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pausa natalizia

Post n°80 pubblicato il 23 Dicembre 2014 da Pallavicini74
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PAUSA NATALIZIA

 

 

Natale, festività cristiana o pagana? Nel dubbio, dormiamo fino al 7 Gennaio!

 
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CAMPANA - LEOPARDI / CANTI

Post n°79 pubblicato il 19 Dicembre 2014 da Pallavicini74
 
Foto di Pallavicini74

Ci vuole coraggio a buttarsi in un nuovo commento dei Canti  di Giacomo Leopardi. Questo coraggio Andrea Campana, valente studioso dell'ateneo bolognese, lo ha dimostrato tutto. Ho assistito ieri alla presentazione della sua nuova versione commentata del magistero poetico leopardiano, edita da Carrocci. Si sa, le presentazione tendono alla celebrazione, sanno spesso di palude; tuttavia, vuoi per la timidezza erudita dell'autore, vuoi per la competenza degli astanti chiamati a discorrere del testo e, fatalmente, inciampati nel rinverdire l'eterna e simpatica diatriba su Leopardi "classicista" o "romantico" o (come suggerito da D'intino, per salvare gli uni e gli altri) "post - rivoluzionario", l'utile ha preso le consegne dal dilettevole e viceversa. Che poi scrivere di Leopardi voglia dire consegnarsi e legarsi mani e piedi all'autore più percorso - insieme a Dante - della letteratura italiana, campo di studi di docenti e appassionati, terreno di benedizioni e maledizioni assortite da parte degli studenti di tutta Italia ( certo non passerà inosservata la mole del tomo, oltre 500 pagine piene zeppe di tavole, note, abbreviazioni e, naturalmente, commenti), non credo spaventi l'autore del nuovo commento. Farà parte dei sogni e degli incubi delle generazioni future, sarà portatore di un modo d'intendere Leopardi dalla specola dei primi anni Duemila, farà parte del paratesto eterno che circolerà a diffonder gloria nei secoli. Io, per me, da semplice appassionato, da amante della poesia e della bellezza, posso dire che ogni strumento in più può rappresentare un valido aiuto per accompagnare la lettura di un'opera, per permettere la fruizione, la condivisione di una gioia, la gioia del lettore. Muovo solo un piccolo appunto - dettato dalla normale incomunicabilità linguistica - rispetto a quanto detto ieri da D'intino: sottolineare il bisogno di comprensione letterale della poesia, pur in presenza di una sintassi arditissima, in parte naturale a distanza di un paio di secoli, rischia di far passare l'idea di una verità unica e definitiva, quando in realtà ( o almeno così mi pare) il tempo produce sempre nuovi modi di lettura, nuove intersezioni amorose tra le opere. Un classico non smette mai di dire la sua, di sorprendere, di trovare una smagliatura in cui insinuare nuova linfa rispetto al tentativo di comprensione del mondo. Più un'opera sa nascondersi e metamorfizzarsi, più continuerà a intercettare la vitalità degli uomini. Per questo non si finisce mai di spiegare. Una volta licenziato, il commento, risulta già ascritto alla storia. Attendendo il prossimo, auguriamo agli studenti e ai tanti amanti del grande recanatese di affezionarsi al "Campana".

 
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GOGOL / LE ANIME MORTE

Post n°78 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da Pallavicini74
 
Foto di Pallavicini74

GOGOL / LE ANIME MORTE

 

 

Nel cortile di un albergo di N., capoluogo dell'omonimo governatorato, fece il suo ingresso una carrozza leggera, piuttosto bella, ben molleggiata, da scapolo, di quelle che usano i tenenti colonnelli a riposo, i capitani in seconda, i proprietari di non più di cento anime e insomma, per farla breve, i signori di media fortuna. lLa carrozza era occupata da un tale, non una bellezza, ma neppure brutto, non grasso, ma neanche magro, né giovane né vecchio.

