Creato da carlopicone1960 il 13/01/2008

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Messaggi di Maggio 2020

La sfida

Post n°580 pubblicato il 30 Maggio 2020 da carlopicone1960
 
Foto di carlopicone1960

Il mondo dello spettacolo, come si sa, è fermo. Teatri e cinema sono in attesa  di un'improbabile riapertura fissata a metà giugno. Quando riprenderà anche il calcio di serie A, anche se nelle modalità piuttosto "artificiali" tipo Bundesliga, dove, senza pubblico, si marca piano e soprattutto non si può gioire più di tanto quando si segna un gol. Ma se gli spettacoli live sono da mesi sospesi, c'è chi provvede a sostituirsi ai comici e agli attori protagonisti. Si tratta dei nostri amministratori locali, che non evitano mai di finire in prima pagina con dichiarazioni singolari e reciprocamente discordanti. Repressa la loro voglia di elezioni, l'allusione non può non riguardare il leader maximo Vicenzo De Luca, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e quello di Avellino Gianluca Festa, a ricoprire un ruolo secondario. Il governatore della Campania in questi mesi di emergenza Covid-19 si è guadagnato i palcoscenici internazionali, applaudito e consacrato in tutt'Italia e all'estero, con le sue uscite pirotecniche ed i "lanciafiamme" evocati contro i trasgressori delle sue regole ferree. Quelle che, comunque, hanno tenuto lontana l'epidemia dalla regione. Il fumoso ex magistrato da anni primo cittadino di Napoli, dal canto suo, ha cercato in tutti i modi di mettersi in mostra, ma, compresso dal debordante protagonismo di De Luca, ha avuto poche chance di visibilità. Ancora meno presente il neopopulista sindaco di Avellino. Il suo "prima gli avellinesi", in salsa moderata, è risultato un po' sciapo. Ha sì provveduto in maniera indipendente all'allestimento di una stazione mobile per i test sierologici, a Campo Genova, convinto che fossero efficaci, malgrado la scienza medica ne riconosca validi soltanto due tipi: non di quelli praticati nel capoluogo irpino. Tuttavia pure lui può andar fiero di aver quasi debellato il virus. Anche se ogni tanto riappaiano i contagi. Ora, però, nella fase 2, i tre pezzi da novanta (o quasi) si accapigliano in modo incrociato sulla gestione della "movida". De Luca, si sa, è per un suo drastico contenimento, dopo gli eccessi libertini dei primi giorni del dopo lockdown, e vuole che i locali già alle ore 22.30 cessino di servire bevande alcoliche e cibo d'asporto. Di parere opposto, invece, il libertario De Magistris che, quasi a cercare la provocazione, ha deciso la chiusura dei baretti napoletani alle 3.30, gli stessi che il governatore vorrebbe vedere chiusi a mezzanotte. Nella polemica così innescata s'è inserito quasi inconsapevolmente Gianluca Festa che, nell'ordinanza per il Comune avellinese, ha stabilito la chiusura di bar e ristoranti all'una, dichiarandosi apertamente contrario alle direttive di De Luca: chiusura dei locali alle ore 23.30 e, ripetiamo, divieto di servire alcol dalle ore 22.30. Nella surreale competizione in corso per l'autorità che dovrebbe legiferare a riguardo, i cittadini assistono un po' increduli. In attesa di sapere quali saranno realmente gli orari della nostra timida vita notturna nelle prossime settimane.

 

 

 
 
 

Fare due passi

Post n°579 pubblicato il 16 Maggio 2020 da carlopicone1960
 
Foto di carlopicone1960

Si racconta che, ad Avellino, durante la seconda guerra mondiale, mentre infuriava la fame e la distruzione, gli sfollati riparati nei rifugi non potessero rinunciare, nemmeno nelle condizioni di pericolo diffuso, alla passeggiata e, ad un certo punto della giornata, uscivano all’aperto dai nascondigli e, disegnato un percorso in verticale, si concedevano un po’ di tempo dedicato allo “struscio” lungo la linea immaginaria disegnata tra le macerie ed i detriti. Quasi a respirare un po’ in tanta desolazione. 

