punto sul rosso

Passé composé


Appoggio le dita sulle tempie, con i palmi premo sugli zigomi e tiro: la pelle del viso si tende, l’occhio si allunga, gli zigomi si spianano, gli angoli della bocca si alzano. Mi guardo nello specchio del bagno: quanti anni avrò perso? Allento lentamente la pressione, lascio che la pelle si ricomponga ruga per ruga senza fretta: un movimento troppo brusco la farebbe spaccare, fendere, smagliare. Sono una persona superficiale. Le superfici a volte sono così profonde che mi ci perdo. Non di meno resto superficiale. In senso descrittivo, non morale –chioso a me stessa, ma non so esattamente cosa voglio intendere e se intendo solo darla a intendere.Non credo che le parole siano importanti quanto le superfici, ciò che è, è prima ancora delle parole.Forse era stata mia madre a tirarsi con le mani la pelle del viso anni or sono: una volta, non di più, e il gesto si era stemperato in una piccola risata dissimulatrice. Come se guardarsi nello specchio e fare qualcosa di sciocco  per arginare il tempo e la sua erosione fosse una cosa sciocca.La figlia che guarda registra il gesto ma non il suo significato, per quello c’è tempo. Ma quando arriva quel tempo la figlia si dice “non ero preparata”. La figlia cresce trascinandosi dietro una valigia di immagini sempre più pesante, talmente pesante che un giorno la issa su un parapetto e con una spinta la fa precipitare nel fiume, dove si ingrossa ma non affonda, non affonda mai e torna, per essere trascinata ancora, più pesante di prima. Allora la figlia, invece di maledirla, la apre. E inizia così a non essere più figlia.Le superfici parlano. Se qualcosa significa con prepotenza, ci cattura e coinvolge, allora diciamo che parla. Soggiaciamo alla dittatura simbolica del verbale: quel corpo parla. E invece no, il corpo sta zitto, e anche quando è fermo, si muove, è carico, carico di energia; anche quando è lasso su un giaciglio, infermo e svuotato, anche lì, il corpo è, e per essere non ha bisogno di parole, le parole sono pleonastiche non necessarie: nel voler dire, tolgono; nel voler esprimere, disperdono. Il corpo è la superficie delle superfici, e non sarà mai ottuso.La ruga è profonda, l’osso sfuggente e un dente le manca. La madre non dondola più il piede davanti alla tv, le tremano le rughe della bocca mentre se ne sta con la bocca all’ingiù e guarda nel vuoto perché solo nel vuoto trova un po’di pace, una tregua gentile dalle spire del presente, ah il presente questo sconosciuto, a lei sconosciuto, eppure c’è perché stringe e schiaccia, se ne accorge quando le manca il respiro; prima c’era il passato a distoglierla dal presente, a colmare la lacuna del presente, ma il passato è diventato un buco nero, come se, come se non fosse stato mai vissuto. Non ha più un posto dove andare, la madre, le restano solo parole, un accumulo di parole che si ripetono,che si ammucchiano in una massa vociante che rimbomba nel vuoto e lo accresce, lo infetta. Anche nel vuoto, la madre, non è più al sicuro. Nessuno è più al sicuro, ora che l’infezione galoppa, ringhiando, e fa precipitare il tempo e disgrega tutte le coscienze, quelle vere e quelle false, ora che l’illusoria linearità è saltata e le parole, inutili, non riescono a ricomporla, inutili sì, perché si divorano tra loro defecando altre parole, parole infette.Anche la parola madre è infetta, la parola della relazione primordiale, della relazione per eccellenza. E quando si infetta la parola madre … Saltano tutte le connessioni, si banchetta ognuno al proprio tavolo, ognuno cannibale di se stesso, ognuno col suo nome scritto alla voce “piatto del giorno”, del giorno presente, e di quelli a venire.Basterebbe radunare poche parole, farne un fagotto e lasciarle lì, mute, riposare, riposare il tempo che basta, che basta alle superfici per tornare a parlare.