"Forse perché della fatal quiete tu sei l'imago / a me sì cara vieni, o sera" dirà Foscolo. "Bella morte pietosa / non tardar più, t'inchina / a disusati pregi, / chiudi alla luce ormai / questi occhi tristi, / o dell'età reina / ...null'altro in alcun tempo / sperar se non te sola". Leopardi è uno che ha banchettato con l'dea della morte ogni giorno ed ha usato la vita come scusa per amarla, riuscendovi peraltro. Nei "Pensieri" dirà che "la morte non è male: perché libera l'uomo da tutt
i i mali, e insieme coi beni gli toglie i desideri. La vecchiezza è male sommo: perché priva l'uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte e desiderano la vecchiezza". Del resto è intuibile che nella paura anche la morte può far paura, col suo mistero, il suo fascino che però trascina nel dubbio della fine. E' forse giusto quello che Shakespeare fa dire ad Amleto: "...sennonché il timore di qualche cosa dopo la morte, il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggiatore ritorna, confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo. Così la coscienza ci fa tutti sempre più soli e vili ". Ritorna il concetto che rapina la vita e la voglia di viverla dell'uomo: la solitudine. Dentro di sé. Solitudine violenta, come quella di un sequestrato in Barbagia o in Aspromonte. E in fondo anche col sequestro fisico l'uomo non fa altro che ripetere la storia già scritta di una società miserabile che ripete all'infinito i suoi errori fino a renderli riti accettabili. Una condizione di sequestro esistenziale che l'uomo sperimenta nella solitudine, un sequestro in mezzo alla gente. Soli, in una grotta di indifferenza, scavata dall'egoismo di una società attenta solo a ciò che aumenta il narcisismo o il successo. Si può essere sequestrati su una panchina di un parco: un uomo che asp
etta il riscatto della morte. Come un rapito egli sente il silenzio attorno a sé, attento a percepire il rumore della liberazione, che è solo il rumore sempre tradito del desiderio. Talvolta il rapito muore nella tana del sequestro, quando nessuno è disposto a pagare un riscatto e tutti fanno finta di cercarlo per non trovarlo. Riscattare la solitudine che la morte psichica induce, richiede un prezzo troppo alto, perché significa rinunciare a se stessi, diventare un altro. Impossibile! La solitudine psichica è sempre un sequestro disperato o una follia irreversibile, la madre di tutti i suicidi non eroici. E' per questo che l'uomo ha paura della solitudine fisica, immagine di quella del sé, e tende sempre ad appoggiarsi almeno alla paura di un altro, per sopportare la propria. Ci sono bambini rapiti fin dalla nascita, poiché hanno visto subito il volto dell'abbandono. Al loro pianto rispondeva il silenzio. Lo stesso che, inevitabilmente scende dentro di sé. La solitudine "dell'anima" è il dramma di un uomo soffocato dalla gente che non lo vede. La solitudine è piangere tra chi non sa cosa sia una lacrima; è gridare senza voce. Come in una grotta dell'Aspromonte, quando ogni espressione umana si fa pietra disanimata. Una lacrima evapora al calore, senza nemmeno bagnare il volto. Ho conosciuto persone che vivono sepolte nella propria stanza fatta di mura tanto solide da non lasciarsi più attraversare da nulla, all'interno di case abitate dall'indifferenza della frenesia di questo vivere correndo anche quando si potrebbe passeggiare. Ma pure di questo si è perso il gusto...perché non è utile o almeno non indispensabile. Ho conosciuto persone che hanno tutto il coraggio o la forza per uccidersi, ma gli manca la voglia di farlo, come gli manca quella di vivere: sequestrate dalla propria psiche, dalla propria morte e dalla propria vita! Questa solitudine è la condizione di un suicida privato degli arti che gli sono indispensabili per morire. Un'attesa incommensurabile fatta di attimi che si consumano lenti come tanti infiniti dentro un solo esistere. Succede che si muoia perché è meglio per gli altri ma anche che si viva per lo stesso motivo. Credo che ogni uomo porta dentro di sé un piccolo Aspromonte, un pezzo di Barbagia
ed ha una tana dove nascondersi o forse gettarsi per la disperazione e la paura. Un utero di morte. Ma in alcune di queste prigioni non c'è nemmeno un carceriere, nessuna richiesta di riscatto, poiché non si ha prezzo, si è fuori mercato. Un uomo senza valore, senza senso. Solo, senza che nessuno lo sappia. Non un poliziotto, un carabiniere che lo cerchi. Non è nemmeno un numero, l'astrazione più tragica dell'uomo. Ognuno nella solitudine diventa tomba di se stesso, coperto da una pietra sepolcrale senza il ricordo di un fiore appassito che racconti di un lontano profumo. Il riscatto a volte avviene e talora è un semplice sorriso, talora una parola che faccia sentire vibrare l'aria, uno sguardo che dicano:" Ti capisco. Condivido". E "condivido" è una parola che può diventare magica se è "vera". Ma il più delle volte da questi incontri con persone che non dimenticherò mai, sono uscito sconfitto ma forse anche rafforzato. Non mi sarebbe possibile spiegare né l'una né l'altra cosa. So solo che è accaduta e va bene così. Qualcun altro si è accorto della propria esistenza nella sofferenza e della propria sofferenza nell'esistere. Ma raramente è andata così. Il suicidio del resto -definiamolo finalmente- è l'ultimo grido disperato di un sequestrato abbandonato in una caverna del sentimento. E' la paura attonita di essere già morto, la storia triste di un rapito dentro una città dove si svolge incessantemente il rito della lotta senza sosta per arrivare primi, non importa dove, magari solo alla fermata del tram: dovunque c'è un frammento di Barbagia e una tana d'Aspromonte. E solo una personalità sana o risan
ata resisterà alla voglia di diventare pietra tra le pietre. Ecco perché mi piacerebbe non dover mai più sentire quella frase che dopo un po' lacera le cellule di un cervello che sa di già dove verosimilmente porterà chi la dice: "sono fatto così". Solo per qualcuno, pochi: "Sono fatto così... purtroppo"! Ed ancora più difficile è dover constatare che in una espressione così triste, perché piena di una insondabile rassegnazione - "purtroppo" - si può cogliere una speranza,seppur vaga...ma possibile,di lavoro, di un percorso da effettuare insieme perché in un apparentemente banale "purtroppo", c'è una consapevolezza e la consapevolezza può diventare la possibile speranza di una vita che vuole continuare a dispetto di una morte che preme per prenderne il posto. Ma che sia brutta o bella, l'espressione di riferimento, l'importante è coglierla e questo è compito dello psichiatra: cogliere quel barlume di speranza in una mente senza più riverberi di luci, che vive nel nero più marcio che una mente sana possa immaginare. Del resto, senza essere tale, ma esprimendo una tanto impareggiabile quanto nota sensibilità, quel grande poeta prestato alla musica che è stato Fabrizio De Andrè, molto profondamente, nella strofa di una sua canzone, diceva: "...dai diamanti no
n nasce niente... dal letame nascono i fiori...". Eppure... "signori benpensanti", sarebbe tutto ancora così facile e possibile, perché anche se nessuno lo ammette, tutti lo desiderano in fondo...ritornare ad essere "uomini tra gli uomini", regalare un sorriso, emozionarsi per un tramonto, soffrire per un amore, godere della risata fresca di un bambino, aiutare un vecchio ad attraversare la strada e poter ascoltare qualche suo ricordo espresso in poche frasi, ammirare un arcobaleno...far volare un aquilone!