L’aneddoto, confermato dalla memoria dei più vecchi, testimonia quella che appare essere la vocazione principale, storicamente accertata, della popolazione avellinese. Capace di sopportare ogni privazione, di sacrificare ogni libertà ma non di  rinunciare alla camminata disinteressata, dettata dal solo scopo di muovere le gambe e vedere gli altri, verificando il loro stato ed i loro avvenuti cambiamenti. Un’attitudine ampiamente confermata anche in questi tempi di pandemia. 

In altre città d’Italia, specie al Nord, l’andare su e giù a collezionare “vasche” lungo un rettilineo sempre uguale, com’è l’isola pedonale di Corso Vittorio Emanuele, non è contemplato fra gli usi degli abitanti. Ogni movimento, infatti, è finalizzato ad uno scopo, all’utilità di incontrare qualcuno o di espletare un impegno. Invece, nel capoluogo irpino, la passeggiata assume un significato quasi fisiologico. Una ricarica d’ossigeno. Nonostante si riveli nella maggior parte dei casi vana per durata e qualità. 

C’è infatti da puntualizzare la differenza esistente tra “passeggiatori” e “camminatori”. I primi si muovono con una certa lentezza ed indolenza, attenti a guardare quelli che incrociano sul loro tragitto, dispensando saluti ai conoscenti e commenti di ogni tipo sugli altri; fondamentalmente non hanno nulla da fare a meno di percorrere instancabilmente la strada frequentata da una vita. Mentre i “camminatori” hanno a che fare con l’esplorazione e la scoperta di luoghi sempre nuovi, fissandosi obiettivi precisi e procedendo ad andamento sostenuto, senza tornare mai sui propri passi. Spesso sono i patiti dell’incedere veloce o salutare, pronti a consumare la mezz’ora rigenerante per il proprio corpo, come consigliano i medici, tenendosi però lontani dagli affollamenti, alla ricerca di sentieri più isolati.

Dal canto loro, i flaneur locali, per dirla alla francese, pensano che per affermare la loro visibilità debbano presenziare fisicamente il Corso cittadino, quasi fosse l’inesistente lungomare di un posto in pianura collocato tra le montagne. 

Hanno resistito al duro lockdown della prima fase di emergenza sanitaria, riuscendo talvolta a trasgredire i divieti per concedersi due passi lungo l’isola pedonale: un modo per contarsi, per accertarsi della buona salute degli amici. Ora, giunti alla seconda fase, pare abbiano rotto gli indugi, catapultandosi numerosi per strada, senza più remore. Solo che, riempendo l’arteria principale della città, mettono a rischio le norme anti-contagio, perché rendono difficile mantenere il distanziamento fisico, che siano o meno mascherati. Se per deambulare si è costretti a schivarli o a raggrupparsi in assembramenti momentanei ai lati della strada. All’ora di punta, come è sempre stato, la Ztl s’affolla. Bande di adolescenti che non sembrano aver capito la pericolosità di un virus che, pur avendoli in buona misura risparmiati, continua a girare per il Paese, e per questo si comportano come prima dell’emergenza, solo con la mascherina sotto il mento: si toccano e si abbracciano senza precauzioni, formando affollate comitive miste, felici di aver ormai terminato la scuola con qualche mese di anticipo. Tanto, del resto, le materie prime delle loro lunghe frequentazioni lungo il centro cittadino restano accessibili: basta la pizza d’asporto e una birra da acquistare nei bar aperti-non-aperti che ti consegnano le ordinazioni sull’uscio del locale commerciale. Quindi, per i più giovani, nulla è cambiato. Né l’epidemia ha portato le attese trasformazioni dei costumi all’insegna della responsabilità. 