 

Inizia così, con una sapienza retorico - narrativa da lasciare basiti, uno dei grandi capolavori romanzeschi dell'800 russo, LE ANIME MORTE  di Gogol. Non credo al via e vai dello spirito ideale, non credo all'andirivieni che bacia, in tempi diversi, altrettanti paesi. Resta il fatto, la percezione, della superiorità russa nei fatti letterari, almeno per quanto concerne gli ultimi due secoli. E non v'è distinzione fra i presunti generi, romanzo, poesia o dramma che dir si voglia: i russi hanno una marcia in più, non c'è scampo per le chimere altrui. E non importa, nel caso specifico, se il romanzo risulta incompleto, qua e là disperso in capitoli mancanti: la sua grandezza non sta nella storia, nella trama, bensì nello stile. E quando dico stile mi mordo le mani, pensando alla mia insipienza linguistica; quando dico stile intendo un preciso modo di rendere la pagina, un delineare i paradigmi e la geologia dell'essere umano attraverso un ritmo, un respiro che si nutre di sarcasmo e di grottesco ancor più che d'ironia, giacché il tragico del sottofondo ( le sofferenze e le condizioni bestiali delle classi inferiori, dei contadini, dei servi della gleba, delle anime che muoiono a stormi, solo che appena l'ordigno naturale si comprima un pelo oltre il dovuto ) viene vissuto in termini deformi dalle anime nobili e borghesi, in realtà covo di vizi, sentina del peggio del peggio del genere umano. Un grande affresco, cinico e senz'anima, o meglio: con l'anima sottosopra o sott'acqua, con l'anima che neppure quella viene lasciata, resa all'onore dei "nati mali"; con l'anima mercanteggiata, occorre tanto pelo sullo stomaco per fare il proprio dovere, occupare il proprio posto, far girare la propria ruota nella Russia del tempo, inferno delle grandi distanze e della stupidità ad ogni angolo. Finisce con un invito, una calorosa forma di presa di coscienza lasciata lì, a metà, a un non detto macerato nel buio della ragione. Finisce, ma non potrà avere mai fine: capita così, è destino, ai classici senza tempo.

 

In quanto russo, legato a voi da vincoli di parentela, da uno stesso sangue, mi rivolgo a voi. Mi rivolgo a quelli di voi che hanno idea di cosa voglia dire nobiltà di pensiero. Vi invito a compiere quel dovere che ovunque attende l'uomo. Vi invito a considerare meglio questo dovere, la responsabilità della vostra missione terrena, poiché noi tutti ce la figuriamo debolmente, e solo in parte...

 

 

 
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CERCHI CONCENTRICI E PUNTI DI FUGA

Post n°77 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da Pallavicini74
 
Foto di Pallavicini74

CERCHI CONCENTRICI E PUNTI DI FUGA: ASPETTANDO BOLOGNA IN LETTERE

 

 

Dopo una profetica analisi sgorgata dalla lucidissima mente di un maestro del nostro tempo ( Pasolini ) sulla impossibile mercificazione e consunzione del bene "poesia", e dopo un video d'introduzione alla serata dal sapore storico - filosofico proposto da Cepollaro, capace di chiamare in causa teorie adorniane e il concetto di "pacificazione" dell'arte rispetto alla società borghese, la discussione ha preso una interessante piega metodologica incentrata sul tema dello stile e della facilità o meno del segno poetico. Scoppiettante per verve e per profondità di visione Assiri, interessanti pure Barbieri e Campi, non ho potuto assistere al prosieguo della discussione,  immagino comunque feconda. Mi permetto, a margine, un paio di brevi appunti. Innanzitutto, continuo a propugnare una posizione ( donchisciottesca ) in merito all'inesistenza dei generi letterari. O meglio: la distinzione per genere è un contenitore dovuto a esigenze di accorpamento storico - letterarie. Ciò che fonda il genere è lo stile; ciò che distingue, illumina, identifica, storicizza è lo stile, unico vero digestore di vita ed opera. Assegnare una "naturalità" al dettato poetico, una preminenza rispetto agli altri "generi", basandosi sulla primogenitura statutaria del verso ( dunque connaturato all'uomo ) è, mi si permetta, una mezza verità; non metto in dubbio il susseguirsi degli eventi. Dico che l'asticella della definizione di ciò che merita di dirsi poetico non va riservata limitandosi al sorgere delle diverse letterature, così come - ha ragione Assiri da vendere - la forma libro, peraltro non eterna, neppure lei, non viene certo messa in crisi dagli e-book, anzi: la crisi, semmai, va ricercata altrove ( come se poi il termine in sé fosse negativo o, ancora, come se non fosse un habitué costante delle maldicenze e delle doglianze d'ogni epoca ). In conclusione: più che un fatto di genere, la grande libertà della poesia ( e dell'arte tutta ) è rinchiusa proprio nel suo non essere riconducibile a una scientificità definitiva, nel suo multanime e multiforme girovagare nel mondo. La poesia è la nicchia di libertà che l'essere umano ha per esprimere una dignità e una visione del mondo, anche in solitudine. Non siamo troppo piagnoni, conteniamo i piagnistei. Malinconici sì, ma con gioia!

