MARCO PICCOLO

PER QUANTO POSSA AFFONDARE NELLE TENEBRE, LA MIA ANIMA RISALIRA' NELLA LUCE, HO AMATO TROPPO LE STELLE, PER TEMERE LE TENEBRE


La disperazione è come una vertigine, una disarmonia, un'afflizione corrosiva, un'inquietudine devastante, un incendio freddo che consuma chi la ospita, una «straziante contraddizione» per cui diventa insostenibile essere se stessi, continuare a vivere nell'estinzione dell'identità, dei progetti, dei significati e degli affetti. Soltanto il cristiano è consapevole del carattere tremendo della disperazione, sa che essa è una malattia dello spirito che sfida il mondo e Dio per approdare al Nulla e, attraverso la coscienza del peccato, coglie il tratto edificante di questa esperienza, la possibilità di guarigione nella fede ( Soren Kierkegaard)  IL SENSO DELLA DISPERAZIONE 
La disperazione  è un sentimento che accompagna la persuasione di una sconfitta inevitabile e irreparabile, presente in soggetti incapaci di sopportare sconfit­te per una limitata soglia di tolleranza alla frus­trazione del desiderio o alla sopportazione del do­lore. S. Kierkegaard ha distinto la disperazione dal­l’angoscia  perchè, mentre quest'ultima riflette l'incapacità dell'uomo di realizzare pienamente se stesso nel mondo, la disperazione si riferisce al rap­porto dell'uomo con se stesso che, a motivo della sua finitezza, non riesce mai ad essere all'altezza delle sue possibilità. Riprendendo questa concetto kierkegaardiano, K. Jaspers parla di «disperazione vitale che nasce dalla consapevolezza di dover mo­rire nell'incertezza d'aver realizzato se stesso. Non so cosa devo volere quando, di fronte a tutte le pos­sibilità che mi si presentano, non vorrei rinunciare ad alcuna di esse, anche se non so se ce ne è una per me veramente essenziale. Non potendo scegliere, mi abbandono alla successione degli eventi consapevole del mio non-essere esistenziale» . Sul significato esistenziale e non patologico della dispe­razione si è orientata di recente anche la psicoanalisi che, con A. Haynal, afferma, appunto,  che  la disperazione non è la melanconia, anche se può talvolta diven­tarlo. La disperazione è presente nell'abbandono  del neonato e accompagna l'uomo sino alla fine della sua vita, fungendo da motore del­l'elaborazione psichica. Così, orientando rettamente il proprio viaggio esistenziale, la morte diventa «fonte di energia», sollecitazione per il vivente conscio di quella «carestia di tempo» che rende urgente ogni sua azione. Così il pensiero della morte non è più motivo di sconforto ma diventa il più «fedele alleato» di una vita significativa.