità di senso. Assecondando la natura dell’amore che è desiderio non sperimentiamo la mancanza che spinge all’azione e quindi alla trascendenza? E la passione, non gioca anch’essa con la trascendenza se la consideriamo come il turbamento per la messa in pericolo della mia identità nella disponibilità a trascendersi? Insomma è nella vera natura dell’amore non risolversi in un polo (immanenza = protezione, stabilità, misura, possesso, sicurezza) o nell’altro (trascendenza = rischio, oltrepassa mento della misura, eccesso, libertà), ma mantenere una costante polarità tra immanenza e trascendenza, appunto la trascendenza immanente. Un rapporto con la natura esercitato nell’ottica della sola immanenza, considerandola un fondo a disposizione, materiale da sfruttare per alimentare la logica del profitto, consente di cogliere in essa un rinvio all’Essere? E’ ancora possibile quello sguardo ingenuo capace di vedere nella montagna la possibilità di accedere al cielo cioè a quella parte che ci sovrasta e che è a noi ignota? Vedere nel sole e la luna il mistero della nostra vita che è un continuo morire/risorgere? Pensare alle acque come la fonte della vita e la possibilità di una rigenerazione? Meravigliarsi della stabilità delle rocce, della maestosità degli alberi, dell’infinita altezza del cielo? Un’etica che si muove nell’orizzonte della trascendenza immanente non possiede la sicurezza delle etiche che hanno solidificato la polarità tra trascendenza ed immanenza, che per assecondare il bisogno di controllo e dominio, esigenze della volontà di potenza, hanno redatto tavole di regole e prescrizioni da applicarsi universalmente e valide per ogni situazione. L’etica della trascendenza immanente è un’etica del rischio, della problematicità. Un’etica che non ha fondamenti ontologici a suo sostegno, non vive di certezze indubitabili, non prescrive comandamenti sicuri validi universalmente. E’ un’etica del viandante che vivendo passo per passo il solo paesaggio che attraversa, non ha punti di riferimenti certi come il viaggiatore che conosce la sua meta, ma decide di volta in volta ciò che è giusto fare avendo la consapevolezza che quanto deciso non può avere una valenza universale. Che ne è della politica se smarrisce la tensione con la trascendenza? Diventa esercizio del potere finalizzato all’interesse privato di singoli e gruppi: prevalenza dell’interesse privato sul bene comune. Diventa luogo del privilegio, dell’ingiustizia, dell’esclusione, della violenza. Chissà se Platone col suo comunismo che anteponeva l’interesse della polis a quello degli individui, Rousseau che prospettava la possibilità di una volontà generale capace di guadagnare una posizione che superasse le volontà individuali, Marx che anteponeva l’interesse collettivo della democrazia piena alla priorità dei diritti individuali predicati dal liberalismo borghese, non esprimano il progetto di radicare la tensione trascendente nella politica, la possibilità, cioè, di innescare un rinvio che faccia superare l’appiattimento sull’interesse particolare di gruppi ristretti e restituisca alla politica la tensione verso il bene comune. La perdita della dimensione dell’essere in economia si traduce nell’assolutizzazione della logica del profitto. Un oggetto nato come strumento per stabilire equivalenze negli scambi diviene il centro attorno a cui ruota il sistema economico: il denaro. Tutto viene sottoposto alla logica mercantile di scambio, tutto viene monetizzato (tradotto in denaro), ogni cosa ha un prezzo. Non solo le cose materiali ma anche quelle immateriali. Come insinuare la trascendenza nell’economia? Togliendo potere al denaro ed assegnandolo alle relazioni. Non è il denaro che ci fa vivere ma la possibilità di stabilire rapporti (andare oltre noi stessi = trascendenza) con gli altri. Passare da un’economia di mercato ad una economia delle relazioni che soddisfi i veri e necessari bisogni che gli individui hanno per essere felici. Una economia non più asservita al mito della crescita e dell’efficienza, ma rivolta al servizio e alla manutenzione, dove alla logica dello scambio va preferita la logica della reciprocità che rafforza la solidarietà tra gli individui.  (sacro - 10  precedente)

 
 
 