 
 
 

Bus vuoti

Post n°578 pubblicato il 12 Maggio 2020 da carlopicone1960
 
Foto di carlopicone1960

Le misure anti-covid 19 hanno, qui ad Avellino, il sapore dell’assenza. Quasi come in uno scenario post-atomico, la strategia di contrasto del contagio rassomiglia proprio a quelle ambientazioni cinematografiche di romanzi distopici, dove in maggioranza si sono estinti e pochi sopravvissuti vagano nel deserto della desolazione. È questa l’impressione di una città che, nonostante non abbia subito l’attacco virulento dell’epidemia, pare abbia scelto il vuoto, la completa dismissione di ogni servizio per la popolazione. 

Può capitare, quindi, che la versione nostrana del lockdown continui ad essere pienamente seguita, malgrado nel resto del Paese sia iniziata la cosiddetta “fase due”. Con i collegamenti mediante i trasporti pubblici solo formalmente funzionanti, ma di fatto inesistenti. Tra punti vendita e bar rigidamente serrati, la gente rinchiusa dentro casa e l’impossibilità di muoversi da un capo all’altro del capoluogo e le ancor di più inaccessibili vie per uscire verso Napoli o gli altri luoghi della rete extraurbana. 

Succede così che chi abbia l’urgente necessità di raggiungere il capoluogo di regione, dopo ottanta giorni di isolamento e di mancanza di informazioni aggiornate, non avendo a disposizione la propria autovettura, cerchi su Internet  gli orari dei pullman dell’Air. Qui però la prima scoperta: gli orari del 2004 sono ancora pubblicati accanto a quelli del 2013 e del 2020. Solo che questi ultimi non sono quelli attualmente in vigore, quelli che per la pandemia hanno subito variazioni significative, ma non comunicate in maniera chiara e precisa al povero utente. Ignaro che le singole fermate in ogni punto della città, prima del nuovo fantastico sito di stazionamento di Piazzale degli Irpini (davanti allo stadio Partenio-Lombardi), siano state sospese fino a data da destinarsi. 

Ma il particolare, pur importante, sarebbe pure ininfluente di fronte all’altro cambiamento deciso dai signori dell’Air trasporti irpini: la radicale riduzione delle corse verso qualunque meta. Senza però che, tra tanti siti web fittizi o reali, nessuno si sia preoccupato di riportare in maniera evidente le modifiche. Così solo dopo aver raggiunto faticosamente la stazione dei bus, non si capisce ancora perché spostata in una location tanto scomoda, ecco la drastica notizia: se si vuole andare a Napoli, bisogna farlo entro le ore 20.30, mentre l’ultima chance per far ritorno ad Avellino dal capoluogo partenopeo è per le ore 21.30. Anche se il sito dell’Air continui ad annunciare le partenze da via Carducci e non dal capolinea di Piazzale degli Irpini, fino alle ore 21.30, e da Napoli addirittura dalle ore 22.30. Per uno sfalsamento di un’ora assolutamente non da poco, se ci si avventura, di questi tempi, nell’impresa di raggiungere la Stazione di Piazza Garibaldi per recuperare un familiare bisognoso di tornare in Irpinia. Ed invece bisogna tener presente che non c’è più un servizio pubblico ad Avellino. 

Tuttavia, quelle poche corse ancora in funzione continuano imperterrite a macinare chilometri e benzina, non importa se sono quasi sempre vuote o al massimo portano uno-due passeggeri. Lo stesso accade, in modalità paradossali, dall’inizio del lockdown, per gli autobus del servizio urbano, che percorrono instancabilmente le strade cittadine completamente vuoti o trasformati in spaziosi taxi riservati ai fortunati utenti in mascherina. Allora, una domanda finale: perché tanto spreco di risorse se non si vuole favorire i trasporti pubblici? Non sarebbe stato meglio chiudere tutto e avvisare la popolazione di non poter avvalersi dei servizi urbani ed extraurbani? Magari uno si metteva l’anima in pace, senza gettarsi nella missione impossibile di viaggiare con l’Air.  

