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Post n°600 pubblicato il 06 Ottobre 2007 da pigra_pigrissima
“ Per anni. Mai un momento in cui non avessi paura, in cui non stessi aspettando qualcosa. Aspettavo che se ne andasse o che ritornasse. Aspettavo una sberla o un sorriso. Quel lavaggio del cervello me l’aveva distrutto, il cervello; passavo le ore come uno zombie, avevo paura di pensare e di smettere di pensare… Me ne stavo a casa e aspettavo. Non avevo più amici. Perché gli avevo dato un uovo troppo cotto, perché alzavo gli occhi al cielo… Perché. Perché. Perché. Mi distrusse. Mi fece a pezzi. Ma io non smettevo di amarlo. E lui amava me. Lasciami stare! Non picchiare la mia mamma! Lo prometto! Lo prometto! Lo amavo. Lui era tutto e io non ero niente. L’avevo provocato. Ero stata una stupida. Mi tirava su da terra. E io lo amavo. Mi tirava su e mi prendeva tra le braccia. Si metteva a piangere appoggiato alla mia testa. Avevo bisogno di lui. Per anni ci credetti. Me lo ero meritato. Ero inutile. Non ero nemmeno capace di preparargli una cena come si deve. Lo prometto! Ero senza speranze. Per anni ci credetti. Non ce l’avrei mai fatta da sola. Avevo bisogno di lui. Buona solo per scopare, e nemmeno troppo brava se era per quello. Cosi diceva lui. Per questo andava con le altre. Glielo sentivo addosso l’odore delle altre. C’erano dei giorni in cui non esistevo; per lui ero trasparente, mi girava intorno. Ero invisibile. C’erano giorni in cui ero contenta di non esistere. Una chiusura totale, smettevo di pensare, smettevo di guardare. E quelli erano i giorni migliori. Con i bambini era difficile andare avanti così. Mi facevano sempre tornare in me. Dovevo esserci, non potevo essere invisibile, con loro. Dovevo pensare. Dovevo essere viva e sveglia, e fare le cose che c’erano da fare. Non potevo lasciali soli. Non potevo lasciali con lui; non potevo mollare tutto. Erano sempre lì, tutto il tempo. Bisognava dargli da mangiare. Bisognava abbracciali. Dovevo esserci, per loro. E così vivevo. Vivevo per loro. Loro mi vedevano. Loro mi accarezzavano. Poi quando diventavano grandi avrei potuto scomparire. Avrei potuto ripiegarmi su me stessa. Ma dovevo esistere, dovevo esserci fino a quando erano grandi abbastanza…. “ Non picchiare la mia mamma! “ La voce della piccola. Le sue braccia che mi stringevano la gamba, lei che si teneva aggrappata. E mi infilava le dita nella tasca di dietro dei jeans, me li tirava. Con i piedi tra i miei. E intanto lui mi girava intorno. E mi giravo anch’io, per tenermelo davanti. “ E’ tutto a posto tesoro” diceva lui. E lei continuava a tirarmi per la tasca. E a premermi la faccia contro. Poi guardava suo padre. Gli guardava i pugni, la faccia. E mi premeva contro il suo faccino. Io non riuscivo a vederla. Le tenevo una mano sulla testa. Dovevo tenere gli occhi addosso a lui. Per cercare di trattenerlo. Sentivo la piccola che tremava. Dovevo farlo stare lontano. E stare attenta a tenermelo sempre davanti. E a tenere lei dietro di me. Dovevo stare attenta a non usarla come scudo. Lei si aggrappava ai miei jeans. Col cuore che le batteva. E io tenevo gli occhi fissi in quelli di lui. Lui mi amava. Lo so. Fino alla fine. Anche dopo che l’ho buttato fuori di casa. Non era lui, era qualcosa dentro di lui. Qualcosa che era andato storto. Era uno che si arrabbiava. Aveva sempre avuto un brutto carattere. Sapeva quello che voleva. Gli sarebbe bastato poco, essere solo un po’ diverso per diventare qualcuno. Negli affari, o nella politica. L’avrebbe usata in altro modo, tutta quella rabbia. Invece di sprecare tutto. Perché faceva così? Non mi viene una risposta vera. Mi amava e mi picchiava. Io lo amavo e mi facevo picchiare. E’ una cosa tanto semplice, tanto stupida e tanto complicata. Mi amava. Ma se mi amava perché mi picchiava? Non ce l’avrei mai fatta ad andare oltre la porta di casa. C’erano troppe cose. Troppe cose. I bambini. La scuola. Farmi vedere dalla gente. Era tutto nero lì fuori. Lui diceva che mi ammazzava se me ne andavo. E i bambini. Diceva che non me li avrebbe mai lasciati portare via. Quando ero a letto ad aspettarlo ero felice che tornasse a casa. Però avevo anche paura. Era ubriaco? O sarebbe stato gentile con me? Meglio essere sveglia o far finta di dormire? Stavo a sentire i suoi passi e cercavo di decifrarli. Quanto erano lontani, quanto aveva bevuto, di che umore era. Riuscivo a capirlo prima che arrivasse in stanza. E poi rimase soltanto la paura. Il terrore quando sentivo la porta che sbatteva. Quanto sono stata così? Non lo so. Un giorno l’ho conosciuto. Un giorno mi sono sposata. Un altro giorno l’ho buttato fuori di casa. E’ tutto successo nel frattempo. Buttato fuori! Non me lo scorderò mai… l’eccitazione, il terrore.Mi fece sentire così bene. Fu terrificante però, dopo… dopo che era successo. Dopo che gliele avevo suonate. Lo feci senza pensarci. Non ci sarei riuscita, se no. Quando lo vidi che guardava Nichi in quel modo, quando gli vidi gli occhi… Non so cosa mi successe… mi trasformai in Superwoman. Fu facilissimo. Bang… e via. Non pesava più niente la padella. Non pesava più niente quando la tirai su. Giù… e via. Il mio momento più bello. Esistevo. Lo spirito del male. Lui aveva ucciso me, e adesso era il turno di Nichi. E invece no. No, cazzo, no. “ Vaffanculo…. Vattene fuori di qua.” “
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