 
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BATISTI / ZEICHEN

Post n°76 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da Pallavicini74
 
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Aveva promesso il Batisti che sarebbe tornato su certe argomentazioni belligeranti; lo fa con una ancora più lucida analisi del magistero poetico di uno fra i poeti più in vista nel poco che propone l'italico genio di questi tempi; lo fa da par suo, con sagacia e puntiglio, mettendo bene a fuoco quanto di buono rinviene nei versi e, talvolta, quanto non convince appieno nella visione del mondo proposta, nel caso specifico, l'eccessivo carico ironico che, a detta del Batisti, pone troppo in lontananza il tragico dei fatti. Lascio dunque ancora spazio alla sua forbita penna e alla fregola dell'avido lettore. Dico solo - sommessamente - che capita, nella democrazia delle lettere - di concordare con l'analisi ma non con il giudizio finale: questione di punti di vista e, come sempre, di weltanschauung. Questa volta mi tocca dissentire dal pur lucido finale: accade talmente di rado con la penna e il pensiero del Batisti ( si sarà inteso, uno dei pochi contemporanei che vale sempre la pena leggere ) che , una tantum, vale la pena sottolinearlo.

 

 

Il rovescio del decadentismo

 

L'estro del Führer ideò

l'eroe romantico di massa.

Aprendo le gabbie degli uffici

e delle lugubri fabbriche

avviò i tedeschi al palcoscenico

nei vari teatri di guerra.

Gli interpreti ambiziosi

non dovevano aspettare molto

il momento del debutto, i ruoli

si liberavano quotidianamente

nel corso dei duelli fra mezzi corazzati

che offrivano gloria ai veri talenti.

Un lontano ricordo del Luna Park,

una buona mira al tiro a segno

poteva salvare la pelle, e

fatto centro, il suono del carillon

annunciava in premio

una scimmia di peluche

che batte i piatti.

 

Guerra araldica

I

Gli appetiti delle nazioni

si risvegliano quando

l'espressione geografica

di alcune di queste

appare alle altre conforme

a un taglio di carne.

Sulla carta, Cecoslovacchia e Polonia

parevano bistecche di manzo;

la prima, di costa;

la seconda, di lombata.

Perciò Lord Chamberlain

valutò molto rischioso

contenderle al ringhioso Führer

che le aveva addentate

rompendo un patto d'astinenza.

Voleva tenere alla larga

dalla guerra imminente,

l'Inghilterra e le sue colonie

e senza l'ausilio di parole

indurre il famelico Hitler

alla caccia dell'orso russo.

 

Il rullo compressore

delle panzer Divisionen

stese sulla Francia

una carta da parati

decorata di croci uncinate,

ricoprendone le risorse.

[]

 

 

Valentino Zeichen, da Gibilterra (1991), ora in Poesie 1963-2003, Mondadori, Milano 2004.

