Pablo ha 25 anni. Da quando ne aveva dieci gira il mondo, e gli ultimi li ha trascorsi a Cuba. "Beato lui", verrebbe da dire. "Mica tanto", risponderei. Perché Pablo, come mi ha sempre raccontato Jorge, suo padre, con quel suo accento strascicato da argentino venuto in Italia, a 10 anni si è beccato un aneurisma. Di cui nessuno mai ha trovato una causa. Un accidente che, per fare un giro di parole, gli ha fatto dimenticare le cose. Pablo ha iniziato a dimenticare come si cammina, come si fa a parlare, come si mangia, come si ride, come si beve, come si alza un braccio, come si dà un bacio, come si legge, come ci si gratta, come si piange. Come si vive, insomma. Gli ha giusto permesso di ricordare come si respira (e neanche troppo bene) e come si aprono gli occhi. Per cui, da quando ha 10 anni, gira in mondo di ospedale in ospedale. Sempre accompagnato dalla mamma. Mentre Jorge e il fratello Sergio lavorano in fabbrica. Sempre il turno di notte, che è più faticoso ma è pagato di più. Perché con quello che portano a casa devono mantenere loro stessi, le cure di Pablo e tutto quel che consegue. Per farla breve, non mi ricordo più in quale ospedale statunitense hanno conosciuto un dottore cubano. Che ha visitato Pablo, ci ha pensato su e poi ha detto: "Proviamoci". Mamma e Pablo sono andati a Cuba. E lì, tra un intervento, una cura e una ciclo di fisioterapia, Pablo ha ricomnciato a ricordare. Come si parla, come si mangia, come ci si alza, come si muovono le mani e le braccia, come si cammina con le stampelle. Cicli di cure da tre, quattro mesi a botta. Un paio di mesi in Italia e poi di nuovo a Cuba, per salire, uno per volta, i gradini della vita. Pablo l'ho visto per l'ultima volta nel dicembre del 2004, durante uno dei suoi soggiorni in Italia. Ne avevo scritto così tanto che mi sembrava di conoscerlo come un fratello, anche se era la prima (e per ora anche ultima) volta che lo vedevo. A casa sua, in in paesino in provincia d Torino. Non capivo cosa diceva, non capivo neppure cosa faceva. Capivo solo quando rideva. Cosa diceva me lo hanno spiegato Jorge e sua moglie, cosa faceva l'ho capito io quando, anni dopo, mi è nata una figlia. Che, quando arriva qualcuno a casa, prima fa la scontrosa, e poi si esibisce nel suo repertorio, fatto di pezzi di poesie e canzoni, di salti sul divano, di risate. "Fa tutto quel che sa fare", si dice in dialetto stretto da queste parti. Ecco, Pablo faceva la stessa cosa. Alzava un braccio, girava la testa, stringeva le mani perché quello era tutto quel che sapeva fare. Quando me ne sono andato Jorge e Anna, sua moglie, mi hanno regalato un sigaro. Cubano, ovviamente. "Per quello che hai fatto", mi avevano detto. "Dai, fumalo tu", gli avevo risposto. "Abbiamo dovuto smettere di fumare", mi aveva detto lui. Perché la manovra economica della famiglia, per cercare di far quadrare tutto, aveva rimosso tutti i generi non necessari, come appunto il fumo.Il sigaro l'ho ancora in un cassetto. Prima o poi lo fumerò. Magari quando vedrò di nuovo Pablo ridere.In tutto questo Jorge e Sergio, l'altro suo figlio, lavoravano di notte e cercavano di fare qualcosa di giorno. Tipo far conoscere la storia di Pablo, promuovere sottoscrizioni, raccontare i lenti ma costanti miglioramenti di Pablo ogni volta che qualche associazione o gruppo di persone organizzava qualche cosa a fine benefico. Perché le cure fanno bene, ma costano. A tal punto che anche il "tiranno sanguinario" e "senza cuore" Fidel Castro aveva pagato di tasca sua un ciclo di tre mesi di cure.Poi, per un po', di Pablo e della sua famiglia non avevo più sentito nulla. Semplicemente la cosa si era incanalata in un binario piuttosto regolare di cose che vanno per il loro verso: sacrifici - cure - viaggi in Italia - miglioramenti - viaggi a Cuba - sacrifici.....Un paio di mesi fa Jorge mi ha ritelefonato. Capita che ogni tanto una storia rialzi la testa. Lo fa perché le cose hanno preso una piega positiva o una piega negativa. La storia di Pablo ha preso una piega negativa.
