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FACCIAMO CHIAREZZA SUL SUICIDIO...SERENAMENTE! (1)


Si discute molto di disturbi di personalità e una delle preoccupazioni più ricorrenti, in termini di possibili effetti secondari di queste problematiche è sicuramente il suicidio. Ora chiariamo anche una cosa che non è che vada detta per tranquillizzare ma perché è un fatto reale: la psichiatria ha affrontato con grande impegno questo grave effetto collaterale delle malattie psichiatriche ed è riuscita a ridurlo davvero moltissimo. La sempre migliore qualità dei farmaci, l'affinamento delle tecniche psicoterapiche e la sempre più spiccata attenzione e preparazione degli psichiatri, insieme con la consapevolezza che in questa branca della medicina questo evento è sempre molto presente, ha permesso di ridurre di parecchio il numero dei suicidi. Siamo ancora lontani dal ritenere che la soluzione sia a portata di mano ma siamo anche consapevoli che una depressione che si cronicizza, se si è vigili e non si perde mai di vista la "realtà" del soggetto, può essere portata avanti senza problemi con una buona qualità della vita del paziente e senza correre grossi rischi. E' evidente che in questo caso il compito dello psichiatra non è solo quello di fare da terapeuta, ma anche da "sentinella", chiedendo la collaborazione attiva e seria di tutte le persone che direttamente o indirettamente possono accedere alla vita di quel paziente, nei periodi in cui maggiormen
te si acuisce la patologia. E comunque anche qui, lo psichiatra, oltre che attento deve essere anche molto empatico con il malato per essere in grado di cogliere quei segni che possono essere prodromici o addirittura indicativi di una decisione presa in tal senso dal paziente. Perché poi non va dimenticato che il suicidio ha anch'esso dei suoi significati intrinseci ed una sua liturgia che possono prescindere dalla malattia stessa. Per maggiore onestà intellettuale, va però anche detto che non è assolutamente vero che, come molti vorrebbero far credere, il suicidio sia presente solo nei soggetti con disturbi della personalità. Il discorso su questo evento drammatico in realtà è molto più complesso, articolato e ricco di variabili. Nei limiti del possibile,cerchiamo dunque di fare almeno un po' di chiarezza con serenità e senza drammatizzare eccessivamente,perché questo sarebbe il tipico approccio mentale che non porterebbe da nessuna parte. Dunque, cominciamo col dire la cosa più usuale: il suicidio è considerato un atto violento verso se stessi: un auto-omicidio. Nella sua lapalissiana evidenza questa frase sembra spiegare tutto e quindi potremmo dire che l'argomento è chiuso, chiarito e possiamo fermarci qui. Ma (e c'è sempre un "ma") siamo proprio sicuri che si possa definire violento e basta, un gesto che libera da una condizione di totale inadeguatezza e di angoscia paralizzante? Per chi lo compie, il suicidio ha le caratteristiche di una liberazione. Per chi lo attua non è mai una violenza. Egli ha bisogno di morte. A differenza del tentato suicidio, in cui l'identico gesto ha il senso di una richiesta d'amore: è un quasi suicidio, un grido disperato di aiuto e domanda d'attenzione, d'un bisogno di vivere che, paradossalmente, si lancia rischiando di morire. Una scena da teatro per conquistare un pubblico disattento, come se nessuno si muovesse sul palcoscenico. Come un bambino che