 

 

 

 

Valentino Zeichen si è voluto eternare nel bestiario della poesia italiana come archetipo del dandy, maestro di leggerezza e di svagata arguzia, cesellatore un po' seriale di fini epigrammi dove una brillante trovata intellettuale si sposa a una certa malinconia e sensualità di fondo. Un modus operandi non così dissimile da quello del più giovane Magrelli (che rispetto a Zeichen pencola un po' più sul versante dell'intellettualismo, meno su quello del gioco); e con lui condivide, mutatis mutandis, il principale limite, che è una tendenza a fare di questa sua posa, elegante e scettica, il contenuto tutto della sua poetica, e di liquidare ogni occasione (in senso tecnico-montaliano) con agudezas a bassa intensità cognitiva che, per rifarsi alla terminologia degli antichi retori, rischiano forte il peccato di ψυχρότης, che sarebbe poi – letteralmente – la freddura.

 

In Gibilterra, un'intera sezione è dedicata alla seconda guerra mondiale, osservata tramite la sua solita lente ludico-concettosa di cui s'è detto.  Confesso che, della sua vasta produzione (in questo poeta vige infatti una sorta di proporzione inversa tra la callimachea esilità dei singoli componimenti e la fluviale quantità delle pubblicazioni), questa sezione è per qualche ragione quella che meglio s'è impressa nella mia memoria di lettore. Non sono probabilmente gli esiti più rappresentativi di Zeichen; ma ne illustrano bene pregi e difetti, e tematicamente mi consentono un raffronto col testo di Bocchiola che ho già analizzato su questo blog.

 

I pregi, dicevo: a livello immediato, superficiale, mi riesce irresistibile la chiusa cartoon della prima poesia; e nella seconda, la cui parabola formale è pure meno netta, più sbrodolata (ne ho omesso l'ultima parte, anche per ragioni di spazio; ma si noti già il calo di tensione, la qualità alquanto zeppastica dei vv. 11-21), l'immagine delle bistecche, e poi quella calata dei panzer sulla Francia, con una comica immediatezza, un'iconicità davvero da videogioco.

 

In qualche modo scatta qui lo stesso procedimento che rilevavo – molto più sommesso, anzi appenna accennato fra toni ben più cupi – in Bocchiola: il tocco leggero e surreale con cui un'immane dramma storico è ridotto a stralunata rissa di burattini, oltre a divertire epidermicamente per la dinoccolata brillantezza dell'immagine, offre implicitamente una mesta riflessione sulla gratuità davvero fumettistica di certi lugubri fenomeni come dittature e guerre, sullo iato abissale tra la sconsiderata levità dell'agire umano, in ispecie di chi ha l'occasione di muovere una qualche leva di potere (a qualsiasi livello), e il fango le lacrime il sangue di cui le aeree manovre da lui sognate si sostanziano praticamente. Non so poi se è da questa fugace coincidenza nell'angolatura dello sguardo che sgorga fra i testi dei due poeti anche l'affinità di certi campi metaforici (imperi e nazioni come carne viva, contesa sotto denti e ferri chirurgici).

 

Di (molto) meno, rispetto al testo di Bocchiola, c'è appunto il dramma – il fango le lacrime il sangue – che forse sono qui dati per scontati, e certo non convengono all'ispirazione zeicheniana; resta solo l'ironia, cioè lo scarto fra la levità di certe formulazioni e l'immanità dei loro referenti, che là era una nota fra le tante, qui l'unico ingrediente (e quindi, in quanto tale, esibito in modo sin troppo scoperto). Sicché il gioco, quando pure funziona, ha vita breve. E direi che, nonostante tutto, funziona proprio perché la vacuità estetizzante di questo fraseggio mima e riproduce quella dei belligeranti stessi di cui si narra. Non è tanto che Zeichen, alla ricerca del Witz estroso, veda fantasiosamente le battaglie come un tirassegno demente, le nazioni come bistecche da addentare; è che il Führer stesso e i suoi generali, come poi i conquistatori d'ogni tempo, le vedevano così, quando posavano gli occhi sulla carta geografica come se fosse il Risiko.

 
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