Pablo lotta
Pablo ha 25 anni. Da quando ne aveva dieci gira il mondo, e gli ultimi li ha trascorsi a Cuba. "Beato lui", verrebbe da dire. "Mica tanto", risponderei. Perché Pablo, come mi ha sempre raccontato Jorge, suo padre, con quel suo accento strascicato da argentino venuto in Italia, a 10 anni si è beccato un aneurisma. Di cui nessuno mai ha trovato una causa. Un accidente che, per fare un giro di parole, gli ha fatto dimenticare le cose. Pablo ha iniziato a dimenticare come si cammina, come si fa a parlare, come si mangia, come si ride, come si beve, come si alza un braccio, come si dà un bacio, come si legge, come ci si gratta, come si piange. Come si vive, insomma. Gli ha giusto permesso di ricordare come si respira (e neanche troppo bene) e come si aprono gli occhi. Per cui, da quando ha 10 anni, gira in mondo di ospedale in ospedale. Sempre accompagnato dalla mamma. Mentre Jorge e il fratello Sergio lavorano in fabbrica. Sempre il turno di notte, che è più faticoso ma è pagato di più. Perché con quello che portano a casa devono mantenere loro stessi, le cure di Pablo e tutto quel che consegue. Per farla breve, non mi ricordo più in quale ospedale statunitense hanno conosciuto un dottore cubano. Che ha visitato Pablo, ci ha pensato su e poi ha detto: "Proviamoci". Mamma e Pablo sono andati a Cuba. E lì, tra un intervento, una cura e una ciclo di fisioterapia, Pablo ha ricomnciato a ricordare. Come si parla, come si mangia, come ci si alza, come si muovono le mani e le braccia, come si cammina con le stampelle. Cicli di cure da tre, quattro mesi a botta. Un paio di mesi in Italia e poi di nuovo a Cuba, per salire, uno per volta, i gradini della vita. Pablo l'ho visto per l'ultima volta nel dicembre del 2004, durante uno dei suoi soggiorni in Italia. Ne avevo scritto così tanto che mi sembrava di conoscerlo come un fratello, anche se era la prima (e per ora anche ultima) volta che lo vedevo. A casa sua, in in paesino in provincia d Torino. Non capivo cosa diceva, non capivo neppure cosa faceva. Capivo solo quando rideva. Cosa diceva me lo hanno spiegato Jorge e sua moglie, cosa faceva l'ho capito io quando, anni dopo, mi è nata una figlia. Che, quando arriva qualcuno a casa, prima fa la scontrosa, e poi si esibisce nel suo repertorio, fatto di pezzi di poesie e canzoni, di salti sul divano, di risate. "Fa tutto quel che sa fare", si dice in dialetto stretto da queste parti. Ecco, Pablo faceva la stessa cosa. Alzava un braccio, girava la testa, stringeva le mani perché quello era tutto quel che sapeva fare. Quando me ne sono andato Jorge e Anna, sua moglie, mi hanno regalato un sigaro. Cubano, ovviamente. "Per quello che hai fatto", mi avevano detto. "Dai, fumalo tu", gli avevo risposto. "Abbiamo dovuto smettere di fumare", mi aveva detto lui. Perché la manovra economica della famiglia, per cercare di far quadrare tutto, aveva rimosso tutti i generi non necessari, come appunto il fumo.Il sigaro l'ho ancora in un cassetto. Prima o poi lo fumerò. Magari quando vedrò di nuovo Pablo ridere.In tutto questo Jorge e Sergio, l'altro suo figlio, lavoravano di notte e cercavano di fare qualcosa di giorno. Tipo far conoscere la storia di Pablo, promuovere sottoscrizioni, raccontare i lenti ma costanti miglioramenti di Pablo ogni volta che qualche associazione o gruppo di persone organizzava qualche cosa a fine benefico. Perché le cure fanno bene, ma costano. A tal punto che anche il "tiranno sanguinario" e "senza cuore" Fidel Castro aveva pagato di tasca sua un ciclo di tre mesi di cure.Poi, per un po', di Pablo e della sua famiglia non avevo più sentito nulla. Semplicemente la cosa si era incanalata in un binario piuttosto regolare di cose che vanno per il loro verso: sacrifici - cure - viaggi in Italia - miglioramenti - viaggi a Cuba - sacrifici.....Un paio di mesi fa Jorge mi ha ritelefonato. Capita che ogni tanto una storia rialzi la testa. Lo fa perché le cose hanno preso una piega positiva o una piega negativa. La storia di Pablo ha preso una piega negativa.