17 settembre 1985 (la condanna)-17 settembre 2010 (il ricordo)ENZO TORTORA UN UOMO INNOCENTE. IL PROBLEMA "GIUSTIZIA" IN ITALIAIl conduttore di «Portobello» fu ammanettato sotto l'occhio della Tv con un'accusa infamante: traffico di droga
A quei tempi il principale problema italiano era la "giustizia ingiusta", dopo 27 anni il principale problema di questo Paese è ancora la "giustizia ingiusta" QUELL'ESTATE dell'83 non perse l'onore Enzo Tortora, ma la giustizia italiana che lo martirizzò. Perse l'onore il sistema dell'informazione, che si scoprì feroce, implacabile, protagonista di un accanimento mediatico senza paragoni nell'annichilimento morale di un uomo-simbolo. Lo persero i magistrati di Napoli i quali, anzichè espiare per le loro gravi colpe, sono stati addirittura promossi e protetti dall'omertà di casta. Lo perse la politica italiana, che fece finta di nulla, non capì la terribile portata della persecuzione cui fu vittima Enzo Tortora e giunse persino ad ignorare il verdetto di un referendum in cui si invocava la “responsabilità civile” per chi si era macchiato, per dolo, di una grave manchevolezza etica e professionale. L'immagine di Tortora ammanettato il 17 giugno 1983, catturato all'Hotel Plaza, esibito come un trofeo di guerra, violentato dalle telecamere e dai taccuini dei giornalisti, divenne un'immagine spartiacque. In quella torrida estate che disintegrò ogni principio garantista, i media decisero di mettersi dalla parte della variopinta schiera di accusatori di Tortora. Presero per oro colato qualunque fantasticheria del “pentito” Giovanni Pandico, pregiudicato, tra l'altro, per tentato incendio della casa dei genitori e tentato avvelenamento della fidanzata quattordicenne oltrechè assiduo frequentatore dei manicomi giudiziari. Non mossero obiezioni alle dichiarazioni del “pentito” Pasquale Barra detto “O animale”, che nel 1981, nel carcere di Bad' e Carros, aveva ucciso Francio Turatelo, divorandone le viscere. Non si scandalizzarono per la protervia del “pentito” Gianni Melluso detto “il bello” che chiama Tortora “Enzino” e dichiara di aver trafficato con “Enzino” con undici (undici) chili di cocaina. I media si sdraiano sulla linea colpevolista, vengono “embedded” sul fronte dell'accusa, senza un dubbio, un sussulto, un soprassalto di incredulità. Ci furono eccezioni, naturalmente. Da Enzo Biagi a Lino Jannuzzi, da Massimo Fini a Vittorio Feltri, da Rossana Rossanda a Walter Vecellio a Stefano Rodotà a Giorgio Bocca, da Giuliano Ferrara a Maurizio Costanzo, cominciarono a fioccare interrogativi e proteste. E i radicali di Marco Pannella diedero a Tortora la possibilità di condurre una battaglia che andasse al di là del suo pur allucinante caso “personale” per mettere sotto accusa la “Giustizia ingiusta”, l'abuso del pentitismo, i tempi mostruosamente lunghi delle indagini, la spettacolarizzazione degli arresti, la distruzione sistematica di chi viene triturato da una macchina imponente e insensata. Hanno raccontato che, quando Tortora venne condannato dal tribunale di primo grado, in alcune redazioni si stapparono bottiglie di champagne per brindare all'odioso presentatore. Può darsi che sia una rappresentazione esagerata. Può darsi. Di sicuro, però, nessuno brindò quando Tortora venne assolto in appello. Scagionato ma minato nel profondo del suo spirito e del suo corpo. Era “rinato”. Ma non era più lo stesso, da quell'estate dell'83. SUBITO DOPO LA MORTE PERCHE' L'INGIUSTIZIA UCCIDE.