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Non si alza

Post n°1409 pubblicato il 06 Ottobre 2016 da non.sono.io

Una goccia scende lenta giù dallo specchio, e punta al lavandino. Io la seguo con gli occhi fino a quando quella mi passa sulla fronte riflessa, e allora diventa inevitabile incontrare il mio sguardo. Istintivamente mi aggiusto i capelli con una mano, ripetendo meccanicamente il solito gesto che compio tutte le volte che sono nervoso. Celarmi le calvizie con i ciuffi rimasti mi fa sentire meglio, più sicuro, più calmo. Ma è una distrazione da poco: ci metto un attimo a ritornare nella realtà, in questo cesso, con le braghe calate, e il cazzo moscio.
Da dietro la porta, chiusa a chiave, mi arriva flebile una musichetta di queste che escono dalle casse dei telefonini moderni, dove si sente solo un tum-tum e una vocetta strozzata che ulula qualcosa di indefinibile. I giovani di adesso questo lo chiamano ascoltare musica. Sono già cinque minuti che sto qui dentro a cercare di concentrarmi, non posso passarci tutta la sera, e già so che quando quella marcetta finirà io dovrò uscire, in tutti i casi. Mi sudano le mani, ma cerco di non pensarci perché quando uno si trova nella mia situazione non può permettersi sprechi di pensieri. Devo (ne sono quasi certo), devo solo concentrarmi di più, è facile.
Allora con la memoria ritorno alla prima volta che conobbi Lucia, quando mia figlia me la presentò, una sera che pioveva e mi aveva telefonato chiedendomi se potevo riaccompagnare a casa lei e una sua amica. Stavano in un pub sulla Flaminia, di cui non ho mai saputo il nome. Lei, prima di entrare, mi salutò dal finestrino. Aveva i capelli fradici e scansava i goccioloni pesanti che le colavano sulle labbra con repentini quanto apparentemente innocenti movimenti della lingua. Quella fu anche la prima volta che me lo fece venire duro. L’erezione mi colse inaspettata, fuori contesto, e mi lasciò con la voglia di quella linguetta rosa tutta la notte. Quel desiderio non mi abbandonò nemmeno il giorno dopo, come speravo, e ogni volta che mi rivenivano in mente quelle labbra tenere, bagnate dalla pioggia e dalla saliva, mi si aprivano scenari di amplessi selvaggi, consumati di fretta, nei bagni di qualche bar di periferia.
Poi mia figlia e lei iniziarono a studiare insieme. Lucia veniva a casa quasi tutte le sere, anche se ci potevo stare poco, dato che quando tornavo da lavoro lei se ne andava. Facevo solo in tempo a rubare con gli occhi qualche scorcio di pelle lombale, lasciata libera dalla moda dei pantaloni a vita bassa, per il dopo cena, quando andavo in bagno a masturbarmi con i suoi ricordi. Da quella striscia di carne ricostruivo con la fantasia tutto il resto del corpo; mi immaginavo come poteva essere al tatto il culo di una diciottenne, liscia, soda, e come dovevano essere turgidi i suoi seni nel resistere alla mia stretta. Bianchi e immacolati da smagliature e moscerie, così distanti dalle mozzarelle che ormai sono costretto a palpare per trovare un po’ di soddisfazione, da queste giovani vecchie dai calzini penzolanti. Il mio cazzo allora si faceva macigno e gagliardo gridava: “Portami in quella figa, oh mio capitano”.
E quindi perché adesso non risponde? Adesso che Lucia sta lì, dietro quella porta, che mi aspetta, e che mi vuole, perché non mi viene duro? Perché non riesco a sfruttare questa occasione che mi sono procurato e che forse è l’ultimo anelito che può regalarmi la mia vita piatta e senza più emozioni, l’estrema possibilità di alzarla un po’ dal suolo dove giace da anni.
Sarà perché per troppo tempo non ho avuto niente da raccontarmi, ma ho perso l’abitudine a parlare con me stesso. Così, quasi in maniera naturale, inizio a parlare al mio cazzo. Mi rivolgo a lui come fosse una persona, come possedesse una volontà sua, o come se fosse una divinità alla cui imponderabilità è strettamente legata la mia sorte. E’ una preghiera dimessa, a tratti si fa supplica, a volte diventa paterna e a volte minacciosa. Gli riassumo con pazienza la situazione, gli ricordo che lì fuori c’è un metro e settantasette di diciottenne, in slip e reggiseno, e che è lei quelle sulle foto che guardava dal telefonino, che gli piacevano tanto. Ma lui stasera funziona al contrario: più lo stimolo più sviene. E’ un dramma tutto maschile, una di quelle piaghe che le donne non vivono e che per questo sminuiscono. Più provo a stimolarlo, più lui si abbandona ad un flemme adagiarsi, tanto che a un certo punto mi prende anche il sospetto che non ci passi più il sangue dentro. Nessuna cosa più di un pisello moscio ricorda la morte.
Poi in una pausa di riflessione, mi accorgo che la musichetta del cellullare tace. Non c’è più tempo, le dirò di rivestirsi, che non è il giorno buono, o qualsiasi cazzata mi venga in mente. Se c’è un momento in cui l’adulto si rivela veramente tale, è quando accetta il manifestarsi dell’imparzialità del caso nelle sue forme più perverse. Quando al rimpianto sopravviene la rassegnazione, e tutto torna come un bagnasciuga dopo l’onda.
La mia vita non s’è alzata nemmeno oggi.

 
Rispondi al commento:
misteropagano
misteropagano il 06/10/16 alle 15:26 via WEB
e quindi ..non esiste una vera etą per divenire adulti, sembra bambinescenza non arrivare al "punto" e adultescenza gingillarsi in queste chiacchierate tra sč e lui..chissą se le donne parlano con la loro topa ? sognando cosa? di sdraiarsi!:):)Ecco oggi la mia vita non s'č sdraiata nemmeno oggi..(parbleu):sempre ottima scrittura ciao^
 
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