piazza alimonda

Torino, 30 ottobre, anno del signore 2008


Il corteo viene vomitato fuori da piazza Arbarello, e finisce dritto in via Cernaia (per chi non è di Torino, trattasi di via larga e lunga che, con il suo proseguimento, via Pietro Micca, arriva dritta nel cuore di Torino, piazza Castello). Passano le scuole, passano gli universitari, passano i centri sociali, passano i ricercatori, passano gli insegnanti, passano le mamme e i papà. Passano davanti ad un gruppo di poliziotti che li guardano, ampiamente ricambiati, in cagnesco. Ci passo anch’io, davanti ai poliziotti. Ad una, cioè, delle congreghe più omertose che esistano. Dei poliziotti li conosco anch’io. Ne conosco uno che ha ribaltato un sistema camorristico in una delle valli olimpiche. Lo conosco bene. E lo stimo. Poi, però, accanto a quelli che il culo lo rischiano mettendoci la faccia contro quelli che si chiamano poteri forti, ci sono quelli che fascistamente manganellano quelli che non possono reagire. Tanto si coprono tra di loro. Tanto non parlano. Spirito di corpo, o forse solo il fatto che se salta uno poi saltano tutti. Quando arrivi in piazza Castello vedi questo fiume di gente arrivare. Passano i minuti. Dieci, quindici, venti. Mezz’ora. Quaranta. Tre quarti d’ora. E questo fiume non si arresta, continua a riempire la piazza. Poi, di lì, attraverso via Po, arrivano in piazza Vittorio. Che, stando alle classifiche di quelli che sanno, tra le piazze senza monumenti in mezzo, è la più grande d’Europa. Tanto per dire che non è proprio in cortiletto condominiale. E si riempie. E penso ai numeri. A quando cominceranno a dire che magari erano tremila. O trecento. O solo trenta. O ancora, meglio, che non c’era nessuno. Possono dire quello che vogliono. Possono mettere la mano nel sacchetto, come si fa quando si gioca a tombola, e dire il primo numero che capita. Possono dire quello che vogliono. Tanto la verità la sappiamo. La sappiamo noi e la sanno anche loro. E di questa verità hanno paura. Perché per ogni mamma che scende in piazza c’è un papà che lavora, da qualche parte. E per ogni papà c’è una mamma a casa. E per ogni bambino ci sono dei nonni arrabbiati. E per ogni maestra ci sono dei figli grandi. Lo sanno che quel numero, quello vero, che sappiamo noi e sanno loro, fa paura. E fa ancora più paura se lo moltiplichi, com’è logico, per due, o per tre. O per quattro. In piazza Castello vedo il presidente della Provincia che passa in mezzo alla folla. Ci salutiamo da lontano. Fa pochi passi e gli si para davanti un ragazzo. Che, a naso, non lo ha votato, e non lo voterà mai. Però gli va incontro e gli stringe la mano. Ci sono bandiere in piazza. Di tutti i colori, con tante sigle. Siamo in tanti, in tanti davvero. Grosso modo me lo immagino come il 9 settembre di tanti decenni fa. Dove non importava se eri comunista o cattolico. Se stavi da una parte o dall’altra. Se prima era da una parte e poi ti sei spostato. Conta solo il fatto che ora siamo insieme. Insieme contro quello che, ieri come oggi, ha un nome ben preciso, anche se ha cambiato un po’ la sua forma: fascismo. Passano gli universitari, e scandiscono «Berlusconi, pezzo di…..». Passano delle classi elementari: bimbi alti così che cantano «Gelmini befana l’ha fatto per la grana». Passa una ragazza di chimica con un cartello «Adotta un chimico: costiamo poco e valiamo molto». Passa un cartello che dice: «Berlusconi, i capelli li hai grazie alla ricerca». In quel bailamme ci trovo un bel po’ di gente che conosco. Non ci vedo, però, i centro destrorsi. Volevano scendere in piazza anche loro per dare la corretta interpretazione della legge, ma hanno pensato bene di evitare ulteriori figuracce. Non si vede in giro neppure Ghiglia Agostino, di An. Uno, per dire, che negli anni ’70 era finito al gabbio (poi amnistiato) per eccessivo uso di manganello sulle teste altrui. Ci sono, invece, musicisti e coro del teatro Regio, che suonano per i ragazzi. Ghiglia si era incazzato molto per questo, e aveva sentenziato (Dio solo, e forse neanche lui, sa in base a quale recondito potere) che se lo facevano gli sarebbe stato decurtato un giorno di paga. I musici hanno risposto che: 1) loro suonavano nel tempo libero e quando non avevano impegni di lavoro 2) era la prima volta che Ghiglia si interessava di teatro, visto che al Regio non lo si è mai visto (meglio il Bagaglino, credo) 3) trattenessero quel che volevano. Loro in piazza ci sarebbero stati. In piazza Vittorio si fa vedere Deodato Scanderebech. Un tizio che, tra Regione e Parlamento, ha diviso la sua intensa attività politica tra Udc e Forza Italia. E, giusto per dimostrare che il sangue non è acqua, ha piazzato la figlia in Consiglio comunale a Torino. Guarda il corteo con quello sguardo scaltro di chi non capisce cosa succede, e non capendo disprezza. Poi, siccome non è che abbia un faccino proprio anonimo, quando si accorge che il corteo inizia a guardare lui chiama il gorillone di turno e se ne va. In piazza Vittorio ci trovo pure Luca e Mimmo. Col morale sotto i tacchi perché l’editore per cui lavoravano ha scoperto che sono comunisti, per cui a dicembre calcio in culo e via. Ci sono già passato, posso anche dispensare saggi consigli. Quasi sicuramente combineremo qualcosa insieme, e potremo scrivere quel che cazzo deve essere scritto. Senza politici di mezza tacca che chiedono e minacciano. In piazza Castello, dal palco, sale un tizio che dice una cosa sensata: «La scuola non è in lutto. E’ in lotta». E allora lotta sia. Così, per gradire: http://it.youtube.com/watch?v=06d-9gCS1gI&feature=related http://it.youtube.com/watch?v=8wg0-K5sGqo&feature=related