il sacro della musica

Post n°85 pubblicato il 21 Gennaio 2012 da m_de_pasquale
 
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Se la musica non è abitata “dal linguaggio, dalla ponderatezza del pensiero, dal travagliato acquisire della riflessione”, ma – come dice Kirkegaard – “in questo regno risuona soltanto la voce elementare della passione, il gioco dei desideri, il chiasso selvaggio dell’ebbrezza, si gode soltanto in eterno tumulto”, essa potrebbe favorire la possibilità di accesso a quella parte più profonda e meno nota della nostra anima che ha a che fare col sacro. Sembrerebbe che l’udito più degli altri organi sensoriali abbia una potente capacità trascendente in grado di farci superare il confine e il limite: se la parola della nostra bocca è chiusa in significati ben definiti perché soggetta alle leggi della logica, se la vista del nostro occhio circoscrive e delimita l’orizzonte visibile, il suono percepito dal nostro udito è in grado di inoltrarci in sensi che stanno al di là di tutti i significati codificati. In questo senso Valentina afferma: “Se è vero che nel momento folle, dove l' Es prende il sopravvento, non ci sono più dimensioni come quella del tempo, dello spazio, del limite, della mortalità e dal punto di vista cognitivo tutto si esprime con immagini e simboli, direi che ascoltare la musica per me vuol dire essere in questo 'stato', entro certi limiti”. La musica è come un viaggio – dice Martina – che permette di raggiungere i luoghi più profondi della propria interiorità: “La musica, unitamente al contesto (la notte, il buio, il fatto di essere soli), genera sensazioni che personalmente ritengo talmente intense da poter essere paragonate a quelle di alcune droghe, visto che è un vero e proprio viaggio della mente per me: ascoltare e seguire le note è come finire in un vortice, è come se venissi ipnotizzata, la mia mente genera un flusso ininterrotto di immagini e pensieri non ben definiti, che finisce solo quando finisce la musica”. Un viaggio capace di suscitare emozioni intensissime come dice Francesca: “Non riesco a descrivere bene quello che ho provato, ma ho sentito un brivido dall’addome che è salito fino alla gola passando per il cuore, e li si è bloccato … come quando ti viene da piangere e non ci riesci”. Una irruzione sconvolgente nella propria esistenza come racconta Tonia: “Ci sono canzoni che mi fanno salire i brividi, che mi fanno scendere le lacrime … di solito quando mi commuovo, quando ho brividi, quando sto quasi per levitare in aria come uno che medita, allora quella canzone è riuscita a smuovere qualcosa di recondito in me! Non sempre il testo è chiaro ed esplicito e, tuttavia, mi emoziona. Magari alcune le ascolti e chi le canta ti sembra un usurpatore perchè ti ha invaso … senza che tu te l'aspettassi si è appropriato di te e, quando la canzone finisce, tu rimani sola a raccogliere gli stracci che ha lasciato di te…”.  Un viaggio che sembra un ritorno a quel dedalo di emozioni che ci costituisce nel profondo, di stati d’animo che la musica ha il potere di evocare facendoci sperimentare una profonda nostalgia, fornendoci, però, anche la possibilità di riconoscere queste emozioni per averne intelligenza. Una possibilità che è data solo alla musica come pensa Giusy: “Non so spiegare benissimo quale sia il nesso tra la musica e la mia anima, potrei dire però che essa arriva lì dove non arriva l'italiano, o le urla o la paura o uno schiaffo o un bacio”. La funzione evocatrice della musica può non solo essere subita come quando è lo stato d’animo ad influenzare il tipo di musica che si intende ascoltare, ma può essere anche provocata affinchè favorisca l’emergere di determinate emozioni affermandosi, così, un ruolo più attivo della nostra intelligenza. L’individuo aspira ad una condizione dove, finalmente, può sperimentare lo stato di quiete originaria che rappacifica la sua incessante esperienza dei contrari, dove non conosce più lo scarto tra la possibilità e le sue realizzazioni, quella condizione d’identificazione col tutto che le religioni identificano con l’esperienza di Dio. Questa condizione diventa accessibile con la musica a sentire le sensazioni raccontate da Antonella a proposito dell’ascolto di una melodia di Einaudi: “Le note che ascoltavo mi hanno letteralmente catturata e ne sono rimasta incantata. In quel momento è come se il tempo si fosse fermato, tutto attorno fosse sparito ed io ero totalmente rapita da questa melodia … non avevo nessun pensiero per la mente, sentivo solo queste note che mi attraversavano e mi tenevano ferma e immobile per farsi ascoltare. Poi l’ho risentita ancora e ancora e ancora … e ogni volta era una sensazione diversa. A volte mi trasmettevano una pace assoluta, per la loro armonia e il loro ordine. Forse è proprio questo il potere di questa canzone: ogni nota è al posto giusto e non potrebbe essere altrove, e allora ne sono catturata perché forse trovo lì quella perfezione che fuori non c’è, ci trovo quell’ordine e quella serenità che forse dentro me a volte non ho. È come se anche la mia anima cominciasse a danzare in equilibrio con lo scorrere di queste note, e allora trovo un senso di pace e serenità, e sto lì, ferma, senza pensare a niente”. Se l’armonia della musica riproduce la situazione della quiete originaria a cui aspiriamo, è anche vero che esiste un altro tipo di musica che rinvia alle nostre origini, quella musica che riproduce la ritmicità del linguaggio originario: la musicalità del corpo (il battito del cuore, la ritmicità del respiro), della natura (il ritmo giorno/notte). Una musica che esprime l’urto della contraddizione, quella dei seguaci di Dioniso che seduce, inebria, si impossessa degli animi. Una musica che diventa tutt’uno col corpo inserendolo nel flusso dell’energia vitale come ci raccontano Valentina, Silvia ed Antonella. “ La musica ritmica, ripetitiva ha fascino sui giovani perchè a mio parere sono molto legate al ballo, al caos della discoteca, luci, gente e anche un pò di alcool ... Sento questo tipo di musica col movimento del corpo, … il corpo segue la musica; in quel momento non penso a molto e come se staccassi davvero la mente da ogni moralità, preoccupazione per i problemi piccoli o grandi; si scatena l'energia vitale che si ha dentro, non si può fare a meno di muoversi”.  “A noi giovani piacciono musiche dal ritmo cadenzato e primitivo perchè risvegliano quella parte più nascosta di noi, quella istintiva e primitiva per l'appunto, che le convenzioni ci invitano a mettere sempre da parte … ed ecco quindi che balliamo, in cerchio, come dei pazzi, agitando le braccia e la testa con un fare quasi scimmiesco. E' come ritornare nell'era primitiva, in quei locali con le luci psichedeliche e una musica assordante: sono catapultata in un mondo totalmente diverso, che mi altera nel vero senso della parola”.  “Fin da subito mi vien da muovere i piedi e la testa a ritmo di musica, un ritmo forte e ripetitivo. Questo tipo di musica trasmette forza, energia, ti entra dentro e ti da carica. Questi ritmi semplici così primitivi forse risvegliano in te un essere quasi primordiale, che ti fa sentire indomito, libero, quasi fuori dalle convenzioni e dalla civilizzazione. È come annullare la cognizione e l’evoluzione e tornare un tutt’uno con la natura, fatta di ritmi e cicli. Quindi forse i giovani amano questa musica proprio perché permette di uscire dai limiti delle convenzioni e tornare al puro istinto. Il ballo è energia. Non contano i movimenti o la perfezione di un passo, l’importante è farsi travolgere dalla musica. È essenziale annullare una parte di noi: la ragione. E lasciare che tutto il resto prenda il sopravvento: l’anima, il cuore, l’istinto, l’inconscio, la forza fisica, l’irrazionale …. non è più la mente a guidarci, ma tutto quello che è fuori controllo. Non ci sono regole, ed è proprio questo che permette di farci accedere alla parte più nascosta di noi. Che sia un semplice muovere i piedi, oscillare, o saltare … l’importante è sentirsi liberi. In quel momento è l’anima che ti guida. A volte quando sento la musica c’è qualcosa dentro che mi spinge a danzare energicamente, e vorrei farlo fino allo sfinimento. Ma c’è qualcosa che mi frena, e questa è la ragione, con le sue convenzioni e la sua timidezza”. In che rapporto sono la musica armonica con quella disarmonica? Sono due modi autonomi di fare musica oppure la dissonanza della disarmonia può essere godimento solo se ha in vista la consonanza dell’armonia? La dissonanza che riproduce l’inquietudine dell’individuo, il tormento derivante dai limiti della sua condizione, ha in sè naturalmente il desiderio della consonanza, della composizione dei contrari? Probabilmente la verità è nel mantenimento della polarità e pertanto la musica custodisce la sua natura utopica (e quindi è un organo della trascendenza) quando esprime costantemente lo scarto che esiste tra ciò che siamo e la sua possibilità. Le citazioni sono relative agli interventi di alcuni miei ex studenti che si sono prestati a rispondere alle mie domande sul ruolo della musica nella loro esperienza. (sacro - 7  precedente  seguente)

 
 
 

l'immagine mobile dell'eternità

Post n°84 pubblicato il 12 Gennaio 2012 da m_de_pasquale
 
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percorso: piana di monte Calvo (41°43'54.56" N, 15°45'01.83" E) - monte Calvo [AR 5 km]

Sarà l’essenzialità di questa montagna (non c’è vegetazione, un monte calvo come dice il suo nome) che attenua ogni movimento, sarà il suono monotono del silenzio dell’altezza che riecheggia nelle orecchie, ma l’impressione prevalente che si avverte è quella della sospensione dello scorrere del tempo che fa pensare alla definizione platonica del tempo: immagine mobile dell’eternità. Noi che siamo abituati a pensare il tempo come un serbatoio da cui attingere (contiamo le ore, i giorni e li rapportiamo alla durata delle cose che facciamo, dei nostri progetti futuri), come qualcosa che abbiamo a disposizione riducibile a quantità misurabili per cui il tempo si può guadagnare o perdere alla stregua di un qualsiasi oggetto, sicuramente impattiamo in una esperienza del tempo inusuale. Probabilmente la convinzione di poter comandare sul tempo ci serve per esorcizzare l’angoscia più profonda che l’individuo possa provare: l’angoscia del divenire, quella, cioè, del tempo che ci possiede. Il tempo che passa ci rende consapevoli che la nostra vita coincide con un flusso continuo che procede verso il decadimento e la morte. Un flusso che per la sua inarrestabilità ed irreversibilità ci getta nello sconforto a cui reagiamo con i nostri vani tentativi di fermare il tempo (dalle creme ai lifting, agli stili di vita che vorrebbero perpetuare un’età ormai passata). Un’altra reazione alla temporalità è la proiezione nel futuro, pensare che se abbiamo continuamente progetti da realizzare, impegni da assolvere, il nostro desiderio di eternità avrà la meglio sulla temporalità della nostra esistenza. E’ il tempo progettuale in cui l’uomo non guarda il passato, ma il futuro, quel futuro immediato che si tiene in stretta relazione con il recente passato. Questa reazione al dominio del tempo è figlia di un’altra reazione, più antica, inaugurata dalla tradizione giudaico-cristiana: il tempo della salvezza che guarda però ad un futuro lontano, si rivolge alla fine del tempo quando si svelerà ciò che all’inizio era stato annunciato. Questa concezione escatologica del tempo disegna uno schema rassicurante per l’individuo angosciato dal flusso del divenire: la storia è un tempo fornito di senso visto che il futuro coincide con la salvezza e non con il nulla della fine. La natura, invece, ci insegna un tempo che non si nutre di illusioni in un futuro pieno di speranze, ma un tempo che vive della sua ciclicità: la montagna è lì da sempre, il sole scompare e sorge ogni giorno, un albero muore e ne ricresce un altro. E’ un tempo che non ha una finalità (= futuro) ma semplicemente una fine; anzi con la sua fine raggiunge il suo fine. Nel tempo ciclico non c’è futuro che non sia la pura e semplice ripresa del passato che il presente ribadisce. Non c’è nulla da attendere se non ciò che deve ritornare. E’ un tempo che ci cura dalla temporalità ponendoci nell’orizzonte dell’eternità  (ciclicità) come ci ricordano le parole del dialogo tra Zarathustra e il nano riportate da Nietzsche: “Guarda questa porta, nano! Ha due facce. Qui si incontrano due strade: nessuno le ha percorse mai fino alla fine. Questo lungo sentiero indietro dura un'eternità. E quel lungo sentiero in avanti è un'altra eternità. Si contraddicono, queste strade; battono la testa l'una contro l'altra: ed è appunto qui, a questa porta che si incontrano. Il nome della porta sta scritto in alto: Attimo. Ma chi andasse avanti per una di queste strade e sempre avanti e sempre più lontano -, credi tu, o nano, che queste strade si contraddirebbero eternamente? 'Tutto ciò che è diritto mente' mormorò sprezzante il nano. 'Ogni verità è curva; il tempo stesso è un cerchio.' 'Tu, spirito di gravità!' dissi adirato. 'Non prendere la cosa troppo alla leggera! O altrimenti ti lascio rannicchiato lì dove sei, a gamba zoppa, io che ti ho portato in alto!' 'Vedi' continuai 'questo attimo! Da questa porta-attimo corre un lungo, eterno sentiero all'indietro: dietro di noi sta un'eternità. Non deve forse tutto ciò che può correre esser già passato una volta per questo sentiero? Non deve forse tutto ciò che può accadere, essere già accaduto una volta, compiuto, trascorso? E se tutto è già stato: che cosa pensi tu, nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta già essere stato? E non sono tutte le cose concatenate in tal modo che questo attimo trascina con sé tutte le cose venture? Quindi, anche se stesso? Poiché tutto ciò che può camminare, anche per questo lungo sentiero che va avanti, deve una volta passare! E questo lento ragno che striscia nel chiarore della luna, e quello stesso chiarore, e io e tu sotto la porta, bisbigliando insieme, bisbigliando di cose eterne, non dobbiamo già essere stati una volta? e ritornare e passare per l'altro sentiero, davanti a noi, per questo lungo orribile sentiero, non dobbiamo ritornare eternamente?”. (camminare - 8  precedente  seguente)