 
 
 

Non ti conosco mascherina

Post n°577 pubblicato il 09 Maggio 2020 da carlopicone1960
 
Foto di carlopicone1960

C’è una dimensione a pensarci bene un po’ terrificante della condizione esistenziale in cui ci ha gettato l’emergenza coronavirus. Alludiamo all’obbligo della mascherina, e magari anche dei guanti, imposto dalla pandemia. Qualsiasi nostro movimento deve essere accompagnato dall’immancabile dispositivo di protezione, da tutti o quasi indossato nelle fogge più diverse e da qualche tempo anche dalle tinte più varie. Del resto, la stessa pubblicità in rete ne propina di tutti i tipi e prezzi.   

Lo scomodo strumento, utilizzato in genere in ambito medico-ospedaliero, è infatti piombato nelle nostre vite come un mezzo essenziale per rendere più sicuri i nostri spostamenti, le nostre stesse relazioni con l’altro, distanziate di almeno un metro, se non si vuole restare nell’isolamento delle nostre case o di altre desolate collocazioni. Ma lo stato di eccezione, prodotto dall’emergenza e dal pericolo del contagio, stenta a convincere della necessità dell’immane sacrificio di fare di un oggetto di tessuto multistrato, quello che rende lecito pure la sua autoproduzione senza acquistarlo in farmacia, un’autentica irrinunciabile protesi del nostro volto, facendo attenzione a coprirsi naso, bocca e mento. 

Eppure, il Ministero della Salute ha subito cominciato a diffondere spot radiofonici e televisivi sulle virtù delle mascherine, sostituendo il loop delle istruzioni per lavarsi di frequente e correttamente le mani, con le indicazioni utili nell’indossarle, sempre a debita distanza e badando all’igiene personale. 

E dire che, intorno ai dispositivi di protezione, si sono immediatamente scatenate le polemiche e alcune consistenti inchieste giudiziarie. Non si contano, infatti, gli annunci, da parte della task-force che sta governando l’emergenza, del prossimo arrivo in tutti gli esercizi commerciali, farmacie e non solo, delle ormai famose mascherine chirurgiche a cinquanta centesimi. Con numeri di diffusione via via saliti a decine di migliaia. Il fabbisogno di mascherine, sarà importante ricordarlo, dovrebbe essere per la popolazione italiana di diversi milioni al giorno. Perché, altro fatto da non dimenticare, le “chirurgiche” sono di uso limitato nel tempo, pressoché monouso, quindi necessitano di continui ricambi. Ma al momento, malgrado le incerte rassicurazioni di commissari vari, il loro arrivo è stato dapprima bloccato dalle solite questioni burocratiche e poi rinviato alla settimana prossima, quando la maggior parte della popolazione ha già provveduto autonomamente. E la Regione Campania ha inviato qui due dispositivi per famiglia. 

Sempre restando il principio che se sessanta milioni di persone vengono obbligate ad utilizzare uno strumento salvifico, oltremodo essenziale alla salvaguardia della salute individuale e pubblica, uno si aspetterebbe di aver accesso gratuitamente al bene necessario, ci chiediamo che progetto di vita il governo tecnico-politico-epidemiologo ha pensato per noi nei prossimi mesi. 

Dato per certo che il Covid-19 non si autosvaporerà, ma continuerà ad aleggiare sulle nostre esistenze almeno fino a quando non sarà neutralizzato da un vaccino, allora si presenta il problema non da poco di dover affrontare l’estate, torrida come da previsioni, bardati e soprattutto mascherati, sotto il sole e l’afa della stagione in arrivo. Parallelamente, coi poveri cristi così combinati, si pretende che si vada in vacanza, nelle stazioni balneari, sulle spiagge formato anti-epidemia, o in montagna (sembra che sia la scelta più adatta), col tessuto multistrato a coprire la faccia, oppure, non si sa come, senza protezione in luoghi circoscritti e sanificati. 

