Angelo Quaranta

Giampiero Mughini e l'inno mazionale


di Giampiero Mughini Quando lo sento mi viene la pelle d’oca. Mi acceca simbolicamente ed emotivamente per quello di cui è carico e di cui un secolo e mezzo di storia l’hanno caricato. Dico l’ “Inno degli Italiani”, di cui il ventenne genovese Goffredo Mameli scrisse le parole quando aveva vent’anni, due anni prima di morire a Roma per le conseguenze di una ferita da baionetta alla gamba che s’era infettata.Una ferita che Mameli s’era procurato combattendo contro i francesi, che stavano dalla parte del Papa, alla Villa del Vascello. L’Italia aveva “chiamato”, e lui aveva risposto all’appello e s’era scaraventato in prima fila e aveva girovagato (talvolta con la divisa dell’esercito di Giuseppe Garibaldi) dappertutto lungo lo Stivale purché l’Italia si chiamasse Italia, perché noi fossimo gli italiani e orgogliosi di dirci tali.Eccome se sono felice quando vedo che i nostri calciatori (com’è stato lunedì sera prima dello scontro con il Paraguay) lo cantano a voce spiegata, felici e orgogliosi di star cantandolo e a differenza di dieci o quindici anni fa, quando la più parte di loro teneva le labbra rigorosamente chiuse mentre continuava a masticare la gomma americana.Il caso ha voluto che quando sono venuto ad abitare a Roma, nel gennaio 1970, la casa che ho fittato sorgesse sullo spazio che era stato un tempo l’Ospizio della Trinità dei Pellegrini, un luogo di accoglienza e di riposo che la Chiesa cattolica aveva creato nella seconda metà del Seicento ad ospitare i pellegrini dell’Anno Santo. Durante i combattimenti della Repubblica Romana, quell’ospizio funzionò da ospedale da campo dove ricoverare i feriti italiani.Mameli ci arrivò il 3 giugno 1849. A tutta prima la ferita non sembrava grave. Lo divenne a causa di un’infezione che andò crescendo e devastando per tutto un mese, finché il 3 luglio a Mameli amputarono la gamba. Tre giorni dopo era morto. Il luogo dove sorgeva l’ospedale era ancora intatto nei primi anni Settanta e lo è tuttora.Ci avevano costruito sopra un palazzo, dove io abitavo al terzo piano. Lì dov’era l’ospedale avevano messo per un tempo dei tavoli per giocare a ping pong, uno sport che ho amato molto. Quando giocavo mi immaginavo dove stava il letto su cui Mameli consumò la sua lunga agonia nella rovente estate romana.A una serata del Maurizio Costanzo show dissi una volta quanto amassi l’Inno di Mameli e come mi umiliasse che i nostri giocatori non lo cantassero, e laddove i calciatori della nazionale francese (di cui la metà erano neri, e dunque provenienti dalle colonie) lo cantavano a tutto spiano. Avevo di fronte una soubrette televisiva che volle aprire la bocca a far rumore.Disse che l’inno francese, nato da una rivoluzione, quello sì che valeva la pena di essere cantato; non il nostro, che a una donna della sua levatura appariva miserevole e provinciale. Parlava, senza sapere di che cosa stesse parlando. Neppure le replicai, perché a tutto c’è un limite.Adesso succede che qualche comprimario della politica italiana ci tenga a scansare l’Inno di Mameli durante le manifestazioni ufficiali, o magari a preferirgli una qualche cantata del grandissimo Giuseppe Verdi, ma questo solo perché Verdi è “un lùmbard”. E perché non allora l’ “Evviva l’Italia” del mio amico Francesco De Gregori, che è una bellissima cantata moderna scritta nel gusto e nelle parole trainanti che sono divenute le nostre?Solo che non c’entra niente. Che con quelle parole di Mameli e con quella musica l’Italia è nata, quelle sono le parole che ci hanno unito. Tutto il resto è volgarità e menzogna.