 
 
 

la fede filosofica

Post n°83 pubblicato il 02 Gennaio 2012 da m_de_pasquale
 
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Si ritiene che la forma più certa di conoscenza che possiamo mettere in atto sia quella oggettiva che risolve la realtà nella relazione soggetto/oggetto (conoscenza scientifica), dove il soggetto non è il singolo ma una sorta d’intersoggettività intellettuale (e pertanto la conoscenza è valida universalmente) e l’oggetto è la realtà risolta nella sua datità (un oggetto definibile, controllabile). Ma quanto questo sapere razionale è in grado di comprendere l’e-sistenza? Quanto i suoi strumenti sono adatti a trattare la singolarità e la soggettività di una Esistenza, il nascondimento dell’Essere, l’inoggettivabilità della Trascendenza? Jaspers sostiene che occorrerebbe una sorta di “alogica razionale”, una fede: “Nel filosofare l’uomo trapassa la sua condizione naturale in forza della propria essenza. Ciò che nella rottura gli si rivela come essere e come se stesso è la sua fede”. Insomma se la filosofia intende oltrepassare i significati costruiti dal sapere scientifico, ha bisogno di una fede grazie alla quale il dato non è semplicemente assunto come un oggetto da analizzare, definire, controllare, ma come qualcosa che rinvia ad un’ulteriorità. E’ ciò che Jaspers definisce fede filosofica [filo-sofica perché ama (phìlei), si protende verso la sapienza (sophìa), ma non la possiede] che realizza l’autentica essenza dell’uomo: essa è ricerca che non trova compimento perché non solidifica l’oggetto isolandolo nell’immanenza o separandolo nella trascendenza, ma mantiene quella polarità per cui il suo spazio è quello della trascendenza immanente. Se questo è il suo orizzonte, la fede filosofica è l’unica in grado di dischiudere il senso delle cifre, ovvero quelle tracce lasciate dalla trascendenza nella nostra esperienza, l’annuncio dell’ulteriorità presente nelle situazioni-limite di cui si parlava precedentemente. Cifre che risulterebbero incomprensibili per il sapere della scienza che ha necessità di oggettivare e quindi isolare nello spazio dell’immanenza. Proprio perché sfugge ad ogni definizione che pretende di chiarire ed esaurire tutti i sensi della realtà, la fede filosofica è problematica. Ma è anche rischiosa perché non cedendo alla sicurezza della solidificazione delle cifre, rimane aperta ad ogni prospettiva e quindi anche all’insuccesso. La consapevolezza della problematicità della cifra e del rischio sono gli elementi che consentono di distinguere la fede filosofica da quella religiosa. Ambedue credono che la verità non è compiutamente svelata nell’immanenza; ma, mentre la fede filosofica – che opera nella polarità della trascendenza immanente - è consapevole della debolezza della sua verità perché non ha il carattere di universalità che potrebbe avere solo una verità scientifica, la fede religiosa – che separa immanenza dalla trascendenza - pretende di trattare con le logiche del sapere scientifico, finalizzate alla definizione di verità universali, contenuti ricadenti nel lontano orizzonte della trascendenza. Come è possibile riconoscere un carattere di necessarietà  - e quindi di validità universale – a contenuti che esulano dalla nostra esperienza perché ritenuti espressione di una trascendenza assoluta (= sciolta da ogni immanenza)? L’unica possibilità è quella di una fede che si opponga alla ragione qual è appunto la fede religiosa le cui verità pretendono di avere un carattere di certezza assoluta da escludere ogni altra posizione. Si potrebbe dire che la fede religiosa, conferendo alla trascendenza un’autorità assoluta nel mondo, sostituisce alla volontà di verità la volontà di potenza? La stessa volontà di potenza che troviamo all’origine del sapere scientifico e che trova le sue manifestazioni nel “dominio” della scienza e nel “potere” della tecnica. Insomma scienza e fede religiosa che avevamo pensate come contrapposte, in realtà hanno una medesima origine: la volontà di potenza! I segni di questa prepotenza sono individuabili anche in quelle che Jaspers chiama “deviazioni” subite dai caratteri fondamentali della religione biblica: il Dio uno che uccide il molteplice; il Dio trascendente che è separato dal mondo; il Dio persona che favorisce l’egocentrismo dell’anima che lo prega; i comandamenti di Dio che da semplici fondamenti etici acquisiscono rilevanza giuridica tali da regolare ogni aspetto della vita umana; la concezione masochista o sadica del dolore pensandolo come sacrificio a Dio. La volontà di potenza assolutizza il creduto e fa del credente un militante disposto a qualsiasi forma di lotta per difendere quella fede che impropriamente ha scambiato per verità. Confessa Jaspers: “E’ una sofferenza della mia vita, che si affatica nella ricerca della verità, il constatare che la discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi, perché essi tacciono, enunciano qualche proposizione incomprensibile, parlano d’altro, affermano qualcosa d’incondizionato, discorrono amichevolmente senza avere realmente presente ciò che prima s’era detto, e alla fine non mostrano alcun autentico interesse per la discussione. Da una parte, infatti, si sentono sicuri, terribilmente sicuri nella loro verità, dall’altra parte pare loro che non valga la pena prendersi cura di noi, uomini duri di cuore. Ma un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione, e soprattutto esige che ogni proposizione fideistica, in quanto enunciata nel linguaggio umano,  in quanto rivolta a oggetti appartenenti al mondo, possa essere messa di nuovo in questione, non solo esteriormente e a parole, ma dal profondo di noi stessi. Chi si trova nel possesso definitivo della verità non può più parlare veramente con un altro, perché interrompe la comunicazione autentica a favore del proprio contenuto di fede”. La fede filosofica, invece, consapevole che le sue verità sono singolari e non universali, e pertanto includenti e non escludenti, preferisce il dialogo e non la lotta perché all’assolutizzazione della propria posizione preferisce la comunicazione: “La fede filosofica è inseparabile dalla disponibilità incondizionata alla comunicazione, perché la verità autentica nasce dall’incontro delle fedi nella presenza dell’Umgreifende. Di qui l’affermazione: solo i credenti possono realizzare la comunicazione. Di contro, la non-verità nasce dalla fissazione dei contenuti della fede che si respingono l’un l’altro, donde l’affermazione: non si può parlare coi militanti di una fede determinata. Per la fede filosofica tutto ciò che costringe a interrompere la comunicazione o tenta di farlo è diabolico”.  (sacro - 9  precedente  seguente)

