Aveva fatto troppi chilometri su strade sbagliate, raccontava James Crumley, da Three River, Texas. L’avevano portato lì le sue scarpe, diceva. Anche se questo non è il Texas, ci sono delle scarpe che possono aver trascinato qualcuno sull’ultima pista. Scarpe che uccidono e scarpe che salvano, erotiche e contadine, antiche e moderne, le scarpe del santo e le scarpe del peccato, quelle del medioevo e quelle dell’emancipazione femminile. Due bambini uccisi - Samuele e Matilda - due madri imputate, due verità da scoprire, due processi che hanno molte cose uguali e molte cose lontane, come le scarpe della morte, che girano nelle immagini dei processi, nelle fantasie dei giornalisti, nelle carte del giudizio: un sabot di montagna e una elegantissima scarpa col tacco, di color rosa. Non c’è niente di più diverso, lo zoccolo che si usa nelle stalle e quella che si mette per le feste. Una è l’arma della difesa, l’altra dell’accusa. A unirle, c’è solo la ricerca della verità. Ma la verità è come l’arte, cantava Bob Dylan. E’ solo negli occhi di chi guarda. Anche le scarpe sono oggetti da guardare. Ci sono uomini e donne che ne fanno collezione. Forse anche Elena Romani, la mamma di Matilda, ne ha un armadio pieno. L’ultima volta che è entrata in aula, è passata davanti alla Corte con il suo tailleur buono e le scarpe con i tacchi di dieci centimetri. E’ accusata di aver ucciso sua figlia. Quando era nata aveva scritto sul suo diario con la copertina gialla: «Sei venuta alla luce con il viso rivolto verso l’alto. Verso la vita». Quand’era già morta, parlava da sola piangendo, ascoltata dalle microspie: «Povera piccolina, io non voglio pensare. Non può essere che avevo dato dei calci alla mia bambina... Ma non è successo... Ma la colpa è di Anto...». Antonio era il suo fidanzato, Antonio Cangialosi. Adesso potrebbe diventare l’altro imputato del processo: o lui o lei. All’inizio dell’inchiesta, l’accusa pensava che lei avesse colpito Matilda alla schiena, con le scarpe che indossava quel giorno, di pelle e color rosa, a punta, col tacco alto, e sulla fascia laterale un disegno tipo mezza luna. La sua difesa diceva che era impossibile, che non era vero. Giovedì, è arrivato in aula il maresciallo dei Ris Roberto Gennari e ha detto: «La scarpa con il tacco non è la calzatura che ha ucciso la piccola Matilda».Venerdì in aula a Torino, anche Annamaria Franzoni aveva i tacchi, ma i calzoni che ricadevano a campana glieli coprivano. Lei guardava con ansia un altro paio di scarpe, degli zoccoli: la loro immagine è rimasta fissata sullo schermo per quasi tutta l’udienza, ripresa dall’alto, dal basso, di sopra, di sotto. Le scarpe che uccidono. E che possono salvare. A Cogne, dove hanno ammazzato Samuele, il sabot è una scarpa comune. Era la scarpa che Sant’Orso regalava ai poveri mille anni fa, ad Aosta, quando non avevano niente per camminare sul fango e nella neve. Oggi, a Cogne, le porta ai piedi il gruppo folcloristico e sono diventate il simbolo della Fiera di Sant’Orso. Secondo la difesa di Annamaria l’assassino che ha ucciso Samuele l’ha colpito con un sabot. Innanzitutto, per amore di precisione, non è un sabot quello che ha fatto vedere in aula l’avvocato Paola Savio e che da quel giorno, appena può, Bruno Vespa esibisce assieme a un mestolo nel teatrino di Porta a Porta, «è lui o non è lui?», è un semplice zoccolo di produzione industriale. Il sabot è una calzatura fatta solo dagli artigiani valdostani: ha la tomaia di cuoio e la suola sempre, esclusivamente di legno, e si chiama soque se è alta, sopra la caviglia, e soquelet se invece ha la tomaia sotto la caviglia. Dev’essere rigida, e sulla suola può essere applicato il «carroarmato», con quei denti molto profondi di gomma. Raramente è saldata con il rame per rinforzarla. Più facilmente, con il ferro. Secondo la perizia del professor Carlo Torre è la gomma applicata sulla suola, che avrebbe fatto schizzare il sangue sulle pareti, e la rigidità del legno è quella che avrebbe dato forza ai colpi. Il sabot, ti spiegano ad Aosta, è abbastanza difficile da usare e se non sai camminarci bene puoi prenderti delle storte, «ma non patisci né il caldo né il freddo, perché il legno è un ottimo isolante». Lo portano negli orti, o nelle stalle. Sarebbe impossibile invece vedere delle scarpe con i tacchi in una stalla. Ma sarebbe impossibile vedere in quei posti pure Elena Romani, ex hostess, dal passo spedito e dallo sguardo che ammalia. Il giorno che la sua piccola morì, andò all’interrogatorio con il trucco agli occhi, il vestito buono e le solite scarpe con i tacchi. Aveva i capelli neri sciolti sulle spalle, e teneva lo sguardo alto, come chi sa d’essere molto bella. Per quella sua immagine, l’avevano già condannata prima ancora di cominciare. Il suo processo adesso sembra arrivato quasi a una svolta, perché i giudici dovranno decidere se mandare sul banco degli imputati pure il suo ex fidanzato. A Torino, invece, su quel banco c’è solo Annamaria. Da una parte le scarpe del peccato stanno uscendo di scena, dall’altra quelle del santo potrebbero fare un miracolo. Ma bisogna ancora camminare tanto.