punto sul rosso

Mosche filanti


Evito il bianco per un disturbo di visione. Il bianco ha perso nitore e fissità. Davanti alla pagina bianca i miei occhi si ritirano offesi. Evito di scrivere per non mortificare i miei occhi, ed evitando di scrivere mi evito anche di pensare. Non penso a scrivere e non penso a cosa fare, non penso al presente tantomeno al futuro. Al passato, sì, visto che quello è stato già scritto. Se non scrivo, non penso. Non penso a nulla. Quando non pensi a nulla, ti restano solo delle percezioni, ma minime, grezze, con tutti i limiti di una percezione senza elaborazione. Quando non pensi, ti restano solo delle registrazioni. Tavolo duro quadrato, luce accesa, luce spenta, sedia girevole: e queste sono le cosiddette registrazioni oggettive, ortodosse. Poi ci sono quelle distorte, anomale tipo: specchio riflettente, mano destra mano sinistra, piede/scarpa. Queste ultime sono regressive, sono da alienazione al penultimo stadio. Perché all’ultimo puoi solo registrare l’attrito aria/corpo mentre sei in caduta libera dal quindicesimo piano di un palazzo. Quando non pensi a nulla, registri. E questo pensiero non è un vero pensiero ma a sua volta una registrazione. E scopri che con le registrazioni ci puoi anche vivere, che per vivere non occorre pensare. Non pensi nemmeno se ci sono degli altri che come te vivono di registrazioni. Se registri, non pensi. A nulla. Ma dire nulla è fuorviante se non paradossale, e invece non c’è nulla di paradossale. Per cui è corretto dire: se registri, non pensi. Punto.   Ciò non vuol dire avere la testa vuota. Anzi. La testa è piena. Ma di scontrini. C’è uno scontrino per tutto. Scontrino-ore, scontrino-frigo, scontrino-lavoro, scontrino-cinema, scontrino-macchina, scontrino-emozioni, scontrino-amici, scontrino-sesso. C’è uno scontrino per tutto e nessun prezzo. E nessun costo, perché lo scontrino è senza carta e senza inchiostro. A voler essere puntigliosi, però, una forma di costo c’è: l’usura. I miei occhi si stanno usurando. Il medico mi ha prescritto delle vitamine in bustina, e lo ringrazio per avermi offerto questo palliativo. Palliativo. In questa parola c’è un giudizio, quindi un pensiero. Se usi la parola palliativo la tua mente sta organizzando la realtà su piani diversi, quindi sta pensando. No, non sto bluffando, mi sono solo distratta. Ho emesso un giudizio perché so. So che a questo disturbo non c’è rimedio. Ed è per questo che il palliativo non lo mando giù. Qualcuno la chiamerebbe consapevolezza, cadendo in errore. Qualcun altro interferenza, facendo centro. Il medico, scrupoloso, mi chiama e mi chiede se prendo le bustine. No, è la mia risposta registrata in diretta. Che la vita di chi non pensa sia una diretta differita lo sto registrando adesso, non c’è trucco e non c’è inganno, giuro di non averla pensata prima. Dopo tutto io non penso. Registro. Ma i miei occhi sembrano più affaticati di prima, li sento muti, li vedo spenti. Li ho registrati allo specchio questa mattina cercando di non essere vista mentre mi lanciavo manciate di acqua fresca in faccia. Per questo ho chiamato il medico e chiesto consiglio. Usi dei fogli colorati, provi con l’amaranto, vedrà che la sua vista ne gioverà. E così scrivo sul monitor amaranto, su carta amaranto, su muri amaranto. I miei occhi se la ridono, se la ridono di questo palliativo. Se la ridono e tra di loro sghignazzano ma a me vogliono fare coraggio e allora mi dicono di apprezzare molto questo rimedio, dicono che così potrò disfare il cumulo di tutti gli scontrini, disperderli, bruciarli; dicono che così potrò sgomberare, pulire e fare spazio, spazio, quanto più spazio posso. A tutto il vuoto che c’è.