 
 
 

ek-sistenza

Post n°82 pubblicato il 21 Dicembre 2011 da m_de_pasquale
 
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Heidegger individua nella trascendenza il modo di esser proprio dell’uomo, “è qualcosa di appartenente all’Esserci dell’uomo non come suo comportamento possibile fra altri, ma come la costituzione fondamentale di questo ente, precedente ogni altro comportamento possibile”. La trascendenza è la tensione aperta tra l’Esserci (=l’ente-uomo la cui esistenza è individuata spazio-temporalmente) e l’Essere, badando bene ad intendere quest’ultimo non come un “oggetto” alla stregua degli altri enti, altrimenti la tensione scadrebbe nel possesso, nell’oggettivazione, nel controllo. E’ vero che il nostro desiderio di conoscenza si placa solo se ha di fronte un oggetto (= sapere oggettivabile) che è possibile guardare, analizzare, definire, controllare: ma è ancora l’Essere ciò che definiamo e controlliamo? Heidegger denuncia l’incomprensione e quindi l’oblio dell’Essere da parte della metafisica occidentale proprio perché l’Essere è stato trattato come un ente con la possibilità di oggettivarlo e controllarlo. Probabilmente serve un sapere inoggettivabile (una fede?) per potersi aprire a “ciò che fa essere gli enti” ovvero alla condizione del loro esserci. Una riduzione dell’intervento umano per lasciare spazio allo svelamento (aletheia) dell’Essere, per poter cogliere questa presenza che in ogni ente si annuncia sottraendosi. Jaspers, affascinato dal Tutto avvolgente di Anassimandro, lo definisce Umgreifende che significa “ciò che, afferrando, circoscrive gli enti”. La trascendenza, pertanto, in quanto apertura all’Essere rappresenta il carattere costitutivo dell’Esistenza (= il modo d’essere dell’Esserci): l’uomo non è un ente tra gli enti, ma è colui che può sollevarsi dalla datità per emergere dall’orizzonte dell’oggettività empirica ed aprirsi alla comprensione dell’Essere. Un’apertura sperimentabile in quelle che Jaspers definisce situazioni-limite, “situazioni come quella di dover essere sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore, di dover assumere inevitabilmente la propria colpa, di dover morire … sono situazioni che sfuggono alla nostra comprensione, così come sfugge al nostro esserci ciò che sta al di là di esse; sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo”. Nell’esperienza del limite le cose del mondo divengono scrittura cifrata, equivoco perché pur essendo nell’immanenza rimandano alla trascendenza. Oltre che dalla comprensione dell’Essere, l’Esistenza è qualificata dalla possibilità nel senso che l’essenza del nostro esserci non è data una volta per sempre, non è una realtà fissa e predeterminata, ma si costruisce nel riferimento a qualcosa che è al di fuori e al di sopra dell’esserci empirico; essa coincide con l’Esistenza (= ek-sistenza: star fuori) e si annuncia: “a) nell’insufficienza che l’uomo sperimenta in se stesso, quando avverte che c’è sempre in lui qualcosa di incommensurabile per il suo esserci, il suo sapere e il suo mondo spirituale; b) nell’incondizionatezza del suo autentico esser-se-stesso a cui l’uomo sottomette il suo esserci, e da cui sente derivare ciò che per lui è significativo e valido; c) nello slancio verso l’unità di cui l’uomo non può fare a meno perché non si accontenta di un solo modo dell’Umgreifende, e nemmeno di tutti i modi riuniti, ma tende all’unità del fondamento, unità che si identifica con l’essere e l’eternità; d) nella coscienza di una incomprensibile reminiscenza, simile a una coscienza partecipata con la creazione o al ricordo di una visione anteriore alla sua presenza nel mondo; e) nella coscienza dell’immortalità, che non è una continuazione della vita in un’altra forma, ma un rifugio nell’eternità che sopprime il tempo, e che all’uomo appare come il cammino inevitabile dell’azione efficace nel mondo” (Jaspers). E’ chiaro, quindi, che se noi sentiamo di essere più di quello che riusciamo a realizzare, abbiamo la necessità di andare oltre, di progettare, di trascendere: la trascendenza ci è connaturata. Perciò Jaspers alle domande: “c’è qualche motivo che giustifichi questo trascendere? Non siamo soddisfatti nel mondo degli oggetti? Tutto ciò di cui noi abbiamo bisogno, tutto ciò a cui noi riconosciamo un essere, non è lì davanti a noi oggettivamente, e questo mondo non è tutto?”, può rispondere: “il trascendere nasce nell’inquietudine che si prova davanti alla fugacità di tutto l’esserci, e che senza il trascendere sarebbe ineliminabile”. (sacro - 8  precedente  seguente)

 
 
 

paura del bosco

Post n°81 pubblicato il 13 Dicembre 2011 da m_de_pasquale
 
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percorso: c. Pezzente (41°46'24.92" N, 15°50'6.54" E) - coppa del Monaco - bosco Spigno - caserma delle guardie - c. Pezzente [12 km]

Tradizionalmente il bosco, per la sua natura caotica e selvaggia, è sempre stato associato ad una esperienza inquietante e minacciosa. Se fatta nella stagione fredda, in una mattinata nebbiosa che a fatica fa penetrare i raggi del sole, nel sonno silenzioso della natura invernale dove si amplifica anche il più piccolo rumore, la camminata solitaria nel bosco può riservare sensazioni uniche capaci di farci accedere alla parte più antica e remota della nostra psiche. Quella parte in cui si producono le emozioni fondamentali che hanno salvato la vita dei nostri antenati, perché le emozioni costituiscono i meccanismi di risposta necessari per far fronte in tempo reale alle emergenze della vita. Nel silenzio ovattato del bosco anche la foglia che cade, facendoci percepire un rumore insolito, potrebbe spaventarci; un gruppo di uccelli nascosti tra gli arbusti che all’avvicinarsi dell’uomo si levano compatti in volo, producono un intenso fruscio, un rumore non familiare, tale da spaventarci se non ne conosciamo l’origine. Dallo spavento si può passare alla paura quando si incrociano animali che ti puntano minacciosi. Ma cosa accade nella mente quando ci spaventiamo, quando percepiamo sensorialmento un segnale di pericolo? Come si produce quello stato di apprensione? Come si genera la paura? I neuroscienziati ipotizzano che la sequenza complessa che dalla sorpresa procede verso l’incertezza, per giungere all’apprensione ed infine alla paura, avvenga in un secondo circa. Nel processo evolutivo la paura ha rivestito un’importanza particolare perché più di ogni altra emozione ha avuto rilievo per la sopravvivenza. Quando abbiamo una percezione sensoriale insolita (uditiva, visiva, olfattiva, …), il segnale viene inviato al talamo (centro di raccolta di tutti gli impulsi esterni e interni) dove è tradotto nel linguaggio del cervello. Gran parte del messaggio viene poi smistato alla corteccia cerebrale che lo analizza e lo valuta per comprenderne il significato e produrre una risposta appropriata. Una porzione più piccola del segnale originale va, invece, direttamente dal talamo all’amigdala (una struttura a forma di mandorla posta sopra il tronco cerebrale vicino alla parte inferiore del sistema limbico) percorrendo una via di trasmissione più breve e consentendo così una risposta più veloce. L’amigdala è una sorta di sentinella delle emozioni, l’archivio della memoria emozionale che custodisce, quindi, le strategie di risposta messe in atto dall’uomo quando si è trovato nelle condizioni di affrontare le emergenze della vita. E’ quella parte del cervello derivante dalla struttura più primitiva, quella che regola le funzioni vegetative fondamentali, che abbiamo in comune con gli animali. Si colloca qui, davvero, la possibilità di accedere alla parte più nascosta della nostra psiche dominata dalla logica associativa (vedi le associazioni libere operanti nel mondo onirico), senza tempo (non c’è distinzione tra passato e presente, ma confusione), senza senso della realtà (non si colgono le sfumature, tutto è semplificato): è la mente emozionale impulsiva, potente, illogica. L’amigdala può, quindi, innescare una risposta emotiva ancor prima che i centri corticali abbiano del tutto compreso ciò che sta succedendo, coordinando una reazione di vasta portata: il sangue fluisce verso i grandi muscoli scheletrici (le gambe) rendendo così più facile la fuga e al tempo stesso facendo impallidire il volto, momentaneamente meno irrorato (quando si ha paura sembra che “il sangue si geli”); il corpo si immobilizza, come congelato, anche solo per un momento, forse per valutare se non convenga nascondersi; i circuiti dei centri cerebrali preposti alla regolazione della vita emotiva scatenano un flusso di ormoni che mette l’organismo in uno stato generale di allerta, preparandolo all’azione e fissando l’attenzione sulla minaccia che incombe per valutare quale sia la risposta migliore. E’ evidente che quando la risposta immediata ma anche semplificata ed approssimativa di questo circuito viene a coordinarsi con quella più elaborata del circuito che interessa la corteccia cerebrale, il nostro organismo capisce che una reazione del genere è spropositato ad esempio per un gruppo di uccelli che si alza in volo o per alcuni maiali selvatici incontrati sul cammino. Però è importante essere consapevoli che la prima reazione di fronte ad un segnale di pericolo è gestita dalla parte più antica della nostra psiche (la mente emozionale) e che solo successivamente – ragioniamo sempre di tempi equivalenti a frazioni di secondo – intervenga la mente razionale, che, appunto, si è evoluta da quella emozionale. Infatti dalla struttura molto primitiva del tronco cerebrale, sede dei centri emozionali, si sono evolute le aree del cervello pensante, la neocorteccia. Ci fa bene ricordare che prima che esistesse un cervello razionale esisteva già quello emozionale. E’ vero che le inclinazioni biologiche ad un certo tipo d’azione sono comandate dalla mente emozionale, ma è anche vero che queste sono state ulteriormente plasmate e perfezionate dal cervello pensante che ha affinato e reso più complessa la vita emozionale con l’esperienza personale, la cultura. Se la reazione grezza ed approssimativa, anche se più veloce, gestita dalla mente emozionale, di fronte alle emergenze della vita deve interagire con la mente razionale, questa ultima non deve dimenticare la sua provenienza e quindi le emozioni primordiali che la animano fosse anche per un periodico rimmergersi nelle sue origini al fine di vivificare il suo rapporto col mondo. Insomma per quanto la nostra mente razionale si proponga giustamente di governare le emozioni (intelligenza delle emozioni), essa non può dimenticare che è profondamente influenzata dai fantasmi della sua parte emozionale (mente emozionale).  (camminare - 7  precedente  seguente)