per richiamare l'attenzione della madre la picchia; come un adolescente che per mettersi in mostra fa l'eroe e,volendo primeggiare, rischia la vita. Allora forse quella frase è solo una definizione generica che non spiega nulla se non l'atto materiale. Meglio scendere più in profondità a questo punto per evitare il rischio dell'approssimazione. C'è bisogno di esistere in questo mondo affollato che corre per affermarsi, per un successo, comunque; in una società fatta di tante piccole platee che bisogna indirizzare a sé. E' come se si fosse spenta la vita dentro il singolo, ma ognuno la ricevesse dagli altri: una carica che viene dall'esterno. Nel gioco delle interpretazioni ci sono i suicidi malati e quelli geniali, i suicidi del popolo e quelli dei grandi, i suicidi da ricordare e quelli da dimenticare. E forse ogni suicidio è una storia irripetibile. Suicidi violenti, suicidi poetici, suicidi di libertà, suicidi di oppressione, suicidi gioiosi e suicidi tristi. Gabriel Deshaies riconosce sei processi che definirebbero sei tipi di suicidio. Probabilmente ha compiuto un buon lavoro, ma secondo me, anche inutile, perché forse è più giusto dire che ogni suicidio riconosce un processo da ricercare nella storia personale dell'individuo, ma con un sottofondo che li unisce tutti pur nella diversificazione che viene dalla stessa metodologia di vita. Le varie, diverse e variegate personalità. Mi vengono in mente
Pavese, Van Gogh, Levi, Gerstel, Andigò, Majakowskij, Blok, Pier della Vigna , Lucano, Erlandson, Seneca, Hitler, Goring, Robespierre, Althasser, Crevel, Catone, Ganivet, Parmeggiani, Caccioppoli, Morselli, Hemingway, Luigi Tenco. Nomino questi pochi personaggi più o meno famosi per celebrare, attraverso loro, il ricordo di tutti gli altri, sconosciuti, impossibili da ricordare. Forse è solo più utile distinguere i due possibili suicidi: quello rapido e quello lento. Il primo viene ottenuto con un gesto di efficacia immediata, il secondo si realizza progressivamente. Di sicuro c'è che l'uomo è l'unico essere vivente in grado di uccidersi con un gesto attivo. Tra gli uomini c'è chi lo compie con un cappio al collo per malinconia e chi con una carica di esplosivo per danneggiare il nemico politico. Nel primo caso è un gesto inutile, nel secondo eroico. Vi sono suicidi razionali e quelli passionali alla Romeo e ancora suicidi di colpa, come Giuda. Ma non sempre la fenomenologia esprime i vissuti: un suicidio "freddo" potrebbe avere motivazioni affettive inespresse o inconsapevoli e uno passionale potrebbe derivare da un'analisi lucida della realtà. Ci si suicida di solito, prima nello spazio mentale, dove si esegue con precisione e ripetutamente l'operazione che poi, spostandosi nello spazio fisico, porterà alla morte. La freddezza dell'esecuzione è proprio frutto dell'abitudine maturata nei continui suicidi fantastici; il gesto progressivamente si automatizza, perde di emotività, come se morire fosse ormai familiare. La sua iterazione nello spazio mentale può dargli addirittura un effetto piacevole. In questo gioco di morte, insensibilmente, il gesto si spost
a dal teatro del tempo e la corda non è più solo di fantasia, ma di canapa; circonda il collo mentre si è in piedi su una sedia che poi, buttata via, lascia appesi, con il dolore non di morire, ma di non poter più continuare a suicidarsi (è il motivo per cui ogni psichiatra sa che chi ha tentato il suicidio, morirà suicida. Lo 0,3% sceglie la vita!). In alcuni casi il suicidio mentale dura diverso tempo ed ha inizio proprio con le idee di morte. Un modo per cominciare a familiarizzare con questa essenza. E' per questo che il malinconico è già potenzialmente un suicida. Finisce per essere più affascinato dalla morte che non conosce che dalla vita che non sopporta. Così vive la morte, la pensa, la immagina e la visita sempre più spesso, fino ad occupare tutto lo spazio immaginario. Da qui, automaticamente, passerà sul piano della realtà per morire definitivamente. Si tende a dare molto rilievo al legame fra depressione e suicidio, ed è giusto ma non del tutto vero. Sono moltissimi, infatti, i depressi che non si suicidano e moltissimi i suicidi non-depressi. E più che mai questo può essere chiaro dopo il discorso che abbiamo affrontato a proposito dei disturbi della personalità, E poi, i santi, per esempio, hanno desiderio di morte per congiungersi a Dio. Il misticismo, in fondo, è una continua esperienza di morte. Il suicidio, dunque, può essere anche una festa d'amore, tra il singolo e la morte.