Senza che nessuno ci venga in aiuto, a consigliare il metodo più agevole per conciliare esigenze di sicurezza ed esigenze di vacanza senza pensieri. 

Intanto, qui, le bande di adolescenti ed i gruppi di adolescenti più avanti cogli anni stanno interpretando in modo molto personale la cosiddetta “fase 2”, proclamata dal premier Conte. Non rispettano il distanziamento sociale, né il divieto di assembramenti, in buona parte tengono la mascherina sotto e non sopra il mento, toccandosi e abbracciandosi come niente fosse. Tanto che l’impressione generale, supportata dall’osservazione del comportamento anche degli anziani, è che le mascherine siano non più uno strumento sanitario ma un semplice accessorio del proprio abbigliamento, meglio ancora se in tinta con il resto dei vestiti.    

 
 
 

Lo stato d'eccezione che fa la regola

Post n°576 pubblicato il 08 Maggio 2020 da carlopicone1960
 
Foto di carlopicone1960

A costo di passare per impopolari, di essere giudicati male o addirittura come degli extraterrestri, non si può che riconoscere un profondo senso d’insofferenza nei confronti dello “stato di eccezione” in cui siamo piombati all’atto delle prime dichiarazioni di “zone rosse”, sparse per l’Italia e poi, progressivamente, a inghiottire l’intero Paese. L’insofferenza, che cresce, è dovuta ad una serie di motivi interdipendenti. C’è la stanchezza e l’insostenibilità di una condizione innaturale in cui siamo costretti. Nella forzata sospensione di ogni relazione interpersonale, in quell’ossimoro concettuale costituito dall’isolamento sociale, ristretti e obbligati al distanziamento sociale. A fare attenzione ad ogni eventuale contatto, descritto come possibile contagio. È come se il Medioevo della peste nera sia ritornato, insieme al pericolo di un virus, la cui forza letale solo empiricamente gli esperti stanno studiando. Mentre la normalità, dopo svariati giorni di clausura, è diventata una abitudine perduta e che molti hanno completamente dimenticato nella pratica quotidiana, scivolata addosso insieme alla primavera e all’avvicendarsi delle stagioni. Facile quindi che il rigetto prenda il sopravvento, al mancare dell’energia vitale che si acquista respirando all’aria aperta e interagendo con gli altri. 

Senza dire dell’imposizione della protezione personale associata alla sicurezza pubblica, con la iperresponsabilizzazione eterodiretta che continuamente ci fa sentire sulle nostre tesse il peso di dover combattere la pandemia, quasi fossimo dei virologi, mentre quelli in servizio, più mediatico che altro, non fanno altro che ordinare stili di vita e costantemente deprimono ogni speranza di uscire dalla paura da parte del cittadino medio. Fra i tanti obblighi e le pochissime concessioni c’è poi quello di indossare le mascherine, senza però che la pratica, divenuta irrinunciabile, sia, come dovrebbe, gratuita e per tutti. Piuttosto, in questo caso, sono le disparità di ceto e di classe sociale a rendere più variopinto l’utilizzo dei dispositivi di protezione. E allora sfilano quelli che ne indossano di accessoriate, più efficaci delle chirurgiche monouso, oppure, inseguendo la moda del momento, subito diffusasi con tempismo leggermente sospetto, quelle/i che sfoggiano le nuove fiammanti mascherine colorate in abbinamento cromatico con il resto dell’abbigliamento. Perché queste sono diventate, da strumento di tutela della salute individuale, accessorio del proprio abbigliamento. A prescindere dalla loro funzionalità ed efficacia.

E allora l’insofferenza non può che montare, anche perché intorno a noi le eccezioni si sono trasformate in normalità, tutto pare essere stato modificato, con l’esistenza che scorre e si consuma dietro l’inutilità. 

 
 
 

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