 
 
 

il sacro dell'eros

Post n°80 pubblicato il 02 Dicembre 2011 da m_de_pasquale
 
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Abbiamo individuato nella tensione – intesa come apertura alla dimensione simbolica che consente all’uomo di vivere la natura come una ierofania - l’essenza della capacità di trascendenza. Se la tensione è anche l’essenza dell’amore, l’amore è trascendenza ovvero possibilità dell’esperienza del sacro. Platone ci spiega queste cose nel Simposio quando racconta il mito della nascita di Eros. Nel giorno della nascita di Afrodite, gli dèi celebrano l’evento con un banchetto a cui partecipa anche Poros (= astuzia, espediente). Penìa (= povertà), venuta a mendicare qualcosa, avendo visto Poros ubriaco ed addormentato nel giardino di Zeus, si sdraia al suo fianco con l’intento di avere un figlio. Rimane  incinta e partorisce un figlio, Eros, che eredita dalla madre il carattere di costante bisogno perché la povertà alimenta il desiderio, e dal padre l’astuzia e cioè la capacità di riuscire ad ottenere ciò che desidera. Platone coglie bene la natura di costante tensione ma anche di lacerazione che caratterizza l’esperienza d’amore: quando l’oggetto del desiderio non è ancora posseduto si soffre per la sua mancanza, ma quando lo si è raggiunto la tensione non si placa completamente, come se esistesse un’eccedenza tra desiderio e realizzazione. Insomma sembra che l’amore sia caratterizzato da una contraddizione: se da una parte desidera l’oggetto d’amore e soffre finchè non lo raggiunge, e poi, una volta raggiunto, ricorda con nostalgia la condizione precedente in cui desiderava, vuol dire che l’essenziale nell’amore non è tanto il raggiungimento dell’oggetto, quanto quello di vivere costantemente uno stato di tensione. Tensione finalizzata a che cosa? Quale potrebbe essere il vero oggetto del suo desiderio? Verso cosa rinvia la sua capacità di trascendenza? Anche Freud coglie la contraddizione dell’amore quando afferma che “dove amiamo non proviamo desiderio, e dove lo proviamo non possiamo amare”. Sembra quasi che la tensione non debba mai concludersi con un possesso perché la forza dell’amore è nel desiderio costante. Dice Stendhal che il desiderio deve rimanere sempre desto grazie al dubbio e all’incertezza così da alimentare la scintilla della passione che la certezza, invece, uccide. Nella passione perdiamo il controllo, subiamo l’attrazione – che è una tensione - verso l’amato (forse sarebbe meglio dire verso la nostra idealizzazione dell’amato), un’attrazione che dura finché si nutre del “non ancora” divenendo, come direbbe Levinas,godimento del trascendente … perché l’amore è una relazione con ciò che si sottrae per sempre e che è impossibile tradurre in termini di potere”. Quando l’amore si risolve nel possesso, come accade nell’esperienza del piacere sessuale, la passione svanisce perché il possesso interrompe la tensione e non rinvia più alla trascendenza. Insomma siamo attratti da ciò che non vediamo; direbbe Baudrillard che “l’assenza seduce la presenza”. Non ci attrae ciò che è chiaro, ma ciò che intravediamo perché solo così si mantiene quella tensione che altrimenti verrebbe dissolta. Sempre Platone nel Simposio, probabilmente, potrebbe fornirci delle indicazioni interessanti per rispondere alla domanda riguardante il vero oggetto della tensione che caratterizza l’amore. Dopo aver raccontato della decisione di Zeus di dividere a metà i primi uomini, parlando dell’attrazione provata da questi esseri nel momento in cui incontrano l’altra metà di se stessi, scrive: “E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa si aspettano l’uno dall’altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell’amore: non possiamo immaginare che l’attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità … c’è qualcos’altro: evidentemente la loro anima cerca nell’altro qualcosa che non sa esprimere e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio”. Non il desiderio dell’unione dei corpi, ma qualcos’altro costituisce il vero oggetto di desiderio dell’amore: la tensione verso quella parte di sé sconosciuta che egli definisce “fondo enigmatico e buio”. Potremmo pensare che ciò che noi siamo abituati a far coincidere con l’amore, vale a dire il rapporto simbiotico tra due amanti, costituisca non il fine ma il tramite, la via per giungere ad incontrare il fondo enigmatico e buio? La sessualità quando coincide con l’esperienza del cedimento dell’Io – l’Io che perde il suo potere di controllo e pertanto muore (Bataille ci ricorda che in francese orgasmo si dice petite morte) – non apre forse sul vuoto facendo sì che questa assenza attragga più della presenza dell’amante? E se il vuoto attrae più del pieno, si può ben dire che l’amore è trascendenza. L’attrazione del vuoto è il richiamo esercitato dalla parte ignota di noi. Affacciarsi sulla parte ignota di noi significa immergersi nella follia che abita il fondo enigmatico e buio. Follia intesa come quella condizione che precede ogni distinzione, dove convivono tutti i sensi possibili, regno del caos, del disordine, della confusione. E’ un rivivere la dinamica di morte e resurrezione che abbiamo visto operante nei cicli della natura: l’Io muore / si immerge nella follia da cui proviene / rinasce in nuove configurazioni. Una periodica immersione nella follia - nel sacro – che si rivela importante per la nostra salute se Platone può affermare che “i beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino. La follia del dio proveniente è assai più bella della saggezza di origine umana”. (sacro - 6  precedente  seguente)

 
 
