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Post N° 12

Post n°12 pubblicato il 26 Gennaio 2007 da pietrificatore76
 

Da Il Giornale, domenica 16 dicembre 2006

Nella Milano da leggere, va di moda la pietrificazione. Deve aver cominciato Alberto Carli, conservatore a Lodi dedicato a Paolo Gorini, maestro pietrificatore noto a Savinio e Dossi. Ha continuato l’estroso chimico di Pavia Luigi Garlaschelli, con un originale “Corpi di pietra”, pubblicato a inizio anno da Neftasia editore. Adesso arriva Ippolito Edmondo Ferrario, trae fuori questo sorprendente “Il pietrificatore di Triora” (Fratelli Frilli, 296 pagg., 11,50 euro) e il trend è stabilito. Perché Paolo Gorini, scienziato celebre e discusso al suo tempo, e la pietrificazione? Forse perché questa dell’Occidente forse in declino è una società in cui il corpo ha un rilievo sociale e politico da tempo ignoto. Poi, più probabilmente, perché alla pietrificazione si associa l’idea della conservazione di sé, del monumentum aere perennius: e chi non nasce Quinto Orazio Flacco, il monumentum di se stesso se lo fa costruire in vita dal chirurgo estetico, in morte appunto dal pietrificatore. Tutte queste considerazioni, e molte altre ancora, ha in mente il giovane Ferrario nella stesura del suo funambolico horror-noir intellettuale, che è di area in senso molto ampio scapigliata e, prima originalità, si svolge fra Milano e Triora. E’ quest’ultimo un borgo medievale dell’estremo Ponente ligure, noto alla storiografia moderna per aver ospitato i primi e più imponenti processi alle streghe del secondo Rinascimento. Ippolito E. Ferrario è anche storico della stregoneria, ma a Triora è tanto legato da esserne divenuto, a meno di trent’anni, cittadino onorario. Conosce quindi il luogo come e meglio degli indigeni e in quanto straniero in terra non straniera si permette in molte parti di questa narrazione di prendere sottilmente a gàbbo certe consuetudini di provincia e, altra singolarità, usando come protagonisti personaggi davvero esistenti, indicati per nome e cognome. Un teatrino che sta fra il guignol e lo schiettamente comico, perché le fila son poi tenute da un investigatore milanese figlio illegittimo di Scerbanenco e Simonetta, che indaga su omicidi muliebri misteriosi e su un immancabile omicida seriale. Sarebbe roba già sentita e più ancora già molto vista al cinema, se Ferrario non la servisse guarnita di una lingua scintillante, la cui disinvoltura malcela una padronanza del lessico non comune. Il tratto di maggior singolarità del libro è però la vera professione di Leonardo Fiorentini, l’investigatore. Costui è infatti gallerista, al modo che lo è Ippolito Edmondo Ferrario, titolare di una galleria d’arte fra le più note a Milano. Il romanzo si legge allora come un impudente, divertito e spassoso gioco degli specchi, in cui entrano a pié pari  Federico Zandomeneghi e Quirino Principe, la quasi dimenticata Minnie Alzona e il per nulla dimenticato Junio Valerio Borghese. Una spettacolare mise en abîme di un sacco di generi oppure – ed è già molto, di questi tempi – il romanzo di un trentenne di ottime letture, che ha il gusto dello sberleffo ma distingue un Boldini del 1878 da uno del 1909. Il libro si avvale anche di una briosa prefazione di Andrea Pinketts, per l’occasione composto e senz’altro utile all’intelligenza del testo e, in 3 mesi circa dalla sua uscita, si avvia alla seconda edizione.

 
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