 

il sacro della natura

Post n°79 pubblicato il 25 Novembre 2011 da m_de_pasquale
 
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Otto individua una serie di fenomeni che rubrica nella fase ingenua dell’evoluzione umana e che considera come “l’atrio della religione”: “Essi sono la credenza nei morti e il loro culto, la credenza e il culto degli spiriti, la magia, le saghe e i miti, la venerazione dei fenomeni naturali, terribili o mirabili, nocivi o vantaggiosi, la strana idea del potere, il feticismo e il totemismo, il culto delle piante e degli animali, il demonismo”. Tralasciando il suo giudizio di valore su dette manifestazioni, per noi è interessante approfondire l’esperienza religiosa della natura nelle società premoderne perché, trattandosi di uno sguardo originario libero da ogni sovrastruttura successiva, ci permette di cogliere nella sua essenzialità quella che abbiamo definito funzione trascendente dell’uomo che si manifesta nella possibilità di andare oltre ed al di là dei significati imposti dalla ragione, cogliendo la dimensione simbolica capace di vivere la natura come una ierofania (= manifestazione del sacro). Grazie ai simboli – sostiene Eliade – l’uomo esce dalla sua situazione particolare per aprirsi al generale ed universale: “Di fronte a un albero qualunque, simbolo dell’Albero del Mondo e immagine della Vita cosmica, un uomo delle società premoderne è capace di raggiungere la più alta spiritualità: comprende il simbolo, è in grado di vivere l’universale”. Gli elementi fisici osservati dall’uomo religioso - per il quale non è ancora prevalente lo sguardo scientifico - acquisiscono una dimensione simbolica, rinviano, cioè, ad un “significato” che non coincide con quello ordinario assegnato all’elemento. Questo significato potremmo interpretarlo come la risposta che l’uomo costruisce  per soddisfare la domanda generata dalla sua capacità di trascendenza. Se si passano in rassegna i più ricorrenti significati che l’uomo religioso ha attribuito agli elementi della natura, potremmo sperare di capirci qualcosa di più sulla domanda, ovvero su quei bisogni originati dal fondo oscuro che ci abita e che abbiamo identificato col sacro: il tutto che appaghi il desiderio di superamento della sua condizione di precarietà; i significati in cui possano riflettersi le esperienze e le dinamiche fondamentali della vita. L’infinita altezza del cielo rinvia alla sacralità dello stesso: “La contemplazione della volta celeste, da sola, suscita nella coscienza primitiva un’esperienza religiosa ... questa contemplazione equivale, per lui, a una rivelazione. Il Cielo si rivela quel che è in realtà: infinito, trascendente. La volta celeste è per eccellenza cosa del tutto diversa dalla pochezza dell’uomo e del suo spazio vitale … L’alto è una categoria inaccessibile all’uomo in quanto tale; appartiene di diritto alle forze e agli esseri sovrumani” (Eliade). Nell’infinita distanza del cielo, nei suoi spazi immensi non si rispecchia forse e riesce a trovar pace l’ignota profondità del mio essere? Nel simbolismo dell’altezza, dell’ascensione, del centro, si colloca la forza ierofanica della montagna che “è più vicina al cielo, e questo le conferisce una doppia sacralità: da un lato partecipa al simbolismo spaziale della trascendenza (alto, verticale, supremo, ecc.), e d’altra parte il monte è per eccellenza il dominio delle ierofanie atmosferiche … il monte, in quanto punto d’incontro fra cielo e terra, si trova al centro del mondo ed è sicuramente il punto più alto della terra” (Eliade). Se il centro è l’origine – ombelico della terra, punto d’irradiazione dell’energia della vita – da cui sono nate le differenze che per loro natura sono parziali e quindi hanno bisogno di completamento, potremmo interpretare il fascino del suo richiamo come una nostalgia delle origini? Se l’altitudine ha una virtù consacrante, il simbolismo dell’ascensione non è forse espressivo della capacità trascendente dell’uomo come possibilità di sporgersi su quel fondo ignoto e misterioso della sua interiorità? “Ogni ascensione è una rottura di livello, un passaggio nell’oltretomba, un superamento dello spazio profano … Trascendere la condizione umana, in quanto si penetra in una zona sacra” (Eliade). Il Sole incarna il simbolismo del viaggio nell’oscurità che si conclude sempre con un ritorno; il tramonto è percepito non come la sua morte, ma come discesa dell’astro nelle regioni inferiori. Diversamente dalla Luna, il Sole ha il privilegio di attraversare l’inferno senza subire la modalità della morte: “Scendendo ogni notte nel regno dei morti, il Sole può condurre gli uomini con sé e, tramontando, farli morire; d’altra parte, può contemporaneamente guidare le anime attraverso le regioni infernali e ricondurle alla luce l’indomani, col giorno” (Eliade). Insomma è come se il Sole - per la sua forza e immutabilità attestata dal fatto che non viene scalfito dalla morte -  rappresentasse quella sicurezza, a cui aspiriamo, di ritornare indenni dal nostro viaggio nell’ignoto. La Luna invece cresce, cala e sparisce “la sua vita è soggetta alla legge universale del divenire, della nascita e della morte. Precisamente come l’uomo, la luna ha una storia patetica, perché la sua decrepitezza, come quella dell’uomo, termina con la morte. Ma questa morte è seguita da una rinascita: la luna nuova … La Luna rivela all’uomo la propria condizione umana: l’uomo guarda sé stesso e si ritrova nella vita della Luna” (Eliade). Diventando uno dei simboli più potenti della legge del divenire, la forza ierofanica della Luna si incarica di rispondere agli interrogativi che la ciclicità, la polarità, il conflitto e la conciliazione dei contrari pongono all’uomo. Infatti in buona parte dei temi collegati alla Luna quali  la fecondità (ad es. il  collegamento tra le fasi lunari e il ciclo mestruale), la rigenerazione periodica (vedi il simbolismo del serpente, animale lunare, perchè si rigenera cambiando pelle), il tempo e il destino (la luna che tesse i destini), il cambiamento segnato dall’opposizione luce-oscurità (luna nuova/luna piena), l’idea dominante è quella del ritmo ottenuto mediante la successione dei contrari. Le acque simboleggiano la sostanza primordiale, fonte di vita, da cui nascono tutte le forme e alle quali tornano, esse precedono ogni forma e sostengono ogni creazione: l’immersione nell’acqua simboleggia la regressione nel preformale, la dissoluzione delle forme; l’uscita dalle acque ripete il gesto cosmogonico della manifestazione formale. Il contatto con l’acqua, quindi, implica sempre una rigenerazione, una nuova nascita. La capacità purificatrice dell’acqua che abolendo ogni storia fa morire il passato restaurando l’integrità aurorale non soddisfa forse l’antico desiderio di tornare bambini “senza peccati e senza storia”? Per l’uomo premoderno la durezza, la ruvidità, la persistenza della roccia costituiva una ierofania: “Non vi è nulla di più immediato e di più autonomo nella pienezza della sua forza, e non vi è nulla di più nobile e di più terrificante della roccia maestosa, del blocco di granito audacemente eretto. Il sasso anzitutto è. Rimane sempre se stesso e perdura; cosa più importante di tutte, colpisce … La roccia gli rivela qualche cosa che trascende la precarietà della sua condizione umana: un modo di essere assoluto” (Eliade). La vegetazione ed in particolare gli alberi che ricoprono la terra sono carichi di forze sacre “perché sono verticali, crescono, perdono le foglie e le recuperano, e di conseguenza si rigenerano (muore e risuscita) innumerevoli volte”. Esprimendo la ciclicità morte/resurrezione – la legge fondamentale della Natura - l’albero è simbolo dell’Universo, il Cosmo di cui l’uomo vuole sentirsi parte integrante per partecipare alla continuità della sua vita. Una profonda unità con la Terra contenuta nelle parole di Smohalla, un capo Sioux, che alla fine dell’800 per giustificare il suo rifiuto di lavorare la terra diceva: “Mi chiedete di lavorare il terreno? Potrei forse prendere un coltello per conficcarlo nel seno di mia madre? Se lo facessi, quando sarò morto ella non mi accoglierebbe più nel suo seno. Volete che vanghi e scavi le pietre? Potrei forse scavare nelle sue carni fino alle sue ossa? Non potrei più, allora, rientrare nel suo corpo per rinascere a nuova vita. Volete che tagli l’erba e il fieno per venderlo, al fine di arricchirmi come fanno i bianchi? Ma potrei forse tagliare i capelli di mia madre?”. Questo breve viaggio nel modo in cui l’uomo premoderno percepiva la Natura ci ha dato l’opportunità di conoscere con maggiore chiarezza quella “dimensione in più” di cui è dotato il cosiddetto primitivo, dimensione che abbiamo definito trascendenza: “Si potrebbe chiamarla un’esistenza aperta, non essendo particolarmente limitata al modo d’essere dell’uomo … l’esistenza dell’homo religiosus, soprattutto del primitivo, è aperta al Mondo; l’uomo religioso, vivendo, non è mai solo, poiché una parte del Mondo vive in lui … L’apertura verso il Mondo mette in grado l’uomo religioso di conoscersi conoscendo il Mondo, conoscenza preziosa in quanto religiosa, in quanto riferita all’Essere” (Eliade). (sacro - 5  precedente  seguente)

 
 
 

economia della cura

Post n°78 pubblicato il 18 Novembre 2011 da m_de_pasquale
 
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percorso: C.Papaglione (41° 44' 15.84" N, 15°40'45.30"E) – coppa Arena - grotta Montenero – c.Papaglione [8 km]

Il passaggio dell’homo consumans e quindi produttore di rifiuti è possibile osservarlo in questo percorso che si snoda tra boschi bellissimi di cerro, dove, anche in posti difficilmente raggiungibili, si possono vedere copertoni d’auto, batterie esauste, elettrodomestici arrugginiti, ferraglie varie. Involuzione del rapporto dell’uomo con la natura fino a considerarla pattumiera delle sue produzioni rese obsolete per consentirne altre: è la perversa legge della produzione asservita al profitto. La produzione (= poìesis), nata per soddisfare il bisogno dell’uomo, diventando lo strumento di alimento del profitto, non vigila più sul modo di produrre perché il suo intento è tutto orientato alla moltiplicazione del denaro. Sostiene Paul Connett che in una civiltà lineare nelle fasi di estrazione delle materie prime e di produzione degli oggetti si producono rifiuti solidi 70 volte superiori a quelli prodotti nella successiva fase di consumo individuale. Lamenta, in altri termini, una grave responsabilità industriale che spesso è carente di un progetto di produzione sostenibile (uso di elementi tossici, abuso di imballaggi, …). Ma non solo l’industria produttrice è responsabile, anche la comunità non fa la sua parte perché non separa i rifiuti dopo il consumo rendendo possibile il recupero della parte compostabile ed il riciclo di quanto è ancora utilizzabile. Il risultato è che siamo inondati da rifiuti anche in posti bellissimi come quelli che si incontrano in questo percorso. Il profitto che non ha misura snatura l’attività dell’uomo. Non è stravolto il lavoro quando esso è finalizzato alla produzione di beni più che superflui utili solo ad alimentare una economia drogata dove non si produce più per consumare, ma al contrario si deve consumare per poter produrre sempre più? Con una pubblicità sempre più martellante che deve alimentare bisogni inutili – dato che abbiamo soddisfatto ciò di cui avevamo bisogno - per poter piazzare merci inutili perché non può fermarsi la macchina della produzione-profitto? E il proliferare dei cosiddetti “servizi” che costituiscono la voce più importante delle nostre economie non costituisce una anomalia? Perché una merce per arrivare al consumatore deve passare per tante mani? Per aggiungere valore alla merce o per produrre valore (= denaro) per tutte queste mani? Profitto non più proveniente dalla produzione di un bene ma dal semplice passaggio di mano in mano! Non è forse la stessa logica perversa della rendita finanziaria: il denaro produce “interesse” solo passando di mano in mano? Il camminatore per la condizione che vive – per un verso è parte integrante di un mondo fatto di consumi inutili e produzioni superflue, governato dalla santa legge del profitto, regolato dal mito della velocità, schiavo del potere della tecnica, dall’altro può godere di esperienze inusuali perché il cammino gli ha insegnato il gusto della lentezza, la visione della natura gli ha ricordato la gratitudine per la madre Terra, la ricchezza delle sensazioni provate la sazietà che non gli fa desiderare cose inutili – ha la possibilità di rivolgere uno sguardo non omologato sul mondo. Può intuire che il fulcro dell’economia non è il denaro e la sua crescita illimitata (il culto del PIL), ma sono le relazioni. In effetti all’origine il denaro svolgeva la mera funzione di strumento di scambio delle merci necessarie a soddisfare bisogni; oggi esso si è sciolto da questa funzione, assolutizzandosi ha acquisito una centralità tale in economia da far dimenticare che la stessa parola rimanda ad un ordine frutto dell’equilibrio delle relazioni in una famiglia (= oikonomia). In quest’ottica diventa necessario ridurre  progressivamente il peso dell’economia mercantile facilmente ammaliabile dall’interesse e dal profitto, a vantaggio di una economia delle relazioni che soddisfi i veri e necessari bisogni che gli individui hanno per essere felici. Una economia non più asservita al mito della crescita e dell’efficienza, ma rivolta al servizio e alla manutenzione, dove alla logica dello scambio va preferita la logica della reciprocità che rafforza la solidarietà tra gli individui. In questo contesto il lavoro è pensato come cura del mondo, un significato che ci rimanda all’idea della nostra Costituzione dove nei primi tre articoli si definisce il lavoro come attività tesa a tutelare i diritti inviolabili, rafforzare la solidarietà, eliminare gli ostacoli all’uguaglianza. Un lavoro così inteso non rafforzerebbe la felicità, la sicurezza e la ricchezza di una società? Se, ad esempio, centinaia di migliaia di cittadini italiani oggi disoccupati fossero impiegati in un grande progetto nazionale di messa in sicurezza del nostro territorio dissestato idrogeologicamente non verrebbe dato un duro colpo alla disoccupazione e non ci sarebbe un aumento della ricchezza nazionale se è vero che un euro speso in prevenzione evita di farne spendere cinque in emergenza?  (camminare - 6  precedente  seguente)

 
 
 

sentimenti del sacro

Post n°77 pubblicato il 12 Novembre 2011 da m_de_pasquale
 
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Se il sacro è l’esperienza in cui coscienza ed inconscio sono totalmente uniti, luogo dell’indifferenziato, mistero  terrificante (tremendum) ed affascinante (fascinans), la ragione deve effettivamente fare un passo indietro perché esso è “inconcepibile, inafferrabile, incomprensibile razionalmente … non può esser portato entro i confini dell’intelligenza nozionale … può esser colto solo dal sentimento” (Otto). Se non abbiamo a che fare con il Dio addomesticato dalla ragione/religione, ma con quello absconditus di Pascal, con quello della coincidentia oppositorum di Cusano, la ragione è incapace di comprendere. Dobbiamo appellarci necessariamente al cuore: “E’ il cuore che sente Dio, non la ragione” (Pascal). Con questa predisposizione è possibile seguire la riflessione di Otto sulle reazioni emotive dell’individuo quando incontra il sacro la cui essenza è il numinoso in cui si esprime il rapporto ambivalente di timore e venerazione che caratterizza l’incontro con tutto ciò che è “ineffabile in quanto è assolutamente inaccessibile alla comprensione concettuale”. Esso si esprime nell’oscurità, nel silenzio, nel vuoto perché essendo queste delle negazioni rendono possibile l’apparire del totalmente diverso. Nel numinoso il divino si manifesta come mysterium tremendum e fascinans, come il nascosto, l’assolutamente altro che terrorizza e allo stesso tempo affascina; un mistero che successivamente la religione si preoccuperà di controllare dando vita all’immagine della divinità come provvidenza, come misericordia, come amore. Quali sono le reazioni emotive dell’uomo di fronte alla percezione del sacro? Quali sono i sentimenti che maturano nell’incontro col divino? Seguendo la riflessione di Otto è possibile delineare una interessante fenomenologia dell’esperienza religiosa. Al di là della questione se il sacro sia rivelativo di una presenza divina - tesi cara al teologo Otto-, la sua analisi fenomenologica ci è utile per riconoscere gli stati d’animo prodotti dall’incontro col numinoso le cui peculiarità sono spiegabili con la straordinarietà dell’oggetto della relazione che non necessariamente deve avere il volto del Dio personale della tradizione giudaico-cristiana. Il “sentimento di essere una creatura, della creatura che naufraga nella propria nullità, che scompare al cospetto di ciò che la sovrasta” è la prima reazione che l’uomo avverte quando incontra il numinoso. E’ l’esperienza della piccolezza di fronte a ciò che è sovrastante, della dipendenza da esso che Pascal descrive in questi termini: “Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo che mi racchiudono, mi trovo confinato in un angolo di questa vasta distesa, senza sapere perché sono posto in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché questo poco di tempo che mi è stato dato da vivere mi è stato fissato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Vedo da ogni parte solo infinità che mi racchiudono come un atomo e come un’ombra che dura solo un istante senza ritorno”. L’esperienza della propria piccolezza di fronte al troppo grande produce sgomento e senso della dipendenza (è quantomeno azzardato sostenere con Otto che il sentimento creaturale è la prova dell’esistenza di un soggetto fuori dell’io). E’ la reazione di fronte all’aspetto tremendum del mistero, “il nascosto, il non manifesto, ciò che non è intuito e non è compreso, lo straordinario e l’inconsueto” di cui Otto fa questa straordinaria descrizione: “Il sentimento che ne emana può penetrarci come un flusso di armonioso, riposante, vago raccoglimento. Oppure può trapassarci l’anima con una risonanza continuamente fluente che vibra e perdura lungamente finchè svanisce per riabbandonarla al suo tono profano. Esso può anche erompere dall’anima subitamente con spasimi e convulsioni. Può trascinare alle più strane eccitazioni, alla frenesia, all’orgasmo, all’estasi. Può rivestire forme selvagge e demoniache. Può farci precipitare in un orrore spettrale e pieno di raccapriccio. Ha manifestazioni ed antecedenti primordiali crudi e barbarici, e ha la capacità di trasformarsi nel bello, nel puro, nel glorioso. Può divenire la silenziosa e tremante umiltà della creatura, al cospetto di quello che è il mistero ineffabile”. Quando il mistero è sprovvisto del momento del tremendum, esso produce reazioni emotive quali meraviglia, stupore, ammirazione, conseguenze della percezione dell’aspetto di estraneità del numinoso: “il totalmente altro, l’estraneo, ciò che riempie di stupore, quello che è al di là della sfera dell’usuale, del comprensibile, del familiare, e per questo nascosto, assolutamente fuori dell’ordinario e in contrasto con l’ordinario, e colmante quindi lo spirito di sbigottito stupore”. E’ la condizione che accompagna un elemento tipico delle religioni, il miracolo: “Quanto di sconcertante penetrava nella sfera d’azione dell’umanità, quanto nell’ordine dei fenomeni naturali e degli eventi suscitava negli uomini, negli animali e nelle piante, sorpresa, stupore o terrore paralizzante, ha sempre risvegliato e attirato prima il terrore demonico, poi il timore sacro, ed è ciò che è assurto alla qualità di portentum, di prodigium, di miraculum. Così e solo così nacque il miracolo”. Il momento raccapricciante del tremendum si intreccia in una sorta di armonia contrastante con qualcosa di attraente, di catturante, di affascinante: “A fianco all’elemento che confonde, sorge quello che ammalia, che rapisce misteriosamente, spesso crescendo in intensità fino all’ebbrezza e allo smarrimento: è l’elemento dionisiaco nell’efficacia del numen. E’ il momento fascinans del numen”. I concetti razionali che si sviluppano parallelamente a questo momento irrazionale dell’affascinante e lo traducono in schemi, sono l’amore e la misericordia, la pietà, il conforto, pensati nel loro grado massimo. In questo contesto va collocata l’esperienza della beatitudine dell’unione con Dio che fanno i mistici, i convertiti, coloro che sono stati toccati dalla grazia, l’esperienza del nirvana buddhista, tutti attestano l’esperienza di un bene trasbordante inesprimibile: “Oh, potessi io dirvi quel che sente il cuore, come esso internamente brucia e si consuma, ma io non trovo parole per dirlo. Posso semplicemente dire: se sola mente una stilla di quel che sento cadesse nell’Inferno, l’Inferno ne sarebbe d’incanto trasformato in un Paradiso”. (sacro - 4  precedente  seguente)

 
 
 

l'armonia contrastante

Post n°76 pubblicato il 05 Novembre 2011 da m_de_pasquale
 
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Per Jung quando l’Io (= la ragione) è abbastanza forte per reggere il confronto con la sua parte oscura avvia il processo d’individuazione, avvia cioè il confronto col che costituisce l’esperienza indifferenziata di tutte le possibilità, coscienza ed inconscio allo stesso tempo. Il è il corrispondente psicologico del sacro le cui figure interiorizzate sono gli archetipi: le situazioni paradigmatiche in cui viene a trovarsi l’umanità e la reazione di fronte ad esse. Poiché gli archetipi “decidono il destino dell’uomo”, è importante accedere a questo mondo per orientare il nostro futuro. Questi potenti contenuti dell’inconscio collettivo “devono essere proiettati – dice Jung – altrimenti inonderebbero la coscienza. Si tratta semplicemente di convogliarli in una forma che possa adeguatamente contenerli. In effetti esiste un’antichissima istituzione che aiuta le persone a proiettare immagini impersonali”. Questa istituzione è la religione che, con la sua capacità di tradurre le immagini archetipiche, tradizionalmente ha regolato il rapporto tra l’uomo e l’inconscio collettivo dando, perciò, la possibilità all’uomo di entrare in contatto con esso. Ma oggi “per la moderna mente illuminata questa ipostatizzazione [la proiezione operata dalla religione in figure sacre] non è più possibile. Di conseguenza l’uomo si trova di fronte alla necessità di trovare un metodo individuale  attraverso il quale le immagini impersonali possano prendere forma. Poiché devono prendere forma, devono vivere la loro vita caratteristica, altrimenti viene reciso l’indispensabile vincolo fra l’individuo e le funzioni fondamentali della psiche, e l’individuo diventa disorientato, in conflitto con sé stesso”. Pertanto quel compito di cui si è fatta carico la religione “fin dall’alba della coscienza”, oggi tocca direttamente all’uomo, appunto, attraverso il processo d’individuazione. Questo processo teso al riconoscimento e alla accettazione della parte più profonda di sé rappacifica l’individuo perché gli consente di raggiungere quell’armonia dialettica capace di rinnovare la sua esistenza, di fornirle una nuova ricerca di senso. La pace raggiunta è lo stato personale che spesso gli individui indicano per esprimere la loro esperienza di Dio, e ritengono che questa condizione possa effettivamente costituire una prova della sua esistenza. Una pace che si prospetta come quiete per la riconquistata unità: non più la lacerazione della divisione, ma l’armonia della riunione. Sembra il percorso raccontato da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito quando la coscienza risolve la sua infelicità nel rendersi conto di essere lei stessa Dio. Per Jung l’annessione alla coscienza degli strati più profondi dell’inconscio determina una dilatazione della personalità che porta alla condizione della “somiglianza con Dio”: il “piccolo Dio di questo mondo [la persona] va ricondotto alla sua origine nel Dio universale, personificazione della psiche collettiva … la dissoluzione della persona nella psiche collettiva invita direttamente l’individuo a tuffarsi in quell’oceano di divinità”. L’uomo, quindi, ha bisogno del sacro, la coscienza dell’inconscio, l’Io del Sé. Afferma Jung che Eraclito ha scoperto la più portentosa di tutte le leggi psicologiche, quella della funzione regolatrice dei contrari: i contrari si richiamano a vicenda e sono destinati a ricostituire l’unità originaria. Questo processo compensatorio che giunge alla scoperta della parte complementare è la funzione trascendente: “L’unione dei contrari è la condizione primordiale delle cose e allo stesso tempo la meta ideale, poiché rappresenta l’unione di elementi eternamente contrapposti … Troviamo la stessa idea nell’antica filosofia cinese. La condizione ideale è chiamata il Tao, la completa armonia fra il cielo e la terra … La condizione originaria di cui l’essere umano ha struggente nostalgia è quello stato in cui coscienza ed inconscio sono totalmente uniti”. (sacro - 3  precedente  seguente